domenica 21 agosto 2022

Le premiazioni «Parole ed Immagini» di domenica 21

Già all’alba di domenica 21, dall’esposizione mellanese «Parole ed Immagini», ancora allestita, si è presentato il bovesano Lelio Giraudo, ancora vincitore, stavolta nella sezione «Animali selvatici», a ritirare il suo premio... Nella stessa giornata, in orario di apertura pomeridiana, è stato premiato Flavio Vacchetta, di Bene Vagienna, terzo classificato tra le poesie. Diploma di merito è stato consegnato a Monica Stievanin, poetessa ed artista a tutto tondo, altra cuneese di Rocca De Baldi.

Sarà ancora aperta domenica 28, dalle 15 alle 19, ma visitabile in qualsiasi momento, sin al 31, prenotando al 340.3761714...





lunedì 15 agosto 2022

Tenere le mani contro il vetro che mi separa dal mondo di Anita Morri - secondo "giovani"

Oggi come ieri e, ieri come oggi. Rinchiusa in questa bolla di vetro sospesa in uno spazio vuoto e remoto, privo di tempo, di confini. Rinchiusa, con me sola. Passo le giornate qui dentro da molto tempo, non da sempre, da molto tempo. Talvolta mi sento ludibrio della sorte: la vedo, ride; la vedo, si avvicina al di là del vetro; la vedo, muove le labbra con beffarda malizia. Cosa dice? Cosa dici?... permettimi di saperlo! Abbasso lo sguardo, so di non poter udire. La vedo, si allontana e mi abbandona nuovamente alla solitudine.

Lascio sfuggire grida soffocate che mi attraversano sonore. Sbatto più volte i pugni contro il vetro come se ancora non sapessi quanto è resistente, tanto da non poter nemmeno farvi nascere quella crepa che lascerebbe filtrare un alito di vita. Talvolta mi sento grata alla sorte: mi ha concesso almeno il tempo di apprendere la parola.

La mia vita si nutre di questo, io mi nutro di questo. Pensieri fluttuanti intrappolati tra i cunicoli della mente che cercano lo svincolo per fuggire. Una volta fuori, ma ancora dentro alla mia stessa prigione, creano piccoli vortici e, dopo pochi istanti di sfrenato saltabeccare, schiantandosi muoiono, scivolano verso il basso lungo il vetro.

La vedo, si avvicina; la vedo, si allontana lasciandomi ancora una volta nel silenzio intonso ed eterno che non mi è possibile colmare. Tutto ciò che mi è dato sentire è qualcosa che posso tastare contemplare odorare gustare; perciò da quando c’è questo vetro a tenermi distante dallo scorrere della mia stessa vita trasformo le onde sonore in concreto, percepibile con gli altri sensi. La musica, che un tempo facevo risuonare reale attorno a me, nell’oggi mi scuote con le vibrazioni che dal pianoforte viaggiano attraverso il mio corpo. Oppure, quando è mia sorella ad essere sul seggiolino usurato del pianoforte, nella grande sala che ricordo rimbombante, osservo la delicatezza con cui muove le dita, l’irruenza del piede sui pedali e poi lascio danzare gli occhi sullo spartito. Intanto, in quei pertugi della mente, trasformo tali percezioni nell’armonia che desidero ottenere, immaginando, ad esempio, gli improvvisi passaggi dal forte al pianissimo e i delicati crescendo che si adagiano sul mezzoforte, quando le mie mani suonano trasportate dall’Appassionata di Beethoven.

Ammiravo la natura nel suo grande potere di trasmettere la propria compiutezza, il proprio equilibrio, con piccoli elementi captabili da ognuno dei sensi umani. Ora, alla luce del sole che muta i colori repentinamente, al tocco piccante del vento sul viso, al soffuso profumo di bosco, al sapore delle erbe selvatiche, non accosto più il parlare eloquente del fiume nella vallata, delle cinciarelle nascoste tra i rami, delle pietre che rotolano sul sentiero o dei fiocchi di neve che si posano impalpabili gli uni sugli altri. Per questo, forse, in alcuni momenti la Tenuta mi sembra spegnersi, affievolirsi, ma dopo poco rammento di essere io a proiettare quest’assenza di vita sul mondo. Esiste, però, qualcosa che asseconda la mia mancanza; i libri non prestano né immagini né sottofondi acustici né sapori e odori di ciò che le pagine raccontano, così questi possono essere generati e amalgamati in accordo tra loro nei cunicoli affollati della mente senza bisogno di sovrapporre rumori e voci che ricordo a visioni del presente.

