venerdì 5 luglio 2024

Colori di Patrizia Birtolo

 

COLORI

 

Ebbi una vita tutta mia, una volta, e la sprecai. Da allora non ho pace.

È difficile convivere in un corpo con un’altra anima: è come contendersi un territorio. Avanzare, ritirarsi, forzare la resa.

Più che invasore vorrei esser considerato ospite.

Da ospite a occupante abusivo, c’è solo un labile margine di condiscendenza.

Ando così: stufo di starmene confinato di notte, nel ghetto, sfidai i custodi cristiani che percorrevano in barca i canali circostanti.

Morii annegato.

Da allora il mio spirito vaga famelico, in cerca di rivalsa.

La mia prima vita la barattai proprio a Venezia.

Offrivo talento in cambio di un’esistenza per me.

Entrai in un giovane uomo di ventisei anni. Volevo esplorare il rosso.

La morte in acqua, quell’abulica discesa in liquide ombre fino a restar conficcato nella melma del fondale, mi privò del rosso del mio sangue sparso.

Mi mancava la prova inconfutabile d’essermi spinto oltre il ciglio del mondo, non solo oltre il cornicione che mi tradì, sgretolandosi.

Il giovane ebbe in dono la mia ossessione per il rosso, lo ricercò, lo espresse in ogni suo lavoro. Celebrato in velluti cremisi, in broccati carminio, in drappi magenta, nel fulvo luccichio dei capelli, irresistibili, delle donne ritratte.

Plasmò il colore con le dita per accarezzare le seriche chiome femminili che in vita si negava. Dipinse fino alla vecchiaia.

Lo resi il pittore più famoso e ricco del suo tempo, poi lo abbandonai.

Cinque anni prima della peste non c’era altro da sperimentare tramite quel corpo.

La morte già la conoscevo.

La mia seconda vita fu nera, nera in tutti i sensi.

Maestro del nero mi definirono poi.

Occorre fare attenzione al nero, assorbe ogni colore, ogni emozione.

Io assorbivo tutto, poi esplodevo di violenza dirompente.

Fu la prima e unica volta in cui uccisi.

Ebbi un destino rabbioso, di terrore e fughe, di problemi continui. Mi privai d’ogni comprensione affettuosa per le debolezze umane, il cupo inverno sempre nello sguardo.

Dopo la condanna a morte – come non fossimo tutti condannati a morte: chi per legge, chi da un male, dal tempo o dal caso – non mi restò che dipingere teste mozzate per esorcizzare la sentenza.

Figure drammatiche che si stagliavano dal nero, come emergevo io da tutto il nero fondo della mia vita tormentata.

Il mio lavoro fu un’eterna lotta tra luce e buio, la mia esistenza pure.

E prima che le febbri mi cacciassero dal corpo che occupavo, riuscii a impadronirmi d’un altro essere.

Il nero fu restio ad abbandonarmi, si stemperò in un marrone che il mio nuovo ospite sperimentò grazie alla terra di Cassel o terra di Colonia: un colore naturale composto di suolo e torba.

Non me lo so spiegare, questo attaccamento alla bruna concretezza del marrone, quest’ansia che mi prese di radici e stabilità. Ma allora vivevo in Olanda, terra sempre contesa e strappata al mare; ogni centimetro sotto i piedi è conquista da difendere a unghie sfoderate e denti stretti.

Io però mi sentivo un vascello in balia dei flutti: nato ricco, le mie fortune declinarono in una fluida precarietà.

Forse era il mare che mi chiamava.

Il mare e il suo blu infinito, indecifrabile.

Restai in Olanda, cambiai ospite e corpo. Mi concessi qualche anno di meste, cerulee dolcezze. Rappresentai il lavoro, le occupazioni domestiche, le donne.

Mai rinunciai al blu, pigmento dal costo proibitivo.

Affogavo nei debiti, pur di procurarmi l’amato blu oltremare.

Usai la preziosa polvere di lapislazzulo in tutti i miei quadri: pura, o per sfumature intermedie… Fu la mia scia verso l’infinito.

Affidarmi al blu, anima e corpo, mi avrebbe dato l’immortalità, difatti furono le sfumature di un turbante blu indossato da una giovane ragazza con un orecchino di perla, altro dono del mare, a consegnarmi alla Storia che travalica ogni storia.

L’anno stesso in cui morì il corpo che mi ospitava, presi una decisione.

Ero stufo di essere uomo, ma ero ancora perseguitato dai colori.

Non potevo rinunciare ad essi e vagare tra nebbie e ombre, lontano dalla vita.

Decisi di piegare al mio volere un’esistenza femminile.

Tornai in Italia, tornai a Venezia, che amavo e odiavo e amavo.

In gioventù da mia madre merlettaia appresi l’arte del ricamo e delle trine.

Il bianco dei pizzi mi rimase negli occhi e nel cuore, quando passai dall’ago alla delicatezza sottile del pennello sulla miniatura.

Il bianco mi accompagnò devoto, scelsi l’avorio per ogni mio minuscolo capolavoro. Conquistata la perfezione nel piccolo, presi slancio per azzardare nei quadri.

