QUELLO
CHE CORRE
Sono
io, quello che corre. Se uno è nato per correre, correrà: che gli piaccia o no.
Potrà anche smettere di farlo per qualche anno. Anche molti anni, se sarà
costante e determinato. È evidente, però, che prima o poi ricomincerà a sentire
quel sacro impulso, quell’impellente necessità. E non saprà resistere,
nossignore.
Adesso,
per esempio. Adesso lo sento nelle gambe, nei piedi: hanno voglia di macinare asfalto.
Il petto mi sta chiedendo disperatamente di potersi gonfiare ritmicamente, gli
occhi hanno voglia di guardare verso l’orizzonte, guidando i passi in quella
direzione nell’eterno gioco di chi rincorre un obiettivo pur senza poterlo
raggiungere.
Non
mi succedeva da tanto tempo. Mi ero illuso che quel demone, perché di demone si
tratta, non sarebbe tornato. Quanto tempo sarà passato? Molto, davvero. Troppo
perché la mia mente, annebbiata da quel richiamo, possa ricomporsi e
restituirmi un dato certo; potrebbe essere un anno, ma potrebbero essere dieci:
in questo momento non ha alcuna importanza. Non devo prendere in giro me stesso:
in questi ultimi giorni ho avvertito il sentore che il desiderio irresistibile
di infilare le scarpe da corsa sarebbe tornato a breve. Altrimenti non avrei
aperto e richiuso quel cassetto almeno una decina di volte. Un cassetto,
nell’armadio della stanza da letto, che non ho mai saputo chiudere in modo
definitivo. Per quanto io abbia cercato di credere che non avrei mai più corso,
non mi sono mai sbarazzato del suo contenuto: eppure sarebbe stata la cosa più
logica. Negli altri ambiti della mia vita sono sempre stato molto deciso nelle
mie scelte. “Irrevocabile” per me non è soltanto una parola, ma un’ideale. Non
ho mai accettato compromessi, non ho mai rinegoziato una scelta che ritenessi
giusta. Sono rimasto un politico locale, un pesce piccolo: eppure mi sarebbe
bastato rimangiarmi qualche parola data per ascendere al gotha della politica
nazionale. La strada era spianata da qualcuno più in alto di me, ma avrei
dovuto rinnegare, revocare, tradire: il prezzo era troppo alto. E in amore?
Sempre al fianco della mia moglie adorata; anche quando un nuovo e folgorante
amore, una donna che mi aveva letteralmente rapito il cuore, aveva fatto di
tutto per convincermi a rimangiare la parola data davanti all’altare. Ma io ho
una sola parola e la mia vita lo ha sempre testimoniato: è per questo motivo
che mia moglie ha accettato il mio pentimento e perdonato quella scappatella,
per la verità consumata soltanto col cuore. Rimanere con lei nonostante quel
turbamento fu la scelta giusta. Ne sono certo ora, guardandola dormire nel
letto accanto a me. Non potrei desiderare una compagna migliore per la mia vita.
Ho scelto bene e sono stato irrevocabile, come per ogni altra cosa. Tranne quel
cassetto, il cui contenuto non è mai stato gettato via. Una parte di me ha
sempre saputo che un giorno l’avrei riaperto, e non solo per scrutare
malinconicamente quei tesori dei bei tempi andati. Lì dentro ci sono le scarpe
da corsa: semplici, il modello base di una nota catena di negozi sportivi. Non
sono mai stato un professionista, pur avendo disputato qualche gara coi colori
della polisportiva del mio paesello: proprio per questo, non ho mai preteso di
avere l’attrezzatura sportiva più costosa e performante. Infatti, anche gli altri
tesori contenuti lì dentro hanno un valore commerciale prossimo allo zero:
vecchie magliette da due soldi, poco traspiranti e per nulla griffate;
pantaloncini con le stesse caratteristiche.
