La cartolina
Procedeva
tranquillo a bordo della sua motoretta di seconda mano da poco acquistata, lasciando che il vento gli sferzasse il viso
e gli immobilizzasse i lineamenti in una
maschera rigida e ben aderente. La coda del foulard, annodato stretto attorno
alla gola, si agitava e si gonfiava alla sua destra assumendo, nello svolazzare audace, forme libere e bizzarre.
E
in quei meandri di libertà lasciava che i pensieri fluissero
sciolti e gli inondassero il petto già gonfio d’orgogliosa passione civile.
L’aveva
imboccata larga la curva, dopo un rettilineo lungo e polveroso che lasciato il
centro del paese si arrampicava verso la prima frazione: un gruppo di case
adagiate ai lati della strada, tra cui
la scuola ed un piccolo negozio che
fungeva da emporio.
Con
le mani ben salde al manubrio spostò il
corpo leggermente a sinistra,
assecondando la naturale inclinazione del movimento, poi delicatamente
riportò il busto in asse e diede gas.
L’abbrivio
gli strappò un sorriso mentre il cuore, intonato al ritmo della velocità crescente, gustava
il dolce, unico sapore della sfida personale, quel sentore aleatorio e temporaneo di possesso e dominio sulle cose e sul mondo. E di superba fiducia in se stessi.
Aveva
ancora le labbra stirate in un sorriso a
fatica abbozzato, un tratto leggero
di matita che sfociava in una smorfia, quando due colpi in rapida successione
lacerarono l’aria e la quiete agreste e laboriosa del luogo.
Un
batter d’ali improvviso ed agitato di uno stormo di passeri accompagnò il fragore
dell’accaduto per tutta la vallata. Un’eco
garrulo e stridente, quasi il lamento inquietante della natura a rimarcare il sopruso subito. Poi fu silenzio. Pesante, bugiardo e stridente nella
sua innaturalezza.
Un’assenza
di suoni che nascondeva una cappa
omertosa di teste chine e bocche serrate, di spasmi trattenuti e di paure
contratte, in un clima politico e sociale
fattosi sempre più teso ed intimidatorio, intriso di minacce, imboscate ed assalti a persone e cose.
L’uomo
sbandò, poi rotolò a terra in prossimità di un fosso, sollevando una nuvola di
polvere.
A
terra, fuoriuscite dalla tasca dei pantaloni, alcune mentine s’inzaccherarono di sangue e
pietrisco e un quadernino ben presto s’inzuppo
del colore della vendetta.
La
moto zizzagò un paio di volte, prima
di adagiarsi non lontano dal corpo inanimato, mettendo
in mostra la carrozzeria ammaccata in
più punti. Come perseguendo il suo compito, la ruota posteriore continuò per alcuni minuti a girare, seguita
da un cigolio di ferraglia che, come in un
passo a due, accompagnò la
perdita di potenza con un suono sempre più flebile.
Dopo
qualche minuto un’ombra lo sovrastò. Gli
puntò il fucile alla gola, controllò l’assenza del respiro schiacciandogli il torace con un
piede, poi lesto di mano raccolse il diario e si allontanò.
In
quel limbo sospeso tra la vita e l’aldilà, al confine fra coscienza ed incoscienza e con il terrore
a paralizzargli ogni arto, il moribondo si diede un’opportunità e barattando la vita con l’inganno si finse
morto.
Lo
soccorse Gino, quasi sul far della sera.
Stava
lavorando nei paraggi, nel suo campo appena al di sotto della statale, quando udì quegli spari, inquietanti e
anomali. Per nulla coincidenti col
periodo venatorio.
“
Vuoi vedere che…” e il pensiero corse rapido all’unica, amara conclusione.
S’acquattò,
pancia a terra come una lepre braccata, e lì vi rimase per un tempo che gli parve infinito, ad occhi
chiusi e respiro trattenuto.
Poi,
calate le ombre, agì incurante delle conseguenze con un ardimento
figlio del coraggio e della personale, concreta, ma silenziosa battaglia
contro la sopraffazione e i soprusi. S’avvicinò, ma circospetto e
guardingo e con la paura come seconda pelle.
Lo
trovò dolorante e ormai privo di sensi, con un filo di bava che gli fuoriusciva dalla bocca.
Giaceva
prono, il viso leggermente reclinato su un lato, un braccio dentro al fosso, l’altro piegato all’altezza
del gomito. Un proiettile l’aveva colpito alla spalla, l’altro al torace.
