venerdì 5 luglio 2024

Lo sguardo da lontano di Elisa Marchinetti

 

LO SGUARDO DA LONTANO

 

Un ronzio metallico e martellante, associato  ad un brusio di voci, mi accolse  sulla soglia della camera ardente, non appena vi  entrai.

Il freddo artificiale, provocato dal condizionatore,  era un pugno allo stomaco in quell’afosa giornata di metà Luglio.  Dentro, l’aria, già satura di dolore e mestizia, trasudava dell’aroma pungente dei garofani   nei vasi posti ai lati del catafalco.

Mi bastò intravederne  i pochi  tratti del viso che si scorgevano da un sottile velo delicatamente adagiato sul volto, per trattenermi  dall’avvicinarmi troppo alla bara.

Mi bastò un breve, ma intenso sguardo alla morte che l’aveva trasfigurata, uno schiaffo alla  dignità  umana,  per impedirmi di rovinare le ultime  immagini  di lei ancora viva che con tutta forza  volevo trattenere. Pochi secondi in quella stanza, uno spartiacque dell’esistenza dove i vivi salutano i morti, mi erano stati sufficienti per decidere di rimanere lì dove mi ero fermata,  immobile, a fiutare la fine dell’uomo  e a riavvolgere il racconto dei miei ricordi con lei e di lei.

“Condoglianze cara” mi rivolse una signora di mezza età, abbracciandomi languidamente.

“Grazie”, risposi timidamente, stringendole le mani e addossandomi, poi, alla parete più vicina.

 Erano passati non più di quindici giorni dall’ultima volta che avevo vista  mia zia e  non sarebbe stato il rito tradizionale del saluto  al defunto, quella veloce passerella ad ossequiare il morto per  spogliarne i lineamenti, seguita da una qualche Ave Maria recitata a fior di labbra, nel mormorio confuso di altre preghiere sommessamente scandite, seguite da un sbrigativo  segno della croce, e dall’attesa per il bacio  ai parenti, a stravolgere il mio intimo modo di salutare la morte, dopo tutto. Già perché il mio prevede un lungo momento di silenzio, uno straniamento  dal reale, un distacco momentaneo dal fluire degli eventi,  ad occhi bassi e velati.

Così decisi di fermarmi  a qualche passo dal baldacchino che sosteneva la cassa, posta  al centro della camera ardente, in una posizione quasi da retroguardia, che non fosse  di intralcio  al passaggio di parenti e conoscenti, ma nemmeno da protagonista del lutto, tale però che mi permettesse di non perdere il contatto visivo con lei, ogniqualvolta sollevavo appena il capo per cercarla.

La ritrovai in una carrellata di immagini  pervicacemente radicati e custoditi  nella mia memoria, fotogrammi  di momenti e  atteggiamenti  impressi nel mio tessuto di esperienze con lei, istantanee di voci e suoni, parole e frasi ricorrenti. Erano soprattutto ricordi legati alla mia fanciullezza, alle mie estati trascorse  in collina dai nonni, alla vita dei campi e della stalla, al duro lavoro dei contadini. Erano i ricordi di una bambina le cui uniche figure femminili di riferimento in quel contesto rurale duro, fisicamente maschilista, popolato per lo più da adulti e da anziani, erano la zia, che viveva con la sua famiglia poco distante dai miei nonni, e la nonna.

Due stili di vita abbastanza simili, ma  due modi opposti di relazionarsi con me  e di  dimostrarmi  affetto, pur essendo la prima figlia della seconda.

Il  vocabolario della zia, cresciuta a campi  e  stalla,  non contemplava parole legate alla dolcezza  femminile,  ma termini relativi alla fatica e alle tribolazioni del mondo contadino, alla stagionalità degli eventi e delle  attività  da eseguire, alla quotidianità dei riti nella cura delle bestie.

Più che termini, erano comandi  impartiti urlando  o rimbrotti violentemente scanditi  nel dialetto locale, ordini  che  i suoi “uomini”, marito e due figli, i miei cugini,  molto più grandi di me, avevano imparato ad accettare a testa china e spalle ricurve per evitare un dilagare di improperi, trattenendo a denti stretti  eventuali repliche che poco avrebbero sortito in un ipotetico battibecco.