Manca
poco al momento in cui infilerò quegli indumenti che ormai hanno dimenticato la
forma del mio corpo: in ogni caso, non la riconoscerebbero. Gli anni passati
nell’inattività hanno fatto scempio dei muscoli torniti delle mie gambe e dalla
gradevole larghezza delle mie spalle, regalandomi invece una discreta abbondanza
nel girovita. Non importa, sono molto lontani i tempi in cui ho corso per dare
dignità e prestanza al mio corpo. Quella fu soltanto la prima fase,
l’approccio: l’unico momento in cui correre non era una passione ma una gravosa
necessità. Una fase durata pochissimo, per fortuna.
Scendo
dal letto nel cuore della notte, mentre mia moglie sta dormendo. Non mi piace
fare le cose senza la sua approvazione, ma so che non capirebbe. So che c’è
qualcosa di morboso e insano nel mio desiderio di correre: per questo lo farò
di notte, senza che nessuno sappia, senza che nessuno veda. Mi sono
addormentato dicendomi: “Se riuscirai a svegliarti nel cuore della notte,
allora lo farai”. Era un tentativo di autoboicottarmi: ho un sonno pesante e
regolare. Eppure, proprio come i bambini si svegliano a ore impossibili il
mattino di Natale, ansiosi di spacchettare i loro doni, i miei occhi si sono
aperti alle tre in punto.
Quale
grande emozione sto provando nell’indossare il mio completo verde, il mio
preferito di quei bei tempi andati: quello che meglio si abbina alle mie
scarpe, che tornano a cingere i miei piedi con la stessa precisione di un
tempo. Con fare furtivo, abbandono la stanza. Prima di uscire di casa, colto da
un moto di buon senso in mezzo a tutta quella bramosia assurda e irrefrenabile,
lascio un biglietto per mia moglie sul tavolo. Si spaventerebbe a morte se si
svegliasse e non mi trovasse a casa.
E
poi semplicemente corro, come se non avessi mai smesso di farlo. In un primo
momento i piedi si ribellano al peso eccessivo del mio corpo, comunicandomi il
loro disappunto con qualche blanda fitta. Anche le gambe fanno fatica a
riprendere il ritmo. Non torneranno più a correre come lo facevano anni fa, ma
non si sono scordate come si fa. Chi è nato per correre, semplicemente corre.
Penso
a questo mentre mi avvio verso una salita leggera ma prolungata. Non ho nemmeno
dovuto meditare sulla strada da prendere: i miei piedi hanno scelto per me
quella che hanno percorso migliaia di volte. Quella che prendevo quando avevo
poco tempo: sei o sette chilometri, non ricordo bene, in gran parte asfaltati
ma con un gradevole pezzo di sterrato. Una salita morbida, poi una cinquantina
di metri con una pendenza decisamente più accentuata a cui segue una graduale
discesa che mi riporterà a casa. Se ce la farò a percorrere tutta la strada. Ma
certo che ce la farò.
Il
cuore riprende regolarità, almeno mi pare. Il respiro fa lo stesso. Sto andando
pianissimo: ci sarebbe di che vergognarsi, ma sono tanto fuori allenamento da
perdonarmelo. E poi stanotte la velocità non conta: l’unica cosa che ha
importanza è che sono di nuovo io… quello che corre.
Sono
nato per correre ma fino all’età di 35 anni non l’ho capito. A quell’età
muovevo i primi passi della mia carriera politica investendovi ogni mia
energia: restava poco tempo per i passi ben più “fisici” che mi avrebbero
impedito di arrivare a pesare cento chili. Fino a qualche anno prima, ai tempi
dell’Università, avevo rallentato l’incedere dell’obesità facendo qualche
esercizio fisico ogni giorno. Finita la scuola mi ero sposato, ero entrato nel
partito ed ero ingrassato strepitosamente. Fino ai cento. Fino alla svolta.
