giovedì 17 agosto 2017

Foto premiate Bernini re Ferretti






Prosa vincitrice Stefano Borghi

Camilla

Camilla parla da sola e quando lo fa sussurra appena, portando la bocca vicino all'orecchio del suo
orsacchiotto sgualcito, che al posto degli occhi ha due bottoni blu e un nastrino rosso al collo a cui è
appeso un cuoricino color oro.
Camilla ha quasi sempre la testa china, quasi volesse guardarsi i piedi per non inciampare quando
cammina.
Evita di guardare le persone negli occhi e sembra non sentire quello che dicono. Alza la testa
quando la gente è lontana, e solo quando corre e l'aria le accarezza la faccia, ride e sembra felice.
Come farfalla su di un prato, si disseta di sole e di nuvole, inventando fiori su cui posarsi per
riposare un poco.
Camilla quando disegna si sporca le mani e i colori che usa sono sempre accesi, e non vuole mai
lavarseli via.
Il suo mondo ha mille porte e nessuna finestra, la sua stanza ha solo angoli in cui rifugiarsi, anche
se nessun posto, nessun luogo, sembra sicuro.
Camilla è una bambina e fa brutti sogni.
Forse è per questo che dorme raggomitolata su se stessa, vicino al suo orsacchiotto, in un letto con
una coperta piena di stelle e una luna che sorride.
Gli occhi chiusi, stretti, per non far passare nemmeno un filo di luce, il respiro affannato e un
martello che batte nel petto.
Nessuno riesce a calmarla, nemmeno la mamma.
Solo il sonno riesce a far breccia nella sua fortezza, e quando capisce che sta arrivando, si lascia
andare nelle sue braccia, sperando la trascini lontano da li, verso un nuovo giorno, una nuova luce.
Camilla ha paura della sera, e a volte fa fatica a dormire.
Perchè c'e' sempre la solitudine prima della notte.
Osserva le ombre della sua stanza, le vede apparire dagli angoli, dietro ai mobili, le sente arrivare da
dietro la porta.
Ma i suoi mostri non sono nascosti nell'armadio o sotto il letto, non hanno occhi grandi e rossi,
come quelli di tutti gli altri bambini.
Camilla tende l'orecchio per ascoltare i passi, perchè il suo mostro non vola, ne sputa fuoco, il suo
mostro cammina.
Si avvicina a lei senza fretta, con un ghigno dipinto sul volto, che solo ad un occhiata distratta può
sembrare un sorriso. Mentre si avvicina non le toglie gli occhi di dosso, poi apre le mani mostrando
le sue caramelle.
Ma ha imparato che hanno un sapore cattivo e non le vuole più mangiare.
Lei lo sa, quell'uomo si siederà al suo fianco e comincerà ad accarezzarla, anche se non vuole.
Comincerà a spogliarla come fosse una bambola e a toccarla come fosse una donna.
Sa che non servirà a niente piangere e urlare, non arriverà nessuno a portarla via da li, se non
quando sarà tutto finito.
L'unica cosa che può fare e chiudere gli occhi forte, in modo da non vedere nulla e con le mani
tapparsi le orecchie per non sentire quella voce, che diventa un rantolo sempre più sottile e lontano.
Camilla ha le dita di un ragno ma non sa tessere alcuna tela e il volto scavato da troppi giorni
malati, vorrebbe dire tante cose, ma non conosce le parole per spiegare il suo dolore.
Dipinge tutti i giorni la sua paura e la ricopre di colori, per seppellirla e non vederla più.
Aspetta che qualcuno le prenda la mano e le dica andiamo via, e non la porti più in un lettino,
dentro una stanza buia, con una luce fioca sul comodino che non fa altro che rendere giganti le
ombre.
Spera che da qualche parte ci sia un posto pieno di luce, tante finestre da dove entri il sole e
spalancandole possa arrivarle il profumo dei fiori e magari qualche farfalla.
Il profumo della vita.
Camilla ha solo quattro anni.
Li ha anche adesso, che il tempo è passato e ha coperto con una misericordia di giorni le sue ferite.
Quando si guarda allo specchio, e fa le faccia buffe, mettendosi un rossetto dai colori vivaci e anche
se le parole escono facili, certe cose non è riuscita a raccontarle a nessuno.
Ora quando guarda la gente in faccia, sarà il trucco, ma non si vede la sua paura.
Cammina a testa alta, con le sue scarpe di vernice rossa, facendo risuonare forte sull'asfalto il
rumore dei suoi tacchi.Il suo passo è veloce, quasi sicuro e non si volta mai indietro.
Ora sostiene lo sguardo degli uomini, diluisce i sorrisi e distribuisce sguardi in parti uguali,
sorseggiando bevande colorate in angoli di bar, pieni di gente, luce soffusa, risate, discorsi di
cortesia e cibo spazzatura.
Camilla gioca con il suo cellulare mentre aspetta il treno, cercando un messaggio che non c'e',
scorrendo immagini di posti lontani e città da cartolina con le loro vie piene di luci.
C'è chi dice che sogna, o almeno lo fa credere.
Nessuno però le ha ancora preso la mano, dicendole “Andiamo via” con voce gentile e occhi con
riflessi di mare.
E così quando la sera si trasforma in notte e le stelle sono una coperta su cui dormire, la porta si
chiude e improvvisa arriva l'angosciosa solitudine.
Nemmeno la luna con la sua ninna nanna riesce a tenerle compagnia.
In quei momenti, alcune volte, alla porta sente bussare la paura.
La voce ritorna, il respiro diventa corto, è c'e' bisogno di acqua per deglutire a fatica la pastiglia
colorata.
Sembra una caramella dal cattivo sapore.
Poi, seduta sul letto, con le gambe incrociate, controlla il respiro.
La voce si allontana, le ombre vanno via.
La bambina si rifugia nella donna, per un abbraccio caldo e sicuro.
Il cuore rallenta.
Sussurra.
A guardarla in un angolo un orsacchiotto sgualcito, con un nastrino rosso a cui è appeso un
cuoricino color oro.
Al posto degli occhi, due bottoni blu.

