venerdì 5 luglio 2024

La cartolina di Elisa Marchinetti

 

La cartolina

 

Procedeva tranquillo a bordo della sua motoretta di seconda mano da poco acquistata,  lasciando che il vento gli sferzasse il viso e gli immobilizzasse i lineamenti  in una maschera rigida e ben aderente. La coda del foulard, annodato stretto attorno alla gola, si agitava e si gonfiava alla sua destra  assumendo, nello svolazzare audace, forme  libere e bizzarre.

E in quei meandri di  libertà  lasciava che i pensieri fluissero sciolti  e gli inondassero il petto già  gonfio d’orgogliosa passione civile.

L’aveva imboccata larga la curva, dopo un rettilineo lungo e polveroso che lasciato il centro del paese si arrampicava verso la prima frazione: un gruppo di case adagiate ai lati della strada,  tra cui la scuola  ed un piccolo negozio che fungeva da emporio.

Con le mani ben salde al manubrio spostò  il corpo leggermente a sinistra,  assecondando la naturale inclinazione del movimento, poi delicatamente riportò il busto in asse e diede gas.

L’abbrivio gli strappò un sorriso mentre il cuore, intonato al ritmo della velocità  crescente,  gustava  il dolce, unico sapore della  sfida personale, quel sentore  aleatorio e temporaneo di  possesso e dominio sulle cose e sul  mondo. E di superba fiducia in se stessi.

Aveva ancora le labbra  stirate in un sorriso a fatica abbozzato,  un tratto leggero di  matita che sfociava in una  smorfia,  quando due colpi in rapida successione lacerarono l’aria e la quiete agreste e laboriosa del luogo.

Un batter d’ali  improvviso ed agitato  di uno stormo di passeri accompagnò il fragore dell’accaduto per  tutta la vallata. Un’eco garrulo e stridente, quasi il lamento inquietante della natura  a rimarcare il sopruso subito. Poi fu  silenzio. Pesante, bugiardo e stridente nella sua innaturalezza.

Un’assenza di suoni che nascondeva  una cappa omertosa di teste chine e bocche serrate, di spasmi trattenuti e di paure contratte, in  un clima politico e sociale fattosi sempre più teso ed intimidatorio, intriso  di minacce, imboscate ed  assalti a persone e cose.

L’uomo sbandò, poi rotolò a terra in prossimità di un fosso, sollevando una nuvola di polvere.

A terra, fuoriuscite dalla tasca dei pantaloni,  alcune mentine s’inzaccherarono di sangue e pietrisco  e un quadernino ben presto s’inzuppo del colore della vendetta.

La moto zizzagò un paio di volte,  prima di  adagiarsi  non lontano dal corpo inanimato, mettendo in  mostra la carrozzeria ammaccata in più punti. Come perseguendo il suo compito, la ruota posteriore  continuò per alcuni minuti a girare, seguita da  un cigolio di ferraglia che, come  in un  passo a due,  accompagnò la perdita di potenza con un suono sempre più flebile.

Dopo qualche minuto un’ombra lo  sovrastò. Gli puntò il fucile alla gola, controllò l’assenza del  respiro schiacciandogli il torace con un piede, poi lesto di mano raccolse il diario e si allontanò.

In quel limbo sospeso tra la vita e l’aldilà, al confine  fra coscienza ed incoscienza e con il terrore a paralizzargli ogni arto, il moribondo si diede  un’opportunità e  barattando la vita con l’inganno  si finse  morto.

Lo soccorse Gino, quasi sul far della sera.

Stava lavorando nei paraggi, nel suo campo appena al di sotto della statale,  quando udì quegli spari, inquietanti e anomali. Per nulla  coincidenti col periodo venatorio.

“ Vuoi vedere che…” e il pensiero corse rapido all’unica, amara conclusione.

S’acquattò, pancia a terra come una lepre braccata, e lì vi rimase  per un tempo che gli parve infinito, ad occhi chiusi e  respiro trattenuto.

Poi, calate le ombre,  agì  incurante delle conseguenze con un ardimento figlio del coraggio e della personale, concreta, ma silenziosa  battaglia  contro la sopraffazione e i soprusi. S’avvicinò, ma circospetto e guardingo e con la paura come seconda pelle.

Lo trovò dolorante e ormai privo di sensi, con un filo di bava  che gli fuoriusciva dalla bocca.

Giaceva prono,  il viso  leggermente reclinato su un lato,  un braccio dentro al fosso, l’altro piegato all’altezza del gomito. Un proiettile l’aveva colpito alla spalla, l’altro al torace.

Gli bastò una rapida occhiata per riconoscerlo. Ed un’altrettanta rapida, istintiva, ma voluta decisione sul da farsi.

“ La porto via. Stia tranquillo”, gli sussurrò senza indugi, mentre a fatica lo aiutò a sorreggersi. Qualche minuto per trovare l’equilibrio, poi con uno  sforzo  che gli imperlò la fronte ed il  collo se lo caricò sulle spalle. A passi stentati,  ma incalzati dalla premura,  s’inoltrò in una radura, seguendo una fila di carpini posti a delimitare i confini dei campi.

Un percorso a tratti rocambolesco, tra  sentieri infestati dai rovi, argini dissestati,  campi  franati e in dislivello e  altri con l’erba medica  che gli sfiorava le ginocchia. E quel corpo che ad ogni passo si faceva più pesante.

“Aldo, resista, manca poco”, lo sosteneva Gino, con il fiato che s’allungava sul  “poco”, pronunciato più per  rassicurar se stesso che il moribondo. Il comignolo di casa in lontananza il miraggio che infondeva speranza e nuovo vigore.

Ogni tanto, e sempre in precario equilibrio sulle gambe ormai anchilosate, si fermava per riposizionarlo sulla schiena sempre più dolente.  Faticava un po’ con il braccio ferito, un moncone inerte e penzolante  che, sfuggendo al suo controllo,  lo faceva barcollare di lato.

Poi riprendeva, scansando con le mani qualche fronda che ostacolava il passaggio  e con un movimento veloce del capo i possibili futuri scenari della sua  coraggiosa impresa. Di certo,  bui e sanguinosi, per sé e la sua famiglia, se scoperto.

Per via di  quell’uomo che gli rantolava sulle spalle. Non un tipo qualunque. Per molti al paese e nelle frazioni  l’impiegato del comune,  preciso e scrupoloso e sempre  pronto ad aiutare  chi era  abile a maneggiare roncole e  falci, ma per nulla  avvezzo alla penna nel disbrigo di  pratiche burocratiche. Per lo più braccianti e  mezzadri che  per i suoi servizi gli garantivano  rispetto profondo e   sentita  riconoscenza, fatta  spesso di  una gratitudine  pratica e  sostanziale per quei tempi: delle uova, il cappone a Natale e qualche bicchiere in compagnia al bar. Ma non solo.   Anche e soprattutto  stima per il suo appassionato impegno civile, un segreto che  molti suoi compaesani  custodivano negli sguardi gelidi, ma sinceri  e nei cuori induriti dalle fatiche.

Perché  per altri, gli squadristi,  Aldo  era un sovversivo, un nemico del regime  in odore di partigianeria. E quel puzzo di marcio,  alimentato da sospetti e tradimenti sui  suoi rapporti con i gruppi di combattenti che  nascosti nei casotti sulle colline tramavano contro l’autorità, andava  eliminato.

Giunto nei pressi di casa, l’uomo si fermò, nascondendosi fra i rami di alcuni noccioli che costeggiavano il fienile. Il tempo per prendere fiato e riordinare i pensieri che s’aggrovigliavano come i fili di più gomitoli ravvicinati.

Inspirò  a pieni polmoni quel clima familiare che mai come in quel momento sentiva vivo  e vicino, tentando di tenere a bada il tumulto di un cuore in apprensione. Dopo aver controllato che l’aia fosse sgombra,  adagiò  Aldo con gesti lenti e delicati  ai piedi del tronco più robusto. Poi gli  tamponò le ferite con ciò che ne era rimasto del fazzoletto, mentre l’altro, madido di sudore ed  in preda al delirio,  mugugnava parole incomprensibili.

“ Rimanga sveglio”. Presto sarà al sicuro”, lo rincuorava, cercando di sorreggergli la testa  ciondolante.

La porta della stalla, tenuta  sempre chiusa con un debole catenaccio, si aprì con una leggera spallata. Una zaffata persistente di sterco e  piscio e un tepore animalesco, ma accogliente  li avvolse. Lì, in un angolo accanto alla parete annerita dal tempo e dalla muffa,  fra le balle di fieno accatastate per le vacche ed i vitellini,  gli ricavò un giaciglio di fortuna.

Temporaneo, ma relativamente sicuro, pensò. E anche  protetto da  S. Antonio che,  dall’alto di un effige dai bordi sollevati e consumati,  allungava su uomini e bestie il suo sguardo clemente.

 

La cena in casa si era freddata da tempo. La fondina che scoperchiò quasi controvoglia quella sera  rivelò un piatto di minestra, più simile ad una brodaglia in realtà,  con qualche pezzo di verdura galleggiante.

Un quarto di pane a lato del cucchiaio ed un bicchiere di vino rosso diluito varie volte completavano il pasto. Sulla sedia accanto alla stufa, intenta a rimestare la cenere per lo scaldino da mettere sotto alle lenzuola,  la moglie  lo osservava di sottecchi. E comprese.

Lo conosceva da troppo tempo per non capirne i prolungati silenzi, lo sguardo accigliato, ma soprattutto  quel gesto ripetuto, quasi ossessivo  di passarsi la mano  sulla testa già calva, in un moto  circolare, tutte le volte che una preoccupazione lo assillava. Quasi a cercare di sgombrare il campo dalla ridda di congetture ed ipotesi che affollavano la sua testa.

D’un tratto, e quasi di scatto, come illuminato da  una visione,  Gino allontanò il piatto con fare sbrigativo. Tanto, di ingollare qualcosa proprio  non se la sentiva quella sera.

“ Dobbiamo chiamare Nilde. C’è bisogno del suo aiuto”, sibilò a denti stretti, fissando la moglie con uno sguardo che non ammetteva repliche.

Si alzò, prese la lanterna e seguito dagli occhi sbarrati  della donna  ancora incredula e spaventata uscì a passo svelto. Nilde era l’allevatrice del paese, ma anche al bisogno infermiera e veterinario, quando questi, già impegnati in altre situazioni, non riuscivano a raggiungere gli ammalati o gli animali in pericolo.

Un donnone ben piantato, dalle guance sempre rubizze, braccia possenti  e una folta, ma lieve  peluria sopra il labbro superiore, dettagli che se da un lato  limitavano le avances dei possibili pretendenti, dall’altro  contribuivano a rafforzare  quell’aurea di determinazione e concretezza che nel suo lavoro si era rivelata preziosa. Ma, soprattutto, era un’amica del popolo, fidata e sempre disponibile, che non disdegnava di cucire e rammendare alla bell’e meglio chi negli scontri si era guadagnato qualche ferita. O di fare la staffetta al bisogno.

La donna abitava con i genitori ormai anziani in un casolare in fondo la via, l’ultimo  della piccola frazione.

“ Mi segua, la prego”, la implorò  lui a voce sommessa, guardandosi in continuazione alle spalle, quando se la trovò di fronte. Di più non disse e a lei  non occorse altro: la tensione percepita negli occhi sgranati  e nel suo tono supplichevole le bastarono. Afferrò la borsa con i ferri del mestieri e  senza indugi s’avviò, sbuffando aria dalle narici come un toro innervosito  e schiacciando  nel petto quel senso di repulsione verso ogni tipo di violenza  che le faceva stringere i pugni e arricciare le labbra in un moto di sdegno. Soprattutto quella cieca e barbara che  la  sua famiglia  aveva già conosciuto, quando  in un rastrellamento i nazisti  avevano scaricato addosso al figlio maggiore un intero caricatore.

Un dolore profondo e lacerante, un senso di annientamento paralizzante  che lei  aveva   trasformato col tempo in ferrea volontà di reagire, sovvertendo quel senso di inettitudine in  tenace spirito combattivo, in nome della  pace e  della libertà violata. In nome e per nome di quell’imperativo morale alla ribellione che era diventata la sua battaglia personale.

Senza proferire parola  i due s’incamminarono, guidati dal cono di luce della  lanterna  che Gino sorreggeva con mano  tremolante. Di tanto in tanto  un quarto di luna occhieggiava beffarda  dietro le nubi.  

Lo scalpiccio nel cortile richiamò la moglie che, in preda all’ansia, scrutava lo spiazzo da una piccola fessura  del portone di casa.

“Per di qua”, Gino sussurrò all’infermiera, sollevando la lanterna verso la stalla, dove un  muggito prolungato  salutò la nuova arrivata e detonò nel pesante torpore.

Nilde  scrutò con occhio attento l’uomo e le sue ferite, poi si rimboccò le maniche del  vestito, dopo aver impartito ordini secchi e precisi alla coppia che  se ne stava  muta e raccolta in disparte.

Le occorsero alcune ore per togliere i proiettili e ricucire con pazienza  le membra lacerate.