Gli
bastò una rapida occhiata per riconoscerlo. Ed un’altrettanta rapida,
istintiva, ma voluta decisione sul da farsi.
“
La porto via. Stia tranquillo”, gli sussurrò senza indugi, mentre a fatica lo
aiutò a sorreggersi. Qualche minuto per trovare l’equilibrio, poi con uno sforzo
che gli imperlò la fronte ed il
collo se lo caricò sulle spalle. A passi stentati, ma incalzati dalla premura, s’inoltrò in una radura, seguendo una fila di
carpini posti a delimitare i confini dei campi.
Un
percorso a tratti rocambolesco, tra
sentieri infestati dai rovi, argini dissestati, campi franati e in dislivello e altri con l’erba medica che gli sfiorava le ginocchia. E quel corpo
che ad ogni passo si faceva più pesante.
“Aldo,
resista, manca poco”, lo sosteneva Gino, con il fiato che s’allungava sul “poco”, pronunciato più per rassicurar se stesso che il moribondo. Il
comignolo di casa in lontananza il miraggio che infondeva speranza e nuovo
vigore.
Ogni
tanto, e sempre in precario equilibrio sulle gambe ormai anchilosate, si
fermava per riposizionarlo sulla schiena sempre più dolente. Faticava un po’ con il braccio ferito, un
moncone inerte e penzolante che, sfuggendo
al suo controllo, lo faceva barcollare
di lato.
Poi
riprendeva, scansando con le mani qualche fronda che ostacolava il
passaggio e con un movimento veloce del
capo i possibili futuri scenari della sua
coraggiosa impresa. Di certo, bui
e sanguinosi, per sé e la sua famiglia, se scoperto.
Per
via di quell’uomo che gli rantolava
sulle spalle. Non un tipo qualunque. Per molti al paese e nelle frazioni l’impiegato del comune, preciso e scrupoloso e sempre pronto ad aiutare chi era
abile a maneggiare roncole e
falci, ma per nulla avvezzo alla
penna nel disbrigo di pratiche
burocratiche. Per lo più braccianti e
mezzadri che per i suoi servizi
gli garantivano rispetto profondo e sentita
riconoscenza, fatta spesso
di una gratitudine pratica e
sostanziale per quei tempi: delle uova, il cappone a Natale e qualche
bicchiere in compagnia al bar. Ma non solo. Anche e
soprattutto stima per il suo appassionato
impegno civile, un segreto che molti
suoi compaesani custodivano negli sguardi
gelidi, ma sinceri e nei cuori induriti
dalle fatiche.
Perché
per altri, gli squadristi, Aldo
era un sovversivo, un nemico del regime in odore di partigianeria. E quel puzzo di
marcio, alimentato da sospetti e
tradimenti sui suoi rapporti con i
gruppi di combattenti che nascosti nei
casotti sulle colline tramavano contro l’autorità, andava eliminato.
Giunto
nei pressi di casa, l’uomo si fermò, nascondendosi fra i rami di alcuni
noccioli che costeggiavano il fienile. Il tempo per prendere fiato e riordinare
i pensieri che s’aggrovigliavano come i fili di più gomitoli ravvicinati.
Inspirò a pieni polmoni quel clima familiare che mai
come in quel momento sentiva vivo e
vicino, tentando di tenere a bada il tumulto di un cuore in apprensione. Dopo
aver controllato che l’aia fosse sgombra, adagiò Aldo con gesti lenti e delicati ai piedi del tronco più robusto. Poi gli tamponò le ferite con ciò che ne era rimasto
del fazzoletto, mentre l’altro, madido di sudore ed in preda al delirio, mugugnava parole incomprensibili.
“
Rimanga sveglio”. Presto sarà al sicuro”, lo rincuorava, cercando di
sorreggergli la testa ciondolante.
La
porta della stalla, tenuta sempre chiusa
con un debole catenaccio, si aprì con una leggera spallata. Una zaffata
persistente di sterco e piscio e un
tepore animalesco, ma accogliente li
avvolse. Lì, in un angolo accanto alla parete annerita dal tempo e dalla muffa,
fra le balle di fieno accatastate per le
vacche ed i vitellini, gli ricavò un
giaciglio di fortuna.
Temporaneo,
ma relativamente sicuro, pensò. E anche
protetto da S. Antonio che, dall’alto di un effige dai bordi sollevati e
consumati, allungava su uomini e bestie il
suo sguardo clemente.
