COLORI
Ebbi una vita tutta mia, una volta, e la sprecai. Da allora non ho pace.
È difficile convivere in un corpo con
un’altra anima: è come contendersi un territorio. Avanzare, ritirarsi, forzare la
resa.
Più che invasore vorrei esser considerato
ospite.
Da ospite a occupante abusivo, c’è
solo un labile margine di condiscendenza.
Ando così: stufo di starmene confinato
di notte, nel ghetto, sfidai i custodi cristiani che percorrevano in barca i
canali circostanti.
Morii annegato.
Da allora il mio spirito vaga famelico,
in cerca di rivalsa.
La mia prima vita la barattai proprio
a Venezia.
Offrivo talento in cambio di un’esistenza
per me.
Entrai in un giovane uomo di ventisei
anni. Volevo esplorare il rosso.
La morte in acqua, quell’abulica
discesa in liquide ombre fino a restar conficcato nella melma del fondale, mi
privò del rosso del mio sangue sparso.
Mi mancava la prova inconfutabile
d’essermi spinto oltre il ciglio del mondo, non solo oltre il cornicione che mi
tradì, sgretolandosi.
Il giovane ebbe in dono la mia
ossessione per il rosso, lo ricercò, lo espresse in ogni suo lavoro. Celebrato
in velluti cremisi, in broccati carminio, in drappi magenta, nel fulvo
luccichio dei capelli, irresistibili, delle donne ritratte.
Plasmò il colore con le dita per
accarezzare le seriche chiome femminili che in vita si negava. Dipinse fino alla
vecchiaia.
Lo resi il pittore più famoso e ricco
del suo tempo, poi lo abbandonai.
Cinque anni prima della peste non
c’era altro da sperimentare tramite quel corpo.
La morte già la conoscevo.
La mia seconda vita fu nera, nera in
tutti i sensi.
Maestro del nero mi definirono poi.
Occorre fare attenzione al nero,
assorbe ogni colore, ogni emozione.
Io assorbivo tutto, poi esplodevo di
violenza dirompente.
Fu la prima e unica volta in cui
uccisi.
Ebbi un destino rabbioso, di terrore e
fughe, di problemi continui. Mi privai d’ogni comprensione affettuosa per le
debolezze umane, il cupo inverno sempre nello sguardo.
Dopo la condanna a morte – come non
fossimo tutti condannati a morte: chi per legge, chi da un male, dal tempo o
dal caso – non mi restò che dipingere teste mozzate per esorcizzare la sentenza.
Figure drammatiche che si stagliavano
dal nero, come emergevo io da tutto il nero fondo della mia vita tormentata.
Il mio lavoro fu un’eterna lotta tra
luce e buio, la mia esistenza pure.
E prima che le febbri mi cacciassero
dal corpo che occupavo, riuscii a impadronirmi d’un altro essere.
Il nero fu restio ad abbandonarmi, si
stemperò in un marrone che il mio nuovo ospite sperimentò grazie alla terra di
Cassel o terra di Colonia: un colore naturale composto di suolo e torba.
Non me lo so spiegare, questo
attaccamento alla bruna concretezza del marrone, quest’ansia che mi prese di
radici e stabilità. Ma allora vivevo in Olanda, terra sempre contesa e strappata
al mare; ogni centimetro sotto i piedi è conquista da difendere a unghie
sfoderate e denti stretti.
Io però mi sentivo un vascello in
balia dei flutti: nato ricco, le mie fortune declinarono in una fluida precarietà.
Forse era il mare che mi chiamava.
Il mare e il suo blu infinito, indecifrabile.
Restai in Olanda, cambiai ospite e
corpo. Mi concessi qualche anno di meste, cerulee dolcezze. Rappresentai il
lavoro, le occupazioni domestiche, le donne.
Mai rinunciai al blu, pigmento dal
costo proibitivo.
Affogavo nei debiti, pur di procurarmi
l’amato blu oltremare.
Usai la preziosa polvere di
lapislazzulo in tutti i miei quadri: pura, o per sfumature intermedie… Fu la
mia scia verso l’infinito.
Affidarmi al blu, anima e corpo, mi
avrebbe dato l’immortalità, difatti furono le sfumature di un turbante blu indossato
da una giovane ragazza con un orecchino di perla, altro dono del mare, a consegnarmi
alla Storia che travalica ogni storia.
L’anno stesso in cui morì il corpo che
mi ospitava, presi una decisione.
Ero stufo di essere uomo, ma ero
ancora perseguitato dai colori.
Non potevo rinunciare ad essi e vagare
tra nebbie e ombre, lontano dalla vita.
Decisi di piegare al mio volere un’esistenza
femminile.
Tornai in Italia, tornai a Venezia,
che amavo e odiavo e amavo.
In gioventù da mia madre merlettaia
appresi l’arte del ricamo e delle trine.
Il bianco dei pizzi mi rimase negli
occhi e nel cuore, quando passai dall’ago alla delicatezza sottile del pennello
sulla miniatura.
Il bianco mi accompagnò devoto, scelsi
l’avorio per ogni mio minuscolo capolavoro. Conquistata la perfezione nel
piccolo, presi slancio per azzardare nei quadri.
Scuola chiarista, si disse. Potevo
dimenticare il candore che mi portò al successo?
Fui la prima donna accettata in
accademia, l’arte del tempo si inchinò a ciò che rappresentavo.
Nomen omen, e nel mio cognome la
parola carriera era già inscritta: io alla carriera sacrificai ogni altra cosa.
Restai donna fintanto che quel corpo
me lo concesse, poi tornai a essere uomo, e fu l’unica volta che tradii il
colore per restare fedele alla luce. Dopo la leggerezza dei merletti mi
cimentai con la granitica caparbietà del marmo.
Il mio apprendistato lo trascorsi a
Venezia, ancora.
Volli trasfondere nella greve pietra
tutta la levità che aveva animato la mia esistenza precedente.
Le mie statue ornarono le corti più
potenti, il mio capolavoro fu un’opera in cui Amore fugge da Anima perché essa,
crescendo, si renda consapevole dei doni ricevuti, fidandosi di Lui.
Sapevo d’aver raggiunto un apice.
Ogni grande successo va decantato in
una pausa.
Dovevo raccogliere energie, intuivo
che l’esistenza successiva sarebbe stata faticosa.
Tornai in Olanda. Arduo spiegare quel
che accadde in questa nuova vita.
Ebbi per nemico mio padre, per alleato
mio fratello.
Le mie opere di allora parlano per me.
M’abbandonai totalmente al giallo.
Campi di grano, girasoli, persino la
casa in cui vivevo si chiamava la casa gialla.
La eternai in un quadro.
Il giallo mi seguiva e mi precedeva,
giorno e notte. Onnipresente, dalla paglia delle sedie all’impiantito dei
pavimenti. Anche le tenebre erano squarciate dal sole nei miei quadri: giallo
ovunque.
Un colore tanto splendente da
stordire, accecare, torturare.
Arrivai a mangiarlo, lo ingoiai il
giallo, direttamente dai tubetti di vernice.
Volevo in me la felicità che quel
colore sa evocare.
Lo squillo luminoso del giallo mi entrò
nel cervello al punto tale che per non sentirlo più mi tagliai un orecchio.
Impazzii, ma non di gelosia.
Ingoiando il giallo del cromato di
piombo m’ero avvelenato di felicità.
Un colpo di pistola allo stomaco imbrattò
il giallo del campo di grano in cui si spezzò quella vita.
Prima della caduta libera nelle spire
della pazzia, riuscii a strapparmi al delirio.
Cercai sollievo nella quiete riposante
e pacifica del verde, colore che amai moltissimo, ma l’angoscia accumulata premeva
per uscire.
Il dolore, il dolore profondo ammassato
nell’anima esplose nell’esistenza successiva come un urlo. L’Urlo.
Fu quello il dipinto che mi rese celebre.
Purgato il dolore, cercai nella polarità positiva del verde la mia cura. La
natura mi risanò. Non prima però dell’ennesima discesa agli Inferi, nel logorio
dell’alcool, dei disturbi nervosi.
L’orda che dilagava in Europa poco
prima della mia morte criticò i miei lavori. Arte degenerata, la definirono.
Detto dai nazisti, poi!
Ma “io” morii nuovamente, nel 1944.
Non feci in tempo ad assistere al
giudizio della Storia.
Fu forse per una solidarietà atavica,
ebraica, che mi rifugiai un’ultima volta nella dolcezza struggente dello shtetl,
un microcosmo così simile a quello da cui partii per il mio lungo viaggio.
Ci cascai ancora, nel vizio di
girovagare fuori orario, fuori dal ghetto.
Mi capitò a San Pietroburgo. Pagai
solo con il carcere, stavolta, non come avvenne a Venezia, in un’altra vita.
Amai a quel tempo il viola. Fui tra i
primi pittori a utilizzarlo di frequente.
Il viola e l’indaco, quasi una mia
scoperta, la cifra della mia arte.
Dipinsi donne che fluttuavano aeree, trattenute
per mano dai loro compagni, saldamente piantati a terra; spose che si libravano
in cielo come bandiere al vento, e violinisti dal profilo semita.
Credo che tutto questo slancio verso
l’alto mi sia stato impresso dalla prematura dipartita di Bella, la mia
compagna.
Avessi potuto trattenerla con me sulla
Terra, avrei ridato indietro ogni mia vita.
Bella mi indicava la giusta direzione:
toccare l’argento delle stelle.
Anche se non amavo l’America, scoperta
durante un lungo e amaro esilio, per ultima dimora scelsi un artista americano.
Nelle vite precedenti uccisi, mi
uccisi. Finii per sperimentare il delitto da ogni angolazione: mi spararono,
reato presto oscurato dal clamore dell’assassinio di un importante politico,
due giorni dopo.
Mi ritirai, vissi per la mia Silver
Factory, il mio studio d’artista.
Ricoprii di vernice argentea ogni
superficie, ogni oggetto del mio studio.
Dichiarai il mio amore a gran voce, ne
fui ricambiato: fu l’argenteo metallo di una lattina a darmi la fama.
A chi mi voleva finire rispose il
tempo, da sempre schierato al mio fianco.
Ancora oggi sui muri di New York c’è
chi scrive che io sia vivo, senza sapere quanto abbia ragione.
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