Le parole compongono in me un canto potente, superiore a qualsiasi altro vero suono. Qualcuno mi tocca la spalla. Non sussulto nell’abbandonare tale intreccio di riflessioni, il distacco e l’apatia me lo impediscono. Appoggio una mano sul tavolo e una sullo schienale della sedia per torcermi verso destra a guardare chi è. Vedo mia sorella nel suo bel vestitino di flanella rossa. Quanto mi è cara… Vorrei sorriderle, ma nulla che adesso è volere può facilmente essere realizzato. Sbircio nei suoi occhi dolci. Mi sfiora con le dita la guancia, poi il naso, ora le labbra. Sono calde. Volgo lo sguardo un istante verso la finestra per sapere se sta ancora nevicando e… Sono nella mia bolla, rinchiusa. Non può essere! Vedo me stessa fuori del vetro: sto leggendo le poche parole scritte a matita su un pezzo di carta giallognola. “Sei pronta? Fuori siamo già tutti in attesa della mezzanotte”.

Tocco i bordi irregolari del foglio strappato. Prendo la matita e scrivo. “Sì”. Sento gli occhi bruciare e subito lacrime pesanti cadere in basso, ai mei piedi, e rimbombare. Mi bagnano le guance, il naso, le labbra proprio dove mia sorella mi ha carezzata e con loro portano via il suo tocco delicato. Respiro con affanno, la bolla si riempie di vapore, il vetro si appanna. Guardo tutt’intorno, non riesco più a capire cosa accada nella mia stanza, vedo solamente il buio fuori, ho paura. Premo i palmi delle mani contro il vetro bagnato di condensa, vi appoggio la fronte, strizzo gli occhi per tentare di intravedere qualche movimento attraverso la coltre che ormai mi soffoca. Aspetta…! Scorgo delle luci colorate che piovono dal cielo illuminando le montagne incappucciate dalla neve. Ci sono io, in piedi, con il capo rivolto verso l’alto e lo sguardo velato.

C’è la mia adorata sorella, mia madre abbracciata a mio padre con le testa appoggiata sulla sua spalla. Mi sentite? Pausa. Perché nessuno mi sente? Vi sto urlando, ascoltatemi! Premo più forte i polpastrelli e le lacrime continuano a sgorgare silenziose in questo silenzio. Chiudo lentamente gli occhi, ormai troppo offuscati da un dolore ed una stanchezza improvvisi. Mi rannicchio sul fondo della bolla, ma non dormo perché ho freddo. Tutta la famiglia è fuori a festeggiare la speranza che l’inizio di un nuovo anno dona, anche il mio corpo è lì, ma non sono io. Io sono qui, sono qui. La speranza non ha più dimora in questa bolla, o forse non vi è mai vissuta. Tutto ciò che posso fare per osservare la vita, senza desiderare la morte, è tenere le mani contro il vetro che mi separa dal mondo. Benché gli anni, uno dopo l’altro, arrivino al loro termine, io da qui non libero il mio ‘essere’ e non mi libero di questo mio ‘essere’, tanto rovinoso. Fasci di luce inondano la sala vuota. Oggi è un tempo nuovo? Con la punta delle dita accarezzo la superficie vellutata della tastiera in avorio del mio Bösendorfer a coda. Istante di meditazione. Ad occhi socchiusi comincio a saltare sui tasti emanando l’impeto del tormento. Cosa suono? Nemmeno io lo so: è una musica che nasce in profondità a me sconosciute e affiora compassionevole. Pochi sono i pensieri che, in momenti come questo, rimangono bloccati a lungo nella testa. Vi aleggia dentro solamente un fastidioso ronzio; esso non turba, però, il senso di una così grande elevazione. Adesso lo sguardo torna presente, ma fugge oltre la finestra che dà sui giardini coltivati. Eccola! Nascosta tra i cespugli di sambuco, illuminata da bagliori chiari, quella bimba cui intensamente dedico amore, che curo come l’unica che lenisce la mia infelicità. La musica smette di risuonare, fuori e dentro della mia bolla, lasciando nell’aria un incessante riverbero.