La
cena in casa si era freddata da tempo. La fondina che scoperchiò quasi
controvoglia quella sera rivelò un
piatto di minestra, più simile ad una brodaglia in realtà, con qualche pezzo di verdura galleggiante.
Un
quarto di pane a lato del cucchiaio ed un bicchiere di vino rosso diluito varie
volte completavano il pasto. Sulla sedia accanto alla stufa, intenta a rimestare
la cenere per lo scaldino da mettere sotto alle lenzuola, la moglie lo osservava di sottecchi. E comprese.
Lo
conosceva da troppo tempo per non capirne i prolungati silenzi, lo sguardo
accigliato, ma soprattutto quel gesto
ripetuto, quasi ossessivo di passarsi la
mano sulla testa già calva, in un moto circolare, tutte le volte che una
preoccupazione lo assillava. Quasi a cercare di sgombrare il campo dalla ridda
di congetture ed ipotesi che affollavano la sua testa.
D’un
tratto, e quasi di scatto, come illuminato da una visione, Gino allontanò il piatto con fare sbrigativo.
Tanto, di ingollare qualcosa proprio non
se la sentiva quella sera.
“
Dobbiamo chiamare Nilde. C’è bisogno del suo aiuto”, sibilò a denti stretti,
fissando la moglie con uno sguardo che non ammetteva repliche.
Si
alzò, prese la lanterna e seguito dagli occhi sbarrati della donna ancora incredula e spaventata uscì a passo
svelto. Nilde era l’allevatrice del paese, ma anche al bisogno infermiera e
veterinario, quando questi, già impegnati in altre situazioni, non riuscivano a
raggiungere gli ammalati o gli animali in pericolo.
Un
donnone ben piantato, dalle guance sempre rubizze, braccia possenti e una folta, ma lieve peluria sopra il labbro superiore, dettagli
che se da un lato limitavano le avances
dei possibili pretendenti, dall’altro
contribuivano a rafforzare
quell’aurea di determinazione e concretezza che nel suo lavoro si era
rivelata preziosa. Ma, soprattutto, era un’amica del popolo, fidata e sempre
disponibile, che non disdegnava di cucire e rammendare alla bell’e meglio chi
negli scontri si era guadagnato qualche ferita. O di fare la staffetta al
bisogno.
La
donna abitava con i genitori ormai anziani in un casolare in fondo la via,
l’ultimo della piccola frazione.
“
Mi segua, la prego”, la implorò lui a
voce sommessa, guardandosi in continuazione alle spalle, quando se la trovò di
fronte. Di più non disse e a lei non
occorse altro: la tensione percepita negli occhi sgranati e nel suo tono supplichevole le bastarono. Afferrò
la borsa con i ferri del mestieri e
senza indugi s’avviò, sbuffando aria dalle narici come un toro
innervosito e schiacciando nel petto quel senso di repulsione verso ogni
tipo di violenza che le faceva stringere
i pugni e arricciare le labbra in un moto di sdegno. Soprattutto quella cieca e
barbara che la sua famiglia
aveva già conosciuto, quando in
un rastrellamento i nazisti avevano
scaricato addosso al figlio maggiore un intero caricatore.
Un
dolore profondo e lacerante, un senso di annientamento paralizzante che lei
aveva trasformato col tempo in ferrea
volontà di reagire, sovvertendo quel senso di inettitudine in tenace spirito combattivo, in nome della pace e
della libertà violata. In nome e per nome di quell’imperativo morale
alla ribellione che era diventata la sua battaglia personale.
Senza
proferire parola i due s’incamminarono,
guidati dal cono di luce della lanterna che Gino sorreggeva con mano tremolante. Di tanto in tanto un quarto di luna occhieggiava beffarda dietro le nubi.
Lo
scalpiccio nel cortile richiamò la moglie che, in preda all’ansia, scrutava lo
spiazzo da una piccola fessura del
portone di casa.
“Per
di qua”, Gino sussurrò all’infermiera, sollevando la lanterna verso la stalla,
dove un muggito prolungato salutò la nuova arrivata e detonò nel pesante
torpore.
Nilde
scrutò con occhio attento l’uomo e le
sue ferite, poi si rimboccò le maniche del
vestito, dopo aver impartito ordini secchi e precisi alla coppia che se ne stava muta e raccolta in disparte.
Le
occorsero alcune ore per togliere i proiettili e ricucire con pazienza le membra lacerate.