La rividi nella semioscurità di una piccola stalla, seduta su uno sgabello di legno a tre piedi, intenta a  mungere una mucca dal manto pezzato; la schiena ricurva in avanti, la  testa  poggiata sul  ventre morbido  della bestia e tra le gambe,  lasciate  scoperte appena sopra le ginocchia da un vestito a fiorellini di bassa fattura  che indossava solo per quel rito,  il bigoncio per raccogliere il latte.

Ogni tanto con una manata  allontanava le mosche che la infastidivano  senza mai distogliere lo sguardo dal suo lavoro e senza mai perdere il ritmo della mungitura. Ogni tanto  con  un tocco veloce si  sistemava  il fazzoletto sulla testa che, lentamente e per via dei rapidi movimenti, era sceso; nel ricacciarlo lontano dalla  fronte  liberava un viso dal colorito roseo e dall’aspetto sano.   Neanche verso gli animali era morbida; se la bestia osava alzare  la coda frustando l’aria, sollevando paglia mista a sterco, mentre lei si spostava da una mangiatoia all’altra,  riceveva  una sfilza di improperi in dialetto  e un colpo leggero  sulle natiche  dato  con il catino vuoto o, talvolta, con il manico di una forca.  Un muggito stridente, seguito da qualche stropiccio di zoccoli, era la risposta che riceveva.

Ma lei, incurante e impavida, proseguiva nel suo lavoro.

A quell’immagine sorrisi; lei  abituata a stare con gli animali più che con gli uomini, a dialogare con loro più che con i suoi pari, a concepire la vita assecondandola nei ritmi che aveva precocemente  imparato  e a ritagliare per sé poco tempo e spazio, regnava fiera  e indisturbata in quel suo mondo.

Interruppi il filo dei ricordi e alzai lo sguardo per cercarla. Il naso  lungo e aquilino spuntava appena  dalla bara;  alcune foto dei suoi cari e il rosario si intravedevano fra le mani congiunte sul petto.

In quel momento il mormorio costante e lamentoso, che aveva accompagnato i miei pensieri,  improvvisamente cessò.

“Preghiamo insieme per la cara Ida giunta alla fine del suo cammino terrestre”, iniziò il prete  entrato a benedire la salma.

Sollevai di nuovo lo sguardo e lo fermai su quel simbolo religioso incastrato fra le sue dita.

Anche il rosario mi strappò un abbozzo di sorriso; quella sfilza di Ave Maria, che Lei stessa aveva recitato fervidamente e a voce alta in varie occasioni liturgiche, testimonianza della sua appartenenza ad una fede, contrastava con  la sua  laica pragmaticità, spesso condita da  qualche bestemmia, espresse più per abitudine che per consapevole conoscenza semantica.

“Nel nome del Padre, del Figlio e  dello Spirito Santo…”  continuò il sacerdote.

La andavo a trovare quasi tutti i pomeriggi, verso le quattro, l’ora della mungitura: mi sedevo sulle balle di fieno accatastate contro il muro e la osservavo muoversi agilmente in quell’ambiente cupo, impregnato di  mosche, mosconi, sterco e fatica.

La poca luce entrava da una finestrella ricoperta da un mappamondo di ragnatele e da una porta di legno, situata al lato opposto,  con i battenti sgangherati  il cui catenaccio arrugginito strideva ad ogni folata di vento.

Capitava che qualche rondine attraversasse la stalla per andare a posarsi sul nido che si intravedeva incastonato  fra i  travetti del soffitto anneriti dal tempo e dall’incuria per rimpinguare i piccoli che piangevano affamati. Poco distante un’immagine  di S. Antonio, un po’ accartocciata agli angoli, prometteva benedizione a tutti.

Muggiti e garriti, alternati al suono metallico delle catene che tenevano legate gli animali alla greppia  riecheggiavano, talvolta, nella stalla.

“Sono tornate le rondini, hai visto? Non ce le hai mica le rondini a casa tua, vero?  Cosa vuoi avere tu in città?” Mi rinfacciava la zia, convinta che il suo mondo fosse l’unico possibile e che racchiudesse tutte  le  bellezze esistenti in natura.

Come potevo replicare a quelle insinuazioni? Certo che le conoscevo; ero una bambina curiosa, leggevo tantissimo e anche al mio paese, in pianura, le rondini solcavano il cielo, costruivano i nidi e al momento opportuno partivano per lidi più caldi.

Ma quel tono canzonatorio frenava qualsiasi mio desiderio di  spiegazione: a volte, restavo in silenzio, incapace di proferire parola,  a giochicchiare con un filo di paglia o ad osservare alcune mucche placidamente stravaccate a terra; a volte, alzavo lo sguardo e mi perdevo a fissare il cono di luce che si formava  in quel corridoio fra la finestrella e la porta e che rinfrangeva un pulviscolo vorticoso  di pagliuzze e di insetti.

Per uscire da quella situazione emotiva, fredda e imbarazzante,  spostavo  la conversazione su un altro argomento  che mi avrebbe permesso  di allontanarmi e di distrarmi un poco.

“Zia , dove sono i gatti?” Le chiedevo, rivelando la  mia passione  per il mondo felino.

“Ma lasciali stare!! Cosa vuoi che ne sappia io?  Vai a raccogliere le uova, piuttosto!”

Assecondare le richieste banali di una bambina su animali che poco contribuivano al suo benessere familiare significava per Lei perdere tempo in quisquiglie, quando il tempo nella sua personale equazione stava al lavoro come il lavoro stava al denaro.

L’avrei capito e compreso col tempo quel suo modo pratico di ragionare.

A quell’ordine seguiva una lista dettagliata di attività da svolgere e di accortezze da memorizzare  sulla modalità di raccolta e di conservazione delle uova, che nella sua economia domestica rappresentavano un bene prezioso.

Uscivo sul cortile antistante con il compito da assolvere, ma soprattutto  in cerca di qualche gatto da accarezzare, con cui  sfogare  la mia voglia di dolcezza.

Li trovavo acciambellati sulle balle di fieno, impilate un po’ a sghimbescio sotto il portico, o accovacciati pigramente sui gradini di casa a scaldarsi al sole. Altre volte dovevo cercarli sotto i trattori o nei fienili, a caccia di topi negli anfratti formatisi fra le assi di legno del pavimento.  Come  avessero respirato anche loro l’aria un po’ anaffettiva del luogo,  si ritraevano  insofferenti  alle mie carezze o rivelavano  il loro disappunto inarcando la schiena e drizzando la coda.

Qualcuno, addirittura, reagiva soffiandomi  la propria ribellione.

Poco ottenevo se tentavo di inseguirli; selvatici come erano, sgusciavano via veloci, miagolando disgustati per la mia intrusione.

Delusa dal loro comportamento schivo e refrattario,  portavo a termine il mio compito con la massima accortezza possibile e in breve tempo, per poi ritornare da lei nella stalla e guadagnarmi il suo sorriso e la sua stima.

L’olezzo che si  respirava là dentro era  per me insopportabile: tutte le volte che vi entravo  inalavo  un odore acre e pungente, un  fetore acido che ammorbava l’aria e attanagliava la gola.

Lo stesso odore, ricordai,  che la zia si portava addosso anche quando era fuori da quell’ambiente,  che le rimaneva appiccicato sui vestiti, anche su quelli che indossava nelle occasioni speciali, che le impregnava la pelle e i capelli e che aleggiava nella sua casa.

Lo stesso che le restò cucito addosso per anni, anche dopo aver chiuso con quella vita di fatica.

I suoi capelli. Per assonanza di immagini, feci un passo in avanti verso la bara e glieli osservai.

Sembravano cotonati e di un grigio più scuro rispetto all’ultima volta in cui la vidi, quasi giallognoli sulle punte, più o meno della stessa sfumatura che l’incarnato aveva preso  alla morte.

Indietreggiai  per rioccupare la stessa posizione che avevo lasciato accanto al muro.

A distanza di anni il ricordo che  più mi lega a lei ruota attorno ai capelli, ai miei e  soprattutto alle trecce.

Per un riflesso condizionato mi sfiorai le tempie con i polpastrelli della mano destra.

Da bambina avevo lunghi capelli, leggermente ondulati che mi accarezzavano la schiena, e che raramente  raccoglievo  in una coda: mi piacevano sciolti, liberi, morbidi al tatto e fluttuanti nelle mie corse nei campi. Di quella chioma andavo fiera.

“Ma non ti danno fastidio quei capelli? Perché non li leghi?” Mi chiedeva tutte le volte che mi vedeva. Nei suoi rari momenti liberi, più o meno nel primo pomeriggio, scendeva  per una visita veloce a me a mia nonna, per sincerarsi sulle sue condizioni o per aiutarla in qualche faccenda. Spesso si sedeva sui gradini di casa a snocciolare aneddoti e curiosità e quello era il momento che più temevo, poiché in uno slancio da donna verosimilmente premurosa, o da zia amorevolmente attenta, si improvvisava parrucchiera decisa a regalarmi una pettinatura più comoda e adatta a me.

Nel suo immaginario i capelli sciolti che coprivano in parte il volto e che a volte oscuravano gli occhi impedendo una chiara visuale delle cose,  erano simbolo di frivolezza, concetto che mal si accordava con il suo stile di vita francescano, privo di orpelli e smancerie.

“Dai, vieni qua che ti sistemo i capelli”, diceva prendendo l’occorrente e chiamandomi a sé.

Tant’è che posizionatami fra le sue ginocchia iniziava l’opera lisciandomi a lungo e con forza i capelli con una spazzola di metallo dai denti rigidi che solcavano la cute facendola arrossire; poi, separava la chioma in due parti tenendo come linea di demarcazione un’ipotetica riga divisoria che attraversava la testa in verticale ed iniziava ad imbastire le trecce.

Ogni tanto stringevo i denti quando la presa si faceva più dura.

“Ahi”, ogni tanto lamentavo perché mia zia, cui la delicatezza era sconosciuta, non prendeva i capelli in modo lieve, come invece faceva mia nonna, ma li tirava energicamente, soprattutto alle tempie, tanto che i miei occhi assumevano un taglio dalle sembianze a dir poco orientali.

“Uh, che frigna“ commentava, continuando imperterrita e fiera  la sua acconciatura  che terminava avvolgendo le punte con due elastici.

Il risultato erano due trecce lunghe e rigide che poggiavano su una nuca indolenzita ed uno sguardo   accigliato da cinesina.

Di sottecchi guardavo mia nonna cercando un’alleata alla mia sofferenza, ma Lei, presa tra l’incudine ed il martello, saggiamente taceva ed amorevolmente mi capiva.

“E’ una brava donna, lo sai; non è abituata alle femmine; è circondata da uomini”, la giustificava Lei, quando già la zia aveva preso il sentiero di casa.

Resistevo stoicamente poche ore a quel dolore alle tempie e agli zigomi, che  mi impediva di muovere i muscoli facciali e mi costringeva ad una espressione fissa con gli occhi tenuti sbarrati; poi con slancio liberatorio scioglievo i capelli e mi riappropriavo della mia identità sbarazzina.

Ho impiegato un po’ di tempo a vedere quella sua gestualità sotto un’altra luce, a riconoscere  nella sua praticità un adeguamento ad uno stile di vita che non aveva scelto, ma che le era stato imposto, a scalfire la sua ruvidezza per portare in superficie la sua vera natura intrisa di abnegazione al lavoro e semplicità contadina, a considerare i suoi modi, talora bruschi, sinceri insegnamenti.

“L’eterno riposo dona a Lei Signore e risplenda…” Nella  peregrinazione a ritroso nel mio e nel suo passato, mi ero persa buona parte dell’omelia del prete che era  giunto quasi alla conclusione del rito funebre; terminate le preghiere, chiuse il breviario, reclinò il capo per qualche secondo in una apparente comunione spirituale con il defunto, poi ripresosi, benedisse  la salma  ed i presenti elargendo a destra e a manca  un’abbondante spruzzata d’incenso.

Mi feci il segno della croce e la salutai lanciandole l’ultimo sguardo da lontano.

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