LO
SGUARDO DA LONTANO
Un ronzio metallico e martellante, associato ad un brusio di voci, mi accolse sulla soglia della camera ardente, non appena
vi entrai.
Il freddo artificiale, provocato dal
condizionatore, era un pugno allo
stomaco in quell’afosa giornata di metà Luglio. Dentro, l’aria, già satura di dolore e
mestizia, trasudava dell’aroma pungente dei garofani nei vasi posti ai lati del catafalco.
Mi bastò intravederne i pochi
tratti del viso che si scorgevano da un sottile velo delicatamente
adagiato sul volto, per trattenermi dall’avvicinarmi troppo alla bara.
Mi bastò un
breve, ma intenso sguardo alla morte che l’aveva trasfigurata, uno schiaffo alla dignità umana, per
impedirmi di rovinare le ultime immagini di lei ancora viva che con tutta forza volevo trattenere. Pochi secondi in quella
stanza, uno spartiacque dell’esistenza dove i vivi salutano i morti, mi erano
stati sufficienti per decidere di rimanere lì dove mi ero fermata, immobile, a fiutare la fine dell’uomo e a riavvolgere il racconto dei miei ricordi
con lei e di lei.
“Condoglianze cara” mi rivolse una
signora di mezza età, abbracciandomi languidamente.
“Grazie”, risposi timidamente,
stringendole le mani e addossandomi, poi, alla parete più vicina.
Erano passati non più di quindici giorni
dall’ultima volta che avevo vista mia
zia e non sarebbe stato il rito
tradizionale del saluto al defunto,
quella veloce passerella ad ossequiare il morto per spogliarne i lineamenti, seguita da una
qualche Ave Maria recitata a fior di labbra, nel mormorio confuso di altre preghiere
sommessamente scandite, seguite da un sbrigativo segno della croce, e dall’attesa per il bacio ai parenti, a stravolgere il mio intimo modo
di salutare la morte, dopo tutto. Già perché il mio prevede un lungo momento di
silenzio, uno straniamento dal reale, un
distacco momentaneo dal fluire degli eventi,
ad occhi bassi e velati.
Così decisi di fermarmi a qualche passo dal baldacchino che sosteneva
la cassa, posta al centro della camera
ardente, in una posizione quasi da retroguardia, che non fosse di intralcio al passaggio di parenti e conoscenti, ma
nemmeno da protagonista del lutto, tale però che mi permettesse di non perdere
il contatto visivo con lei, ogniqualvolta sollevavo appena il capo per
cercarla.
La ritrovai in una carrellata di
immagini pervicacemente radicati e
custoditi nella mia memoria,
fotogrammi di momenti e atteggiamenti
impressi nel mio tessuto di esperienze con lei, istantanee di voci e
suoni, parole e frasi ricorrenti. Erano soprattutto ricordi legati alla mia
fanciullezza, alle mie estati trascorse in collina dai nonni, alla vita dei campi e della
stalla, al duro lavoro dei contadini. Erano i ricordi di una bambina le cui
uniche figure femminili di riferimento in quel contesto rurale duro,
fisicamente maschilista, popolato per lo più da adulti e da anziani, erano la
zia, che viveva con la sua famiglia poco distante dai miei nonni, e la nonna.
Due stili di vita abbastanza
simili, ma due modi opposti di
relazionarsi con me e di dimostrarmi affetto, pur essendo la prima figlia della
seconda.
Il
vocabolario della zia, cresciuta a campi
e stalla, non contemplava parole legate alla
dolcezza femminile, ma termini relativi alla fatica e alle
tribolazioni del mondo contadino, alla stagionalità degli eventi e delle attività da eseguire, alla quotidianità dei riti nella cura
delle bestie.
Più che termini, erano comandi impartiti urlando o rimbrotti violentemente scanditi nel dialetto locale, ordini che i
suoi “uomini”, marito e due figli, i miei cugini, molto più grandi di me, avevano imparato ad accettare
a testa china e spalle ricurve per evitare un dilagare di improperi, trattenendo
a denti stretti eventuali repliche che
poco avrebbero sortito in un ipotetico battibecco.
La rividi nella semioscurità di una
piccola stalla, seduta su uno sgabello di legno a tre piedi, intenta a mungere una mucca dal manto pezzato; la
schiena ricurva in avanti, la testa poggiata sul ventre morbido della bestia e tra le gambe, lasciate
scoperte appena sopra le ginocchia da un vestito a fiorellini di bassa
fattura che indossava solo per quel
rito, il bigoncio per raccogliere il
latte.
Ogni tanto con una manata allontanava le mosche che la infastidivano senza mai distogliere lo sguardo dal suo
lavoro e senza mai perdere il ritmo della mungitura. Ogni tanto con un
tocco veloce si sistemava il fazzoletto sulla testa che, lentamente e
per via dei rapidi movimenti, era sceso; nel ricacciarlo lontano dalla fronte liberava un viso dal colorito roseo e dall’aspetto
sano. Neanche verso gli animali era morbida; se la
bestia osava alzare la coda frustando
l’aria, sollevando paglia mista a sterco, mentre lei si spostava da una
mangiatoia all’altra, riceveva una sfilza di improperi in dialetto e un colpo leggero sulle natiche dato con il catino vuoto o, talvolta, con il manico
di una forca. Un muggito stridente,
seguito da qualche stropiccio di zoccoli, era la risposta che riceveva.
Ma lei, incurante e impavida, proseguiva
nel suo lavoro.
A quell’immagine sorrisi; lei abituata a stare con gli animali più che con
gli uomini, a dialogare con loro più che con i suoi pari, a concepire la vita
assecondandola nei ritmi che aveva precocemente imparato
e a ritagliare per sé poco tempo e spazio, regnava fiera e indisturbata in quel suo mondo.
Interruppi il filo dei ricordi e
alzai lo sguardo per cercarla. Il naso lungo e aquilino spuntava appena dalla bara; alcune foto dei suoi cari e il rosario si
intravedevano fra le mani congiunte sul petto.
In quel momento il mormorio costante
e lamentoso, che aveva accompagnato i miei pensieri, improvvisamente cessò.
“Preghiamo insieme per la cara Ida
giunta alla fine del suo cammino terrestre”, iniziò il prete entrato a benedire la salma.
Sollevai di nuovo lo sguardo e lo
fermai su quel simbolo religioso incastrato fra le sue dita.
Anche il rosario mi strappò un
abbozzo di sorriso; quella sfilza di Ave Maria, che Lei stessa aveva recitato
fervidamente e a voce alta in varie occasioni liturgiche, testimonianza della
sua appartenenza ad una fede, contrastava con la sua laica pragmaticità, spesso condita da qualche bestemmia, espresse più per abitudine
che per consapevole conoscenza semantica.
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…” continuò il sacerdote.
La andavo a trovare quasi tutti i
pomeriggi, verso le quattro, l’ora della mungitura: mi sedevo sulle balle di
fieno accatastate contro il muro e la osservavo muoversi agilmente in quell’ambiente
cupo, impregnato di mosche, mosconi, sterco
e fatica.
La poca luce entrava da una
finestrella ricoperta da un mappamondo di ragnatele e da una porta di legno,
situata al lato opposto, con i battenti
sgangherati il cui catenaccio
arrugginito strideva ad ogni folata di vento.
Capitava che qualche rondine
attraversasse la stalla per andare a posarsi sul nido che si intravedeva
incastonato fra i travetti del soffitto anneriti dal tempo e
dall’incuria per rimpinguare i piccoli che piangevano affamati. Poco distante
un’immagine di S. Antonio, un po’
accartocciata agli angoli, prometteva benedizione a tutti.
Muggiti e garriti, alternati al
suono metallico delle catene che tenevano legate gli animali alla greppia riecheggiavano, talvolta, nella stalla.
“Sono tornate le rondini, hai visto?
Non ce le hai mica le rondini a casa tua, vero?
Cosa vuoi avere tu in città?” Mi rinfacciava la zia, convinta che il suo
mondo fosse l’unico possibile e che racchiudesse tutte le
bellezze esistenti in natura.
Come potevo replicare a quelle
insinuazioni? Certo che le conoscevo; ero una bambina curiosa, leggevo
tantissimo e anche al mio paese, in pianura, le rondini solcavano il cielo,
costruivano i nidi e al momento opportuno partivano per lidi più caldi.
Ma quel tono canzonatorio frenava
qualsiasi mio desiderio di spiegazione: a
volte, restavo in silenzio, incapace di proferire parola, a giochicchiare con un filo di paglia o ad
osservare alcune mucche placidamente stravaccate a terra; a volte, alzavo lo
sguardo e mi perdevo a fissare il cono di luce che si formava in quel corridoio fra la finestrella e la
porta e che rinfrangeva un pulviscolo vorticoso di pagliuzze e di insetti.
Per uscire da quella situazione emotiva,
fredda e imbarazzante, spostavo la conversazione su un altro argomento che mi avrebbe permesso di allontanarmi e di distrarmi un poco.
“Zia , dove sono i gatti?” Le chiedevo,
rivelando la mia passione per il mondo felino.
“Ma lasciali stare!! Cosa vuoi che
ne sappia io? Vai a raccogliere le uova,
piuttosto!”
Assecondare le richieste banali di
una bambina su animali che poco contribuivano al suo benessere familiare significava
per Lei perdere tempo in quisquiglie, quando il tempo nella sua personale
equazione stava al lavoro come il lavoro stava al denaro.
L’avrei capito e compreso col tempo
quel suo modo pratico di ragionare.
A quell’ordine seguiva una lista
dettagliata di attività da svolgere e di accortezze da memorizzare sulla modalità di raccolta e di conservazione delle
uova, che nella sua economia domestica rappresentavano un bene prezioso.
Uscivo sul cortile antistante con
il compito da assolvere, ma soprattutto in cerca di qualche gatto da accarezzare, con
cui sfogare la mia voglia di dolcezza.
Li trovavo acciambellati sulle
balle di fieno, impilate un po’ a sghimbescio sotto il portico, o accovacciati
pigramente sui gradini di casa a scaldarsi al sole. Altre volte dovevo cercarli
sotto i trattori o nei fienili, a caccia di topi negli anfratti formatisi fra
le assi di legno del pavimento. Come avessero respirato anche loro l’aria un po’
anaffettiva del luogo, si
ritraevano insofferenti alle mie carezze o rivelavano il loro disappunto inarcando la schiena e
drizzando la coda.
Qualcuno, addirittura, reagiva
soffiandomi la propria ribellione.
Poco ottenevo se tentavo di
inseguirli; selvatici come erano, sgusciavano via veloci, miagolando disgustati
per la mia intrusione.
Delusa dal loro comportamento
schivo e refrattario, portavo a termine
il mio compito con la massima accortezza possibile e in breve tempo, per poi
ritornare da lei nella stalla e guadagnarmi il suo sorriso e la sua stima.
L’olezzo che si respirava là dentro era per me insopportabile: tutte le volte che vi
entravo inalavo un odore acre e pungente, un fetore acido che ammorbava l’aria e
attanagliava la gola.
Lo stesso odore, ricordai, che la zia si portava addosso anche quando
era fuori da quell’ambiente, che le
rimaneva appiccicato sui vestiti, anche su quelli che indossava nelle occasioni
speciali, che le impregnava la pelle e i capelli e che aleggiava nella sua
casa.
Lo stesso che le restò cucito
addosso per anni, anche dopo aver chiuso con quella vita di fatica.
I suoi capelli. Per assonanza di
immagini, feci un passo in avanti verso la bara e glieli osservai.
Sembravano cotonati e di un grigio
più scuro rispetto all’ultima volta in cui la vidi, quasi giallognoli sulle
punte, più o meno della stessa sfumatura che l’incarnato aveva preso alla morte.
Indietreggiai per rioccupare la stessa posizione che avevo
lasciato accanto al muro.
A distanza di anni il ricordo che più mi lega a lei ruota attorno ai capelli, ai
miei e soprattutto alle trecce.
Per un riflesso condizionato mi
sfiorai le tempie con i polpastrelli della mano destra.
Da bambina avevo lunghi capelli,
leggermente ondulati che mi accarezzavano la schiena, e che raramente raccoglievo
in una coda: mi piacevano sciolti, liberi, morbidi al tatto e fluttuanti
nelle mie corse nei campi. Di quella chioma andavo fiera.
“Ma non ti danno fastidio quei
capelli? Perché non li leghi?” Mi chiedeva tutte le volte che mi vedeva. Nei
suoi rari momenti liberi, più o meno nel primo pomeriggio, scendeva per una visita veloce a me a mia nonna, per
sincerarsi sulle sue condizioni o per aiutarla in qualche faccenda. Spesso si
sedeva sui gradini di casa a snocciolare aneddoti e curiosità e quello era il
momento che più temevo, poiché in uno slancio da donna verosimilmente premurosa,
o da zia amorevolmente attenta, si improvvisava parrucchiera decisa a regalarmi
una pettinatura più comoda e adatta a me.
Nel suo immaginario i capelli
sciolti che coprivano in parte il volto e che a volte oscuravano gli occhi
impedendo una chiara visuale delle cose, erano simbolo di frivolezza, concetto che mal
si accordava con il suo stile di vita francescano, privo di orpelli e smancerie.
“Dai, vieni qua che ti sistemo i
capelli”, diceva prendendo l’occorrente e chiamandomi a sé.
Tant’è che posizionatami fra le sue
ginocchia iniziava l’opera lisciandomi a lungo e con forza i capelli con una
spazzola di metallo dai denti rigidi che solcavano la cute facendola arrossire;
poi, separava la chioma in due parti tenendo come linea di demarcazione un’ipotetica
riga divisoria che attraversava la testa in verticale ed iniziava ad imbastire
le trecce.
Ogni tanto stringevo i denti quando
la presa si faceva più dura.
“Ahi”, ogni tanto lamentavo perché mia
zia, cui la delicatezza era sconosciuta, non prendeva i capelli in modo lieve, come
invece faceva mia nonna, ma li tirava energicamente, soprattutto alle tempie,
tanto che i miei occhi assumevano un taglio dalle sembianze a dir poco
orientali.
“Uh, che frigna“ commentava,
continuando imperterrita e fiera la sua
acconciatura che terminava avvolgendo le
punte con due elastici.
Il risultato erano due trecce
lunghe e rigide che poggiavano su una nuca indolenzita ed uno sguardo accigliato da cinesina.
Di sottecchi guardavo mia nonna
cercando un’alleata alla mia sofferenza, ma Lei, presa tra l’incudine ed il
martello, saggiamente taceva ed amorevolmente mi capiva.
“E’ una brava donna, lo sai; non è
abituata alle femmine; è circondata da uomini”, la giustificava Lei, quando già
la zia aveva preso il sentiero di casa.
Resistevo stoicamente poche ore a
quel dolore alle tempie e agli zigomi, che mi impediva di muovere i muscoli facciali e mi
costringeva ad una espressione fissa con gli occhi tenuti sbarrati; poi con
slancio liberatorio scioglievo i capelli e mi riappropriavo della mia identità
sbarazzina.
Ho impiegato un po’ di tempo a
vedere quella sua gestualità sotto un’altra luce, a riconoscere nella sua praticità un adeguamento ad uno
stile di vita che non aveva scelto, ma che le era stato imposto, a scalfire la
sua ruvidezza per portare in superficie la sua vera natura intrisa di
abnegazione al lavoro e semplicità contadina, a considerare i suoi modi, talora
bruschi, sinceri insegnamenti.
“L’eterno riposo dona a Lei Signore
e risplenda…” Nella peregrinazione a
ritroso nel mio e nel suo passato, mi ero persa buona parte dell’omelia del
prete che era giunto quasi alla
conclusione del rito funebre; terminate le preghiere, chiuse il breviario,
reclinò il capo per qualche secondo in una apparente comunione spirituale con
il defunto, poi ripresosi, benedisse la salma
ed i presenti elargendo a destra e a
manca un’abbondante spruzzata d’incenso.
Mi feci il segno della croce e la
salutai lanciandole l’ultimo sguardo da lontano.
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