Nel
frattempo Gino, tra un sorso e l’altro d’alcool puro dato al moribondo come
anestetico, controllava il cortile dalla piccola finestrella della stalla e la moglie faceva la spola tra il ricovero e
la cucina per rifornire l’infermiera di acqua calda e bende pulite.
“
Dobbiamo solo aspettare ora”, disse ormai
sfinita, rimettendosi in piedi e
massaggiandosi la schiena indolenzita.
Si
lavò le mani, poi in fretta raccolse i
suoi strumenti. L’alba stava per sorgere e di lì a breve i contadini avrebbero
ripreso i lavori nei campi.
“
Passerò domani a controllare”, disse Nilde,
lanciando loro un’occhiata complice nel congedarsi.
E
così fece, per alcuni giorni. Si presentava quasi sempre prima dell’alba: sfasciava,
medicava le suturazioni eseguite e gli controllava la febbre. Eseguiva
la sua missione con spirito militaresco e senso del dovere. Qualche volta si
intratteneva giusto il tempo di una tazza di latte cremoso appena munto e per
informare i tre sugli sviluppi della vicenda in paese.
“
Gli squadristi cercano il corpo in zona… Hanno dato fuoco alla sua casa e stanno
controllando ogni casolare. Se dovessero passare, non fatevi prendere dal panico e cercate di comportarvi
normalmente”, ripeteva alla coppia con tono serio, pur conscia della
pericolosità del suggerimento. Ma lei non colse mai nei loro sguardi un cenno di titubanza, né tantomeno un momento
di scoramento.
Eppure
soli, nel buio intimo della notte e al cospetto delle proprie fragilità, Gino ed
Ernesta lasciavano che le emozioni defluissero e tenendosi le mani intrecciate
si confessavano i propri timori, si
asciugavano le lacrime e sospiravano la
paura teneramente abbracciati.
“Uhm,
direi che ci siamo”, esclamò Nilde, infine, una mattina dopo la consueta,
meticolosa visita, rivelando per la prima volta un cenno di compiacimento, un
sorriso appena abbozzato sulle labbra
carnose.
Aldo
aveva ripreso il colorito naturale e
lentamente andava recuperando le forze e la memoria dell’agguato.
“
Il mio quaderno? domandò di scatto una
mattina, mettendosi seduto sulla balla di fieno.
Lo
sguardo attonito di Gino confermò il suo sospetto.
Gli
raccontò, allora, con voce dimessa, del
prezioso contenuto, di quelle utili informazioni che aveva captato in Comune e poi
trascritto sugli stanziamenti delle truppe tedesche nei
dintorni e dei loro approvvigionamenti,
un documento che avrebbe dovuto consegnare ad un uomo fidato.
Un
diario che scottava e che aveva decretato la sua fine.
“ Ecco perché mi volevano morto”, constatò con
amara consapevolezza, tenendosi la testa tra le mani.
Nel
gelo che seguì Aldo prese una decisione. Per sé, ma soprattutto per quella
coppia che sfidando il pericolo gli aveva dimostrato lealtà ed amicizia
sincere. Lì ,al paese, non poteva più
rimanere e la permanenza in quella stalla non era più sicura.
“
Devo andarmene”, confessò ai due la sera.
“
In Argentina ho parenti che mi ospiteranno. Ho solo bisogno di arrivare a
Genova per imbarcarmi”. Gino ed Ernesta lo ascoltarono, uno accanto all’altro
come sempre, i volti mesti e gli occhi umidi.
Nilde,
ancora una volta, lo aiutò. Gli organizzò il viaggio nei minimi dettagli e grazie ad una colletta recuperò i soldi per
la traversata e la prima permanenza.
Li salutò in piena notte, con un cielo stellato
ad accompagnare l’addio: una pacca
robusta di riconoscenza sulle spalle a
Gino, un bacio caldo di sentita gratitudine ad Ernesta sulla fronte e una stretta di mano
fiera e generosa a Nilde. Un magone,
pesante come un macigno, gli bloccava le parole e le emozioni.
Verso
la fine dell’anno i due ricevettero una cartolina da Buenos Aires. Muta, senza
mittente. La firma, un superfluo cameo.
Se
la rigirarono emozionati tra le mani, felici come bambini, compiaciuti per la
riuscita dell’impresa ed orgogliosi del loro personale contributo. Da allora, e
per molti anni in seguito, quel saluto silenzioso, ma pregno, quell’attestazione
di sincero, granitico affetto, rallegrò il cuore di Gino ed Ernesta, i miei nonni.
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