Scuola chiarista, si disse. Potevo dimenticare il candore che mi portò al successo?

Fui la prima donna accettata in accademia, l’arte del tempo si inchinò a ciò che rappresentavo.

Nomen omen, e nel mio cognome la parola carriera era già inscritta: io alla carriera sacrificai ogni altra cosa.

Restai donna fintanto che quel corpo me lo concesse, poi tornai a essere uomo, e fu l’unica volta che tradii il colore per restare fedele alla luce. Dopo la leggerezza dei merletti mi cimentai con la granitica caparbietà del marmo.

Il mio apprendistato lo trascorsi a Venezia, ancora.

Volli trasfondere nella greve pietra tutta la levità che aveva animato la mia esistenza precedente.

Le mie statue ornarono le corti più potenti, il mio capolavoro fu un’opera in cui Amore fugge da Anima perché essa, crescendo, si renda consapevole dei doni ricevuti, fidandosi di Lui.

Sapevo d’aver raggiunto un apice.

Ogni grande successo va decantato in una pausa.

Dovevo raccogliere energie, intuivo che l’esistenza successiva sarebbe stata faticosa.

Tornai in Olanda. Arduo spiegare quel che accadde in questa nuova vita.

Ebbi per nemico mio padre, per alleato mio fratello.

Le mie opere di allora parlano per me. M’abbandonai totalmente al giallo.

Campi di grano, girasoli, persino la casa in cui vivevo si chiamava la casa gialla.

La eternai in un quadro.

Il giallo mi seguiva e mi precedeva, giorno e notte. Onnipresente, dalla paglia delle sedie all’impiantito dei pavimenti. Anche le tenebre erano squarciate dal sole nei miei quadri: giallo ovunque.

Un colore tanto splendente da stordire, accecare, torturare.

Arrivai a mangiarlo, lo ingoiai il giallo, direttamente dai tubetti di vernice.

Volevo in me la felicità che quel colore sa evocare.

Lo squillo luminoso del giallo mi entrò nel cervello al punto tale che per non sentirlo più mi tagliai un orecchio.

Impazzii, ma non di gelosia.

Ingoiando il giallo del cromato di piombo m’ero avvelenato di felicità.

Un colpo di pistola allo stomaco imbrattò il giallo del campo di grano in cui si spezzò quella vita.

Prima della caduta libera nelle spire della pazzia, riuscii a strapparmi al delirio.

Cercai sollievo nella quiete riposante e pacifica del verde, colore che amai moltissimo, ma l’angoscia accumulata premeva per uscire.

Il dolore, il dolore profondo ammassato nell’anima esplose nell’esistenza successiva come un urlo. L’Urlo.

Fu quello il dipinto che mi rese celebre. Purgato il dolore, cercai nella polarità positiva del verde la mia cura. La natura mi risanò. Non prima però dell’ennesima discesa agli Inferi, nel logorio dell’alcool, dei disturbi nervosi.

L’orda che dilagava in Europa poco prima della mia morte criticò i miei lavori. Arte degenerata, la definirono. Detto dai nazisti, poi!

Ma “io” morii nuovamente, nel 1944.

Non feci in tempo ad assistere al giudizio della Storia.

Fu forse per una solidarietà atavica, ebraica, che mi rifugiai un’ultima volta nella dolcezza struggente dello shtetl, un microcosmo così simile a quello da cui partii per il mio lungo viaggio.

Ci cascai ancora, nel vizio di girovagare fuori orario, fuori dal ghetto.

Mi capitò a San Pietroburgo. Pagai solo con il carcere, stavolta, non come avvenne a Venezia, in un’altra vita.

Amai a quel tempo il viola. Fui tra i primi pittori a utilizzarlo di frequente.

Il viola e l’indaco, quasi una mia scoperta, la cifra della mia arte.

Dipinsi donne che fluttuavano aeree, trattenute per mano dai loro compagni, saldamente piantati a terra; spose che si libravano in cielo come bandiere al vento, e violinisti dal profilo semita.

Credo che tutto questo slancio verso l’alto mi sia stato impresso dalla prematura dipartita di Bella, la mia compagna.

Avessi potuto trattenerla con me sulla Terra, avrei ridato indietro ogni mia vita.

Bella mi indicava la giusta direzione: toccare l’argento delle stelle.

Anche se non amavo l’America, scoperta durante un lungo e amaro esilio, per ultima dimora scelsi un artista americano.

Nelle vite precedenti uccisi, mi uccisi. Finii per sperimentare il delitto da ogni angolazione: mi spararono, reato presto oscurato dal clamore dell’assassinio di un importante politico, due giorni dopo.

Mi ritirai, vissi per la mia Silver Factory, il mio studio d’artista.

Ricoprii di vernice argentea ogni superficie, ogni oggetto del mio studio.

Dichiarai il mio amore a gran voce, ne fui ricambiato: fu l’argenteo metallo di una lattina a darmi la fama.

A chi mi voleva finire rispose il tempo, da sempre schierato al mio fianco.

Ancora oggi sui muri di New York c’è chi scrive che io sia vivo, senza sapere quanto abbia ragione.




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