Nel frattempo Gino, tra un sorso e l’altro d’alcool puro dato al moribondo come anestetico, controllava il cortile dalla piccola finestrella della stalla  e la moglie faceva la spola tra il ricovero e la cucina per rifornire l’infermiera di acqua calda e bende pulite.

“ Dobbiamo solo aspettare ora”, disse ormai  sfinita,  rimettendosi in piedi e massaggiandosi la schiena indolenzita.

Si lavò le mani, poi  in fretta raccolse i suoi strumenti. L’alba stava per sorgere e di lì a breve i contadini avrebbero ripreso i lavori nei campi.

“ Passerò domani a controllare”, disse  Nilde, lanciando loro un’occhiata complice nel congedarsi.

E così fece, per alcuni giorni. Si presentava quasi sempre prima dell’alba:  sfasciava,  medicava le suturazioni eseguite e gli controllava la febbre. Eseguiva la sua missione con spirito militaresco e senso del dovere. Qualche volta si intratteneva giusto il tempo di una tazza di latte cremoso appena munto e per informare i tre sugli sviluppi della vicenda in paese.

“ Gli squadristi cercano il corpo in zona… Hanno dato fuoco alla sua casa e stanno controllando ogni casolare. Se dovessero passare,  non fatevi prendere dal panico e cercate di comportarvi normalmente”, ripeteva alla coppia con tono serio, pur conscia della pericolosità del suggerimento. Ma lei non colse  mai nei loro sguardi  un cenno di titubanza, né tantomeno un momento di scoramento.

Eppure soli, nel buio intimo  della notte e  al cospetto delle proprie fragilità, Gino ed Ernesta lasciavano che le emozioni defluissero e tenendosi le mani intrecciate si confessavano i propri  timori, si asciugavano le lacrime e sospiravano  la paura  teneramente abbracciati.   

“Uhm, direi che ci siamo”, esclamò Nilde, infine, una mattina dopo la consueta, meticolosa visita, rivelando per la prima volta un cenno di compiacimento, un sorriso appena abbozzato  sulle labbra carnose.

Aldo  aveva ripreso il colorito naturale e lentamente andava recuperando le forze e la memoria dell’agguato.

“ Il mio quaderno? domandò di scatto  una mattina, mettendosi seduto sulla balla di fieno.

Lo sguardo attonito di Gino confermò il suo sospetto.

Gli raccontò, allora, con voce dimessa,  del prezioso contenuto,  di  quelle utili  informazioni che aveva captato in Comune e poi trascritto  sugli  stanziamenti delle truppe tedesche nei dintorni  e dei loro approvvigionamenti, un documento che avrebbe dovuto consegnare ad un uomo fidato.

Un diario che scottava e che aveva decretato la sua fine.

 “ Ecco perché mi volevano morto”, constatò con amara consapevolezza, tenendosi la testa tra le mani.

Nel gelo che seguì Aldo prese una decisione. Per sé, ma soprattutto per quella coppia che sfidando il pericolo gli aveva dimostrato lealtà ed amicizia sincere.  Lì ,al paese, non poteva più rimanere e la permanenza in quella stalla non era più sicura.

“ Devo andarmene”, confessò ai due la sera.

“ In Argentina ho parenti che mi ospiteranno. Ho solo bisogno di arrivare a Genova per imbarcarmi”. Gino ed Ernesta lo ascoltarono, uno accanto all’altro come sempre, i volti mesti e gli occhi umidi.

Nilde, ancora una volta, lo aiutò. Gli organizzò il viaggio nei minimi dettagli  e grazie ad una colletta recuperò i soldi per la traversata e la prima permanenza.

Li  salutò in piena notte, con un cielo stellato ad accompagnare l’addio:  una pacca robusta di  riconoscenza sulle spalle a Gino, un bacio caldo di sentita gratitudine  ad Ernesta sulla fronte e una stretta di mano fiera e generosa a Nilde.  Un magone, pesante come un macigno, gli bloccava le parole e le emozioni.

Verso la fine dell’anno i due ricevettero una cartolina da Buenos Aires. Muta, senza mittente. La firma, un superfluo cameo.

Se la rigirarono emozionati tra le mani, felici come bambini, compiaciuti per la riuscita dell’impresa ed orgogliosi del loro personale contributo. Da allora, e per molti anni in seguito, quel saluto silenzioso, ma pregno, quell’attestazione  di sincero, granitico affetto, rallegrò il cuore di Gino ed Ernesta, i miei nonni.

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