Poco
prima di uscire per la prima goffa e claudicante corsa, avevo guardato mia
moglie giocare con nostro figlio, che allora aveva due anni. Da tempo meditavo
su quante cose non avrei potuto fare con lui se non avessi rimesso sotto
controllo il mio peso; la cosa che più mi feriva, però, era che un giorno
avrebbe potuto essere in imbarazzo per la mia mole. Non avevo giustificazioni
valide, come malattie del metabolismo o chissà cos’altro: ero soltanto pigro e
sedentario, sin da quando ero bambino. Avrei sconfitto quelle cattive abitudini
correndo: sarei stato irrevocabile anche in quella decisione. Quella prima
volta fu disastrosa: cinque minuti di sudore e dolori, quel cenno di saluto
scambiato con un vicino di casa che aveva faticato vistosamente a non ridere
davanti allo spettacolo del ciccione del quartiere che con la grazia di una
valanga arrancava su quella stradina. Ma non mi arresi: mi ritagliai ogni
giorno almeno mezz’ora da dedicare a quell’attività. La volontà era più forte
della vergogna e i risultati più forti delle difficoltà: i cento diventarono
abbastanza presto novanta, poi i novanta divennero ottanta.
In
questo momento le difficoltà non mancano: le energie scivolano via. Ma io bado
al risultato: la mente è di nuovo lucida, affilata. Non ha più paura di nulla e
ripercorre con serenità pagine della mia storia che ho evitato per troppo
tempo. Rivive tanti anni di corse quasi quotidiane e ripensa a un corpo, il
mio, che era diventato perfetto ai miei occhi. E perfetta era tutta la mia
vita: certo, è facile dirlo col senno di poi; allora avrei trovato sicuramente
qualche ambito in cui vedere margini di miglioramento. Ma ero felice, e non lo
nascondevo certamente a me stesso. Mio figlio a quindici anni si mise a
correre, senza che gliel’avessi mai suggerito: l’esempio è più forte delle
parole. Vedeva partire suo papà arrabbiato per qualche problema col partito o
teso per le elezioni imminenti; qualche ora dopo lo vedeva tornare a casa
rilassato e sorridente. Correva da solo, il mio ragazzo: capitava che uscissimo
insieme di casa ed allora lui aspettava che io partissi. Se andavo a destra,
lui si incamminava verso sinistra, e viceversa. Era squisitamente adolescente
in questo: sapeva che non poteva tenere il mio ritmo, reso invidiabile da più
di dieci anni di allenamenti, e per questo evitava accuratamente il confronto.
Per i suoi diciassette anni, proprio nel giorno del suo compleanno, lui si
regalò una lunga corsa di un’ora al mio fianco, senza dire una parola:
semplicemente, partì con me e tenne il mio passo. Confesso che non forzai per
niente l’andatura: avere il mio ragazzo al mio fianco era stupendo e non volevo
certo umiliarlo.
Da
quel giorno corremmo sempre più spesso insieme, e le mie precauzioni presto
diventarono inutili. Lui, come è giusto che sia nell’avvicendarsi delle
generazioni, non mi prestò altrettanta cortesia: godette silenziosamente quando
forte dei suoi vent’anni diventò più veloce e resistente di me. Mi aspettava in
cima a ogni salita, invertiva il senso di marcia dopo ogni allungo, perché
potessimo ricongiungerci. Il nostro rapporto era solido e quelle corse insieme,
per cui ci ritagliavamo un paio d’ore ogni weekend anche quando lui iniziò
l’Università, erano il nostro spazio di confronto unico e speciale. Sua madre
ce lo invidiava, ma non si unì mai a noi nonostante i miei ripetuti inviti: la
corsa è una vocazione, non la si può imporre né insegnare.
Ne
è passato di tempo da quei giorni felici. Io adesso sono arrivato alla salita
più impegnativa ed ho paura di non farcela. Allo stesso modo in cui per anni e
anni non sono riuscito a ripercorrere coi miei pensieri fino in fondo l’ultimo
allenamento con mio figlio.
Una
giornata tiepida di primavera, un cielo sereno. La rivedo nella mia testa: per
anni mi sono impedito di ritornarci, ma non ho dimenticato un solo dettaglio.
Lui, mio figlio, è in splendida forma, ha compiuto da poco ventisei anni e ha
un’energia che ormai io, alla soglia dei sessanta, posso solo invidiare. Eppure
quel giorno corriamo insieme: lo facciamo sempre meno spesso, per me è sempre
più dura. Percorre tutta una salita, poi ridiscende trotterellando mentre io
arranco per raggiungere la cima. Mi fermo e appoggio le mani sulle mie
ginocchia, ansimando: una gran brutta salita, e poi non ci sono più abituato
dato che ultimamente corro solo più in piano. Lo guardo venire su a tutta
velocità e poi avviene tutto nella frazione di un secondo. Quando ormai è a
pochi metri da me vedo il suo sguardo irrigidirsi, come terrorizzato. Apre la
bocca in un’orribile espressione di smarrimento e mentre cade il suo sguardo
penetra nei miei occhi. Riesco a fare uno scatto verso di lui e afferrarlo
prima che finisca a terra. Chiamo forte il suo nome, ma lui si limita a
rantolare versi incomprensibili. Sollevo il suo viso e c’è ancora
quell’espressione incredula e stranita. Poi tossisce più e più volte, ed ogni
volta mi investe con un fiotto di sangue. Ora ha perso i sensi. Vorrei aver
dimenticato anche solo qualche dettaglio in tutti questi anni, ma non è così!
Ricordo la corsa a casa: i cellulari ancora non sono molto diffusi. Quella
volta supero le mie possibilità, raggiungo la massima velocità della mia vita
(la pagherò non riuscendo quasi a camminare il giorno successivo). Poi la
chiamata al 118, la corsa in ambulanza, con mio figlio che nel frattempo ha
ripreso i sensi. I giorni in ospedale, nella terribile attesa di saperne di
più.
La
mia salita odierna è finita, e sono ancora in piedi. Sono in cima. Anche nella
mia memoria, il ricordo più doloroso è alle spalle: è quella caduta, quel
sangue sul mio volto, quello sguardo vitreo. Eppure, come allora, il peggio
viene dopo, quando la salita è finita.
Il
dottore convoca me e mia moglie in una stanza appartata, e con tutta la
delicatezza di cui è capace fa calare sulle nostre spalle una diagnosi che è
come un macigno. Bastano il tono di voce del medico e il suo sguardo per capire
che non c’è scampo.
Poi
mio figlio muore, qualche mese dopo. Ed io non ho più corso, mai, nemmeno cento
metri, nemmeno per prendere un treno. Forse avevo paura di rivedere nella mia
mente quello sguardo, di risentire sulla mia pelle quegli schizzi di sangue.
Fino ad oggi.
Ed
in effetti è andata esattamente così: ho ripercorso quel dolore. Ma questo mi
ha dato forza anziché togliermene. Mi rendo conto che in questi ultimi
vent’anni non ho fatto che scappare da un ricordo e invece avrei dovuto
affrontarlo. Sì, esatto, chi voglio prendere in giro? So benissimo quanto tempo
è passato da quell’ultima corsa: l’anzianità non ha portato via un solo grammo
della mia lucidità. Sono passati vent’anni, e tra pochi giorni ne compirò
ottanta. Gli ultimi venti li ho passati a piangere. Gli ultimi venti, non ho
mai detto a mia moglie che la amo. Gli ultimi venti, non ho mai sorriso.
Eppure
adesso i miei passi si sono fatti più leggeri: non sento più gli acciacchi
dell’età, che han fatto sì che questa breve corsetta diventasse un’odissea.
D’un tratto, sto correndo qualche metro sopra all’asfalto, come se stessi
volando: voltandomi indietro vedo il mio corpo a terra, riverso sul ciglio
della strada. Un infarto? Sento una pacca sulla spalla: qualcuno si è
affiancato a me. E’ mio figlio. Vorrei fermarmi ma lui non si ferma: gli prendo
dietro. “Hai visto, papà. Noi pensiamo sempre di avere il controllo sulle
nostre vite, di essere noi ‘quelli che corrono’. Ma la verità è che tu non sei
quello che corre, non del tutto. E nemmeno io. È la vita. È lei quella che corre,
noi arranchiamo come cani dietro il coniglio. E un bel giorno, chi prima chi
dopo, dobbiamo lasciare che il coniglio se ne vada e fermarci dove siamo. Ma
fino ad allora, non possiamo mollare. Sono vent’anni che sei fermo, papà:
troppi per uno nato per correre. Ora devi riprendere”. Provo ad obiettare che
pare tardi per questi discorsi, dato che sono morto anche io. Ma non è vero.
Infatti,
apro gli occhi in un letto d’ospedale. E no, non era un infarto, era solo un
malore. Lei è lì al mio fianco, con lo sguardo preoccupato: esigerà delle
spiegazioni e se non vorrò metterci di mezzo angeli e apparizioni di nostro
figlio, dovrò tenermi sul vago. A ottant’anni i miei giorni da corridore sono
finiti: quando tornerò a casa, svuoterò quel cassetto. Ma la vita stessa è una
corsa, più impegnativa e importante di qualsiasi altra: ha ragione mio figlio,
devo tornare a correrla. Ed allora faccio il primo passo: stringo la mano di
mia moglie, e prima che possa rimproverarmi o chiedermi qualsiasi cosa, le
sussurro con un filo di voce che la amo.
Un’ultima lunga arrampicata
L’ho già fatto
una volta qualche anno fa, ma all’ultimo mi ero tirato indietro. Quel campione
di solidarietà ed empatia del mio vecchio amico mi aveva detto, pur addolcendo
la pillola coi suoi proverbiali giri di parole, che forse quello che volevo era
soltanto un po’ di attenzione. Bel modo di cercare le luci della ribalta,
tentare il suicidio in piena notte senza nessuno in giro, e parlarne solo con
lui. Bell’amico. E non è nemmeno il peggiore.
Comunque,
l’arrampicata allora era stata molto più breve. Era un semplice parapetto, di
un ponte che deve essere del 1700 o qualcosa del genere. È a un chilometro e
mezzo da casa mia, ci sono passato sopra non so quante volte durante le mie
lunghe corse, o nelle mie eterne passeggiata malinconiche, con un disco hip-hop
nel lettore cd. Quella notte mi faceva un po’ meno paura. Perché, lo ammetto,
in generale quel ponte mi ha sempre terrorizzato. Ne ero attratto e ci passavo
sopra frequentemente, ma quando poi ero a metà percorso e guardavo il fiume,
laggiù, lontano e impetuoso, il mio cuore aveva sempre un sobbalzo. Prima di
quella notte non ero mai stato un ragazzo incline a pensieri suicidi: di tanto
in tanto la mente cadeva lì, ma non frequentemente e non concretamente. Certo,
sapevo che se mai avessi preso una decisione del genere, quello sarebbe stato
il posto: era il cuore a dirmelo. Così, quella sera, sfidando una paura arcaica
e immotivata che mi attanagliava sin da quando ero bambino, mi ero agilmente
arrampicato sul parapetto e avevo guardato giù per un tempo che sembrava infinito.
In realtà, credo non fossero passati più di cinque spaventosi minuti. Non ero
desideroso di attenzioni o belle parole: volevo semplicemente farla finita. Ma
non ne avevo avuto il coraggio. E dire che di buoni motivi ne avevo tanti, ma
si hanno sempre anche mille ottime ragioni per vivere. Non avevo versato una
singola lacrima in quel frangente, e questa cosa, ripensandoci, mi ha sempre
meravigliato. So di essere un ragazzone alto un metro e novanta e di essere
abbondantemente sopra i cento chili (vedere per credere, neanche un filo di
grasso: ossa grosse e muscoli perfetti), tuttavia al di là di queste apparenze
da guerriero sono sempre stato propenso alle lacrime. Ho pianto per i film
Disney e per qualsiasi film in cui fossero richieste lacrime, e non parliamo
poi di quando finivano le mie storie d’amore, sciogliendosi come neve al sole.
Ho singhiozzato senza pudore a qualsiasi funerale, anche a quello di parenti
lontani di cui a malapena ricordavo il volto. Mi sono commosso alle lauree dei
miei amici e ai loro matrimoni. Ma non avevo nemmeno gli occhi lucidi quella
notte in cui ho guardato la mia vita scorrere trenta metri più in basso, nella
forma di un fiume impetuoso. Non tiravo su col naso mentre nella mia mente
vorticavano tutti i motivi che mi avevano spinto lassù. Nessuno singhiozzo,
nemmeno di quelli tanto deboli da essere impercettibili, mentre la vertigine mi
dava un gran giramento di testa che per poco non mi faceva scivolare giù anche senza
la mia precisa volontà. Dopo quel tempo infinito o infinitesimo, non so di
preciso, ero tornato coi piedi per terra, in senso fisico e metaforico. Con un
agile balzo ero tornato sul ponte, poi di corsa a casa. Passando accanto a casa
dei miei, avevo pensato al dispiacere che avrei dato loro, valutando poi che
non mi importava praticamente nulla di questo. Ero rimasto al mondo perché, a
differenza di tanti altri disperati, avevo ancora una missione da compiere. Un
compito da portare a termine, prima di levare le tende. Non l’avrei data vinta
a tutti quelli che mi avevano ostacolato.
Ora però è
diverso. Ora la missione è compiuta, anche se sarebbe forse più corretto dire
che la sto compiendo. L’arrampicata è più lunga, più spettacolare di quella
compiuta in una notte ormai lontana. Sembrano ore che salgo, piolo dopo piolo:
anche questa volta però è l’emozione che sta distorcendo il tempo, allungandolo
a dismisura. Non sono che pochi secondi, non sono che cinque o sei pioli della
scala di metallo. C’è tanta gente, questa volta. Se mi tirassi indietro
all’ultimo, questa volta il mio amico avrebbe tutte le ragioni per dire che
l’ho fatto per attirare l’attenzione. Li guardo dall’alto in basso, mi urlano
di non farlo. Le loro facce sono sconvolte, ma anche molto divertite, è inutile
che lo neghino. La gente vive per il momento, per assistere a qualcosa di epico
e indimenticabile, qualcosa la cui vista non lascerà indifferenti, qualcosa che
cambierà la giornata. Dietro al loro “Non farlo!” si nasconde un pressante
“Fallo! Buttati!”: è impossibile da nascondere, troppo evidente e tutto sommato
giustificabile. Non li ascolto, comunque: non è più tempo di tirarsi indietro,
ora tutto è compiuto.
Il parallelo con
quella notte lontana è ovvio, troppo scontato per non pensarci. Che senso ha
avuto tirare avanti per quasi altri dieci anni? Che senso hanno avuto le
sofferenze, le difficoltà, i sacrifici? Avrebbe potuto finire tutto quando
avevo vent’anni, ed ero soltanto un ragazzino emotivamente instabile e con
qualche disagio di troppo. Forse la vita intera è una scalata, una lunga
arrampicata prima di cadere. Ed allora mi viene da pensare che avrebbe fatto
meno male, cadere dieci anni fa: sarei caduto da meno in alto. Ora farà male,
perché c’è un’intera vita alle mie spalle: giorni che diventano mesi, spesi tra
un lavoro estenuante e gli allenamenti. Mesi che diventano anni, senza
raggiungere il successo nello sport a cui ho dedicato la parte più sincera e
bella della mia vita. Anni che si sommano l’uno all’altro, fuggendo disperatamente
dalla commiserazione nascosta negli occhi di chi un giorno mi era stato
accanto: la famiglia, le ex, gli amici. Tutti tanto ipocriti da nascondere i
loro squallidi “Te l’avevo detto!” dietro una parvenza di incoraggiamento e
sostegno. Qualcuno tanto indelicato da offrire un supporto economico, ben
sapendo le ristrettezze a cui mi conduce questa vita. Teneteveli i vostri
soldini, tenetevele le vostre vite tutte uguali. Voi ve lo sognate, un volo
così: ve lo sognate ogni notte, mentre state abbracciati ad un partner che non
siete affatto sicuri di amare. Sognate di volare ogni mattina, quando vi alzate
e sfrecciate verso un ufficio che siete sicurissimi di detestare. Volate col
cuore, qualche volta, ma il vostro corpo è inchiodato a terra da mutui da pagare,
o affitti, o rate. Sapete qual è la cosa divertente? Che alla fine ci cadete
pure voi, dalla scala. Vi fa troppa paura per scalarla fino alle sue vette più
inaccessibili, così vi accontentate di volare basso. Ma salite inesorabilmente
lo stesso. Un giorno poi cadrete pure voi, perché non si può restare per sempre
sulla scala. Morirete, insomma: morirete anche voi che per paura non avete mai
veramente vissuto. Mai sognato, mai volato.
Ora io sto per
volare, invece: volerà il mio cuore, voleranno i miei sogni, il mio corpo. Non
sentirò nemmeno lo schianto. Ho fatto bene a non buttarmi dieci anni fa. È
stata una scalata tortuosa, e se quel giorno avessi fatto un solo passo in più
nel vuoto, mi sarei risparmiato tante fatiche. Ma ora non potrei vedere le vostre
facce mentre mi guardate salire, andare in alto, dove voi non potreste mai.
Sono felice di essere qui adesso. A voi non resta che guardare, rimpiangere
quelle brutte cose che mi avete detto, disperarvi per avermi provocato dicendo
che non l’avrei mai fatto.
Manca poco e
sarò in cima: lascio che ogni volta che il mio piede si solleva stancamente,
per poi appoggiarsi sul piolo più in alto, la mia mente corra verso qualcuno di
voi. Qualcuno che ho amato, qualcuno che non ha creduto in me.
Il primo piolo
mi porta alla mamma e al papà. Che volevano solo il meglio per me, che avevano
fatto sacrifici per farmi studiare. Vedevano di cattivo occhio la mia passione
per lo sport. Impazzivano di rabbia quando, in città, trovavo qualche palestra
che mi faceva lavorare coi pesi nonostante io fossi troppo giovane. Il loro
cuore fu spezzato quando mi iscrissi a quell’università scadente, anche se i
miei risultati scolastici mi avrebbero consentito di accedere alle migliori.
Spiegateglielo, ai miei vecchi, che quelle migliori non mi avrebbero permesso
di inseguire il mio sogno. Ed allora mi avevano detto che non avrei più visto
un centesimo, da loro. Avevamo litigato duramente in quell’occasione e per un
bel po’ non ci siamo più rivolti la parola, poi negli ultimi anni ci siamo
riavvicinati: il sangue è sangue, quando chiama ci puoi fare poco. Mai, però,
che mi abbiano detto “Bravo” per i miei risultati: per loro sto solo sprecando
una vita. Perfino adesso, che sono così vicino al mio zenit, loro mi vorrebbero
avvocato.
Salgo ancora un
gradino, e il mio più sincero dito medio va proprio a lui, all’avvocato di
famiglia, mio fratello. Quello buono dei due, quello che non ha spezzato il
cuore dei genitori. Quello che ha percorso i binari che loro avevano tracciato
per noi. Poco importa che a lui quel lavoro non piaccia: si è sempre sentito
superiore a me. Assaporo quest’altitudine, perché lui qui non ci sarà mai.
Penso al mio
migliore amico, il “sensibile”. Gli amici dovrebbero sostenersi a vicenda, ma
lui non l’ha mai fatto. È stato più deciso dei miei genitori nel criticarmi al
momento dell’iscrizione all’università. A differenza dei miei genitori, era nel
palazzetto la sera del mio esordio, e faceva il tifo per me. Ma non credeva in
me fino in fondo, continuava a pensare che la mia vita fosse un unico,
gigantesco errore. Ed io questo non lo perdonerò mai.
Sono quasi in
cima, e penso alla mia donna. Puoi averne tante, nella vita. E col mio sport,
il mio lavoro, insomma quel che faccio… puoi averne anche una diversa ogni sera.
Ma credo che in fin dei conti si ami una volta sola, ed io ho amato lei. Quando
ha accettato la mia corte, il mio esordio era ormai un passato lontano. Ero
già, per così dire, affermato. Insomma, sapeva a cosa andava incontro. Sapeva
che sarei tornato tardi la sera, quasi tutte le sere. Sapeva che sarei stato in
giro, spesso molto lontano, e che in molte sere non sarei tornato affatto.
Sapeva che, quando l’avessi fatto, sarei stato stanco, ferito, troppo esausto
per fare l’amore con lei. Lo sapeva e l’aveva accettato, ci aveva fatto i conti
per due anni, i più belli della mia vita. Ma una volta ero tornato da uno dei
miei viaggi più lunghi, un mese passato in Giappone, e la casa era
semplicemente vuota. C’era una lunga lettera di scuse, che lessi una volta
soltanto e poi distrussi, sapendo che non farlo avrebbe voluto dire averci a
che fare per una vita intera. Se ora sono qui, è anche e soprattutto per
urlarlo in faccia a te, “donna della mia vita”: avresti voluto una vita
normale, un marito impiegato, un padre affettuoso per bambini comuni. È tutto
più che legittimo, vecchio amore mio, ma se vuoi una vita normale come puoi
scegliere un uomo che sa volare?
Il mio ultimo
pensiero va a quel ragazzo che si allenava con me in palestra. Io sono qui, sul
tetto del mondo, mentre lui non ha mai sfondato. Ha dovuto arrendersi ad un
ruolo manageriale, lasciando il ring a chi aveva più talento di lui. Nonostante
ciò, non ha mai smesso di guardarmi con sufficienza, ricordandomi ad ogni
occasione utile che lui combatteva sul serio, mentre io lo facevo per finta.
Vorrei che
ascoltassero tutti quella bella canzone di Bruce Springsteen, che parla del mio
lavoro e soprattutto parla di me. Che racconta i sacrifici che fai per salire
su quel ring, il dolore di una vita votata alla malinconia, ad un eterno
viaggiare, senza vederti riconosciuto il titolo di sportivo, senza poter
chiamare un posto “casa”. Una vita alla mercè di chi vorrebbe sempre qualcosa
di più da te: il tuo sangue, l’umiliazione del tuo corpo, le ferite.
Sono un
wrestler.
Ciò che faccio
ogni sera sul ring non è finto: è predeterminato. Quando salgo sul ring, so già
se vincerò o perderò. Questo fa la differenza per chi non ha mai provato questa
vita. Quello che nessuno pensa, quello che nessuno sa, è che io mi faccio male
davvero. A nulla vale che il tuo avversario non voglia davvero farti male, se
dovrà scaraventarti a terra da altezze vertiginose. Se dovrà fracassarti una
sedia sulla schiena. Se dovrà lanciarti fuori da un ring. Ogni volta che salgo
su un ring, poi ne esco con qualcosa in meno. Lo regalo al mio pubblico, che è
lì per divertirsi, per staccare il cervello per un paio d’ore. Non ho potuto
avere una vita comune, ma ho avuto l’applauso della gente, che è come una
droga: assaggialo, e non potrai più farne a meno. Non ho avuto il supporto dei
miei, e nemmeno quello dei miei amici: non hanno mai creduto che sarei andato
lontano. E forse nei loro cuori albergava la convinzione che, se anche ci fossi
andato, non sarei stato altro che il pagliaccio più importante del circo. Non
ho potuto avere una famiglia felice, perché dovevo viaggiare quasi ogni giorno
in ogni angolo dell’America, per cercare quell’applauso, quell’espressione
stupita che si dipinge negli occhi di chi guarda le mie follie più estreme.
Ho salito la
scala che parte da una palestra di una scuola, dove ti esibisci davanti a
trenta persone, e arriva all’incontro principale dello spettacolo più
importante dell’anno, e del mondo. Alla faccia di chi non credeva in me, alla
faccia di quel ragazzino che a vent’anni aveva paura di intraprendere quella
carriera, e tergiversava su un ponte con tanti brutti pensieri in testa,
rischiando di cadere giù.
Quella volta non
avrei volato: sarei semplicemente caduto. Ora invece guardo laggiù: non c’è un
fiume, ma un ring. Un avversario disteso a terra, che aspetta l’impatto e non
farà nulla per evitarlo. È il campione del mondo, e tra pochi attimi lo sarò
io. Un ultimo sguardo, un ultimo attimo di terrore, misto ad emozione e gioia.
Il pubblico urla di non farlo, hanno paura, la scala è troppo alta.
No, non lo è.
Non morirò, non sentirò quasi lo schianto. Perché vivo per l’applauso, vivo per
dimostrare di essere il più forte, vivo per sbattere in faccia i miei successi
a chi non ha mai creduto in me. Questa scala è altissima. Ma non troppo. Non se
chi la sale è capace di volare.