martedì 15 agosto 2017

Altre immagini di festa mellanese













Opere di Egidio Belotti

E poi, solo silenzio

‘Lascia che sia fiorito Signore il suo sentiero
quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno risplendono le stelle’.
                                       ‘Preghiera in Gennaio’ F. De Andrè
E rieccoci sulla stessa scena
con  il silenzioso spessore dell’anima
perdersi nei percorsi immaginati,
sui muri sgretolati, anche sulle briciole
di pianto rinvenute nella fitta agenda
dei sogni: e ti rivedo - afflitto -                               
nella tua dignitosa incuranza
su questa stessa via per l’ultima volta
con biglietto di sola andata,
prima di regalare la tua fragile vita
alle stelle, tu,  infelice e perduto
come sempre, nella difficile libertà
di scomparire: di quel giorno
ricordo forse la pioggia,
di certo le tue dita affusolate
nello stridere del treno
accarezzare questo tempo
incerto - indifferente -
così indaffarato da scordare
anche la morte: e poi solo silenzio.
                                        In ricordo di E. R.


Improvvisa una nuvola di fumo
Lenti, con le spalle pesanti, avvolti nei vostri fazzoletti
rossi, baciati dalla fresca brezza di Bisalta*che vi assiste,
sfiorati appena dalla vostra sofferta allegoria di pensieri
nel silenzio immacolato dell’attesa: poi, improvvisa,
quella nuvola di fumo in dissolvenza, ed ecco
la notte della mente nel commiato del volo rallentato
che finisce e, immaginato, quello sguardo dolce di dolore
mite di mamma triste, battito di ciglia tra apparenze
e trasparenze, una smorfia di dolore senza lamento
o commozione come i forti, carezzati dal freddo
nelle ossa a regalare la vostra preziosa giovinezza
nella decimazione dei minuti e consegnare a noi
la ferma volontà di resistenza ora e sempre,
anche nei mattini inquieti, quando la speranza si fa breve
e tace sulle pallide paludi di una storia quasi priva
di voce, noi, cavalieri erranti senza meta,
confusi nella mente, e pochi segni ormai all’orizzonte.

*montagna che sovrasta la valle Pesio.
In ricordo di Botto Celestino e di Suetta Carlo, caduti in combattimento in località Vigna di Chiusa Pesio (CN) il 9 settembre ‘44.

Opera vincitrice di Alessandro Cuppini (Bergamo) - satira 2017

L   A          B   A   R   Z   E   L   L   E   T   T   A          D   I          M   A   N   S   O   U   R




   Certo che le barzellette bisogna saperle raccontare, ci diciamo asciugandoci le lacrime dopo un exploit dei nostri grandi comici. Ma il modo di raccontarle in realtà è diverso da paese a paese, e non è detto che il successo ottenuto in un certo luogo sia ripetibile in un altro. Quando, per esempio, un arabo racconta una barzelletta, non lo fa come siamo abituati a sentire noi in occidente. Non è come se vi trovaste di fronte ad un Bramieri che già trent’anni fa raccontava battute fulminanti della durata di dieci secondi. Non lo fa nemmeno come faceva il grande Walter Chiari, capace di tirare in lungo il sarchiapone per dieci minuti. No, la barzelletta di un arabo dura molto, molto di più.
   Quando qualcuno in occidente inizia a raccontare una barzelletta, tutto in noi, mente e corpo, si dispone alla risata. I muscoli facciali si irrigidiscono pronti ad esplodere nello sghignazzo liberatorio e questo atteggiamento del viso viene retto per qualche tempo, quello usuale di racconto di una barzelletta. Ma se il raccontatore è un arabo è bene rilassarsi, perché dopo cinque minuti i muscoli cominciano ad intorpidirsi e a dolere e non reggereste quella tensione per tutta la durata della sua barzelletta. La sua è una storia vera e propria e, se siete a tavola come ero io quella sera al Cairo, è meglio che vi rassegnate a lasciare che il grasso del vostro montone si rapprenda in un angolo del piatto, che il vostro cuscus e le vostre delicate verdure di contorno si raffreddino del tutto, mentre voi vi appoggiate allo schienale della sedia e con la faccia più seria di questo mondo aspettate che la barza si sviluppi e prenda forma, coi tempi necessari al narratore e conformi alla tradizione, fino alla conclusione che non procura mai uno sguaiato scoppio di risa, ma tutt’al più un increspamento di labbra in una smorfia sorridente.
   Avevo invitato a cena Mansour, un personaggio importante che dovevo tenermi buono se ci tenevo a prendere dal cliente egiziano un importante ordine di dissalatori. Eravamo in un ristorante a Zamalek, un’isola in mezzo al Nilo, un elegante quartiere di ambasciate e ricche residenze immerse nel verde. Mansour era un signore raffinato e discendente da nobili lombi. Preferiva esprimersi in francese che considerava lingua molto più adatta all’occasione, evitando la sguaiataggine dell’inglese, che riteneva la lingua degli affari: quella sera non si parlava di affari. Aveva atteggiamenti e stile raffinato da ambasciatore d’antan, un’abilità e un fascino nella conversazione che ricordava quello in uso nel ’700. Eravamo seduti ad un tavolo presso il ramo orientale del Nilo, in quattro: Mansour, la moglie e un’amica della moglie che lui aveva avuto la finezza di invitare:
    Mi sono permesso di invitare anche la signora Tal dei Tali, mi aveva detto, sa, per l’equilibrio della conversazione.
L’equilibrio della conversazione: una gentilezza nei riguardi miei e della moglie, una cosa a cui io, che avevo invitato solo Mansour e signora, non avrei mai pensato.
   Era metà ottobre: la brezza che veniva dal fiume era fresca, le signore tenevano uno scialle a proteggersi le spalle nude. Le chiacchiere fluivano leggere nel ricercato francese di Mansour che teneva banco con arte sopraffina, variando discorsi seri a leggeri, domande cerimoniose a risposte gentili. La sua conversazione spaziava su argomenti disparati, senza mai soffermarsi su ciascuno più del tempo necessario a renderlo noioso.
   Venne a parlare dei tempi antichi in cui l’Egitto era sottoposto al governo dei califfi turchi.
   A questo proposito c’è una graziosa storia che ricordo, disse.
   Quasi ‘une blague’, aggiunse, una barzelletta. Volete che ve la racconti?
   Domanda retorica, che però la sua cortesia gli imponeva. Abbandonammo le posate sul piatto e ci apprestammo ad ascoltare una storia che per quanto Mansour la accorciasse tenendo conto dei miei gusti occidentali non poteva durare meno di venti minuti.
   Si svolge ai tempi della dominazione turca. Ibrahim Pascià, califfo dell’Impero, era in viaggio nel deserto con la sua lunga carovana di cammelli. Nella ricca città di Asyut lo aspettava il Gran Visir Harun-al-Wahda per un importante affare. Erano già molti giorni che marciava a tappe forzate perché il Gran Visir gli aveva ordinato di raggiungerlo il più in fretta possibile. Il cammino era lungo e faticoso, ma Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e ne sopportava pazientemente i disagi.
Una sera la carovana stava entrando in un piccolo villaggio per fermarsi per la notte. Ibrahim Pascià era appollaiato sul suo cammello, circondato dalle sue guardie. Percorrendo uno stretto vicolo, una persiana si aprì all’improvviso e colpì al volto proprio lui, Ibrahim Pascià. L’incidente gli procurò un piccolo taglio sulla fronte. Il califfo scese dal cammello. Poiché era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira, si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Vedete dunque il volere del Misericordioso: dovrò fare giustizia di tutto questo. Conducetemi nella Sala di Giustizia.’
Il sindaco del villaggio profondendosi in mille scuse lo accompagnò nella Sala di Giustizia dove abitualmente si svolgevano i processi.
‘Convocate l’inquilino di quella casa’, disse Ibrahim Pascià.
Fu portata l’inquilina Fatima che piangendo si gettò ai piedi del califfo dicendo:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Fatima, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Fatima:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che donna misera sono! La casa è di proprietà di Omar e non io ho stabilito che fosse aperta una finestra sul vicolo ad un’altezza così pericolosa. E tuttavia le finestre sono fatte per essere aperte, soprattutto al tramonto quando l’aria rinfresca. Vorrai forse ritenermi responsabile di avere aperta una finestra per dare aria alla stanza ove abito?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario della casa.’
Gli fu portato il proprietario Omar che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Omar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Omar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La casa io l’ho acquistata così com’era dall’architetto Fatir. E tuttavia, poiché non mi serviva, l’ho subito ceduta in affitto. Vorrai forse ritenermi responsabile di un incidente avvenuto in una casa che io non ho costruito né abitato mai?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate l’architetto della casa.’
Gli fu portato l’architetto Fatir che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Fatir, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Fatir:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La casa io l’ho costruita solida ed ampia. E tuttavia non potevo ignorare le disposizioni di prevedere una finestra per ogni stanza, come prescritto dal sindaco di questo villaggio. Vorrai forse ritenermi responsabile per aver rispettato le leggi  della Sacra Porta?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il sindaco del villaggio.’
Gli fu portato il sindaco Akbar che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Akbar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Akbar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Ho dato disposizione di prevedere una finestra per ogni stanza. E tuttavia non potevo ignorare che agli abitanti di questo villaggio puzzano molto i piedi perché mangiano il formaggio di Mehmet il capraio. Vorrai forse ritenermi responsabile per aver evitato che una famiglia, di notte, morisse di soffoco?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il capraio del villaggio.’
Gli fu condotto Mehmet il capraio che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Mehmet, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Mehmet:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Produco un ottimo formaggio che però fa puzzare molto i piedi di coloro che lo mangiano. E tuttavia le mie capre si nutrono dell’erba che cresce nel campo di Zelabdim; vorrai forse ritenermi responsabile per non aver fatto morire di fame le mie greggi?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del campo.’
Gli fu condotto il proprietario Zelabdim che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Zelabdim, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Zelabdim:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La mia famiglia vive dell’affitto di quel campicello. E tuttavia lo annaffio tutti i giorni con l’acqua del pozzo di Abu Fazel l’acquaiolo, senza la quale l’erba seccherebbe. Vorrai forse ritenermi responsabile di aver voluto sfamare i miei bambini innaffiando il campo?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del pozzo.’
Gli fu condotto Abu Fazel l’acquaiolo che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Abu Fazel, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Abu Fazel:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Per rendere l’acqua potabile io aggiungo polvere di safran, radici di mandragola e scaglie di fatipur azzurro.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Tagliategli la testa.’
A sentire la sentenza Abu Fazel balzò sul davanzale della finestra e si gettò nel buio; le guardie subito corsero fuori e presero a rincorrerlo tra i vicoli del villaggio. Intanto Ibrahim Pascià, soddisfatto di aver reso giustizia e sicuro che l’acquaiolo sarebbe presto stato catturato, si mise a letto e subito s’addormentò.
Ma Abu Fazel non per niente era acquaiolo e conosceva tutti i pozzi e le fogne del villaggio; per sfuggire all’inseguimento si era perciò gettato in un labirinto di cunicoli in mezzo ai quali presto le guardie si erano perdute. Il mattino dopo il capo delle guardie e il sindaco del villaggio si presentarono a Ibrahim Pascià tutti tremanti:
‘Vedi dunque, Luce del Firmamento, il volere dell’Altissimo: Abu Fazel l’acquaiolo ci è sfuggito.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Giustiziatene un altro!’



Opere Vittore Giraudo

VASCOROSSI.zip
Scritta il 20 Marzo 2017, ore 13:03 Vittore Giraudo

Sintesi delle canzoni di Vasco Rossi: Io bacio
Lei bacia Essi baciano Io vorrei baciare Io
vorrei essere baciato Io tradisco Tu tradisci Lui
tradirà Io tradirò Noi tradiremo Essi tradiranno
Più che delle canzoni dei ripassi sul verbi


MISSONI
Scritta il 06 Marzo 2017, ore 23:10
Vittore Giraudo

Qui bisogna
Che facciamo
auto-critica
O almeno moto-critica,
O bici-critica
Ognuno
Vive catartico
In mezzo a mille
Mare Artico
Siamo In-kazaki neri
E vogliamo
Tutto gratis
Qui non c’è
una buona aria
La cosa che ha colpito di più
È l’aviaria
Cerchiamo
Un Nulla-Ostia
Anche saltuario
Per un Santuario
Tutti che urlano
Cose incensate
Tutti che cercano
L’appagamento
Che non sia
A pagamento
I capi-reparto comprano
villa + barbecue + camper
Già coi tre cartelli fucsia
“Vendesi”
Il mondo ormai
È solo immagine
Ci comanda
Il Nulla
Tenente
Dell’esercito
A proposito di Eserciti
Siamo circondati
da un esercito
Di fotografi
Figli di Minolta
Anche perché il mondo
Ormai è tutto
Connesso
Via Eternit
Il mondo è tutto un film
Scamarcio fino al collo
Dall’Europa
scappano con La Bruxellosi
Dal Sud Europa
Si danno all’alcool
Ed alle donne
Nel mediterraneo
Le ONG si nutrono
Con la malnutrizione
Dei profughi
Dall’Erasmus
Tornano
Tutte incinta
In Spagna in TV
Danno il giro
Della Catalogna
In Italia non danno
Nemmeno il giro
Della Trapunta
Anzi
Da noi danno il giro e basta
Lacost Quel che Lacost
Lo devo dire
Ormai in Italia
Anche i cafoni
Vestono Missoni
Nel senso che
Tra un po’
Anche Missoni
Si vestirà
Da loro

mercoledì 9 agosto 2017

Prima rassegna stampa


Cuneo 7 25 luglio e La Guida 28 luglio. La Bisalta 23 agosto. Ringraziamo.

Opera vincitrice di Antonio Cunico


FOTO VINCITRICE DI BIANCA MARIA CAPANNA


AUTORITRATTO PREMIATO DI PAOLO BUSSONE







AUTORITRATTO - FOTO DI SANDRA CECCARELLI -TERZA


OPERA VINCITRICE SEZIONE PAROLE ED IMMAGINI 2017 - SANDRA CECCARELLI


Poesia vincitrice di Pietro Baccino - sezione B

Non hai un volto

Non hai un volto, madre di mio padre,
che, mettendolo al mondo, ti spegnesti
senza tua colpa, sconfitta negli anni
dalla fatica di tutti i tuoi figli
e dal lavoro nel campo, dal fieno
rivoltato d’estate, dalla vanga
lucida, ma pesante, dei tuoi giorni
più giovani, ma orbati di sorrisi.
Al paese è rimasta la memoria
del tuo spedito andare, d’energie
ridondanti a servire il tuo destino.
E’ rimasta, ma breve, e io soltanto
oggi la segno con triste grafia
sul diario dei ricordi perituri.
Nel registro dei morti, là in Comune,
si ritrova il tuo nome, ma non c’è
la sveglia antelucana d’ogni giorno
a curare i tuoi figli e quattro pecore
dagli occhi dolci nella stalla piccola.
Non c’è la cura d’impastar farina
sulla madia e non senti il buon profumo
della pagnotta calda sulla brace.
Non c’è la schiena curva nel raccogliere
tra gli irti ricci le castagne lucide,
non c’è il gelo che brucia le tue dita
quando spacchi la legna nell’inverno.
Non ci sono i tuoi sogni, e i tuoi pensieri
resteranno segreti per l’eterno
fluire di stagioni, che cancellano
l’esile segno dell’umano esistere.
Così, mentre il tuo mondo va svanendo,
quel mondo che hai lasciato da cent’anni
senza che resti un segno del tuo volto,
io voglio dedicarti il mio pensiero.