Faccio violenza alle ginocchia deboli, mi alzo di scatto, cammino verso l’uscita del Palazzo. Mentre mi muovo tra i viali del giardino per raggiungerla, alzo gli occhi più volte, la sogguardo nella sua innocenza. Mani intrecciate, camminiamo sull’erba del frutteto; le dita dei piedi solleticate dagli steli bagnati. Folate di vento muovono i riccioli della piccola sotto il subbonet di raso. Ride. Percepisco la sua gioia.

Con la schiena poggiata al tronco di un pruno fisso le sue labbra che scandiscono una poesia di Hölderlin tanto amata: Poco sapere, ma di gioia molto ai mortali è concesso. O bel sole, perché me non appaga – tu, fiore dei miei fiori – nominarti in un giorno di maggio? Conosco io forse cosa più alta? Oh potessi essere come i fanciulli, come gli usignoli e in canti senza affanno la mia gioia cantare! Vorrei non dover più spezzare questa condizione di freschezza in una disperata liberazione.

sabato 13 agosto 2022

La prima «Premiazione successiva»: Giovanni Cappello


Il primo a «passare alla esposizione» a ritirare i suoi premi è stato Giovanni Cappello, torinese di Carmagnola (Torino), durante «puntata», nel pomeriggio di giovedì 11 agosto, a trovar amici ai piedi della Bisalta. È vincitore della sezione «Scatti lungo la mia strada», con una delle sue foto che san ben vedere (ne son già arrivate in altre edizioni), fissare, incorniciare, attimi, colori e situazioni. Oltre al «cesto» ed al «buono stampa» di «Imprimere» ha avuto altro pacco di libri per un terzo posto ne «La luce ed il buio».

Pierluigi Fornasier


 

Daniela Antonello e Pierluigi Fornasier




 

Maura Di Stefano - Vincitrice Parole ed Immagini



Colorato silenzio

Silenzio,

solo la caffettiera borbotta.

Aroma di caffè nero

e il rosso di un geranio

alla finestra

come un pensiero ardente

che si perde

nella cornice di un ricamo.

Silenzio.

Lo sguardo attraversa

i vetri sottili.

C’è una casa rossa

che si specchia

nell’immobilità del fiordo.

Dondola appena

una barca gialla

e forse sussurra parole lievi

all’acqua che la culla.

E la montagna

laggiù,

nel verde del suo abito estivo,

da sempre è custode di un bene infinito

che qui appare immenso:

il silenzio.





 

Un ricordo di Umberto Maria Gillio

Un ricordo di Umberto Maria Gillio

 

Umberto Maria Gillio, canavesano di Cascinette d’Ivrea, è stato un partecipante del «Concorso Parole ed Immagini» di Mellana di Boves per molte edizione, ricevendo numerosi premi. Una volta si presentò anche alla premiazione, con la poetessa di Ivrea Maria Cantamessa Andrina.

Era stato ragioniere libero professionista, con avviato studio, negli anni ruggenti di Ivrea, quelli della Olivetti all’avanguardia mondiale nelle ricerche sui computer e che sembrava avere degli orizzonti sconfinati davanti...

Solo avevamo la sua vecchia mail professionale, quindi gli telefonavamo, sempre molto contenti di sentire la sua impeccabile cortesia.

Vinse nelle ultime edizioni, quella dell’anno scorso 2021, con «Vapor», e quella in corso, con «La Giòstra».

L’anno scorso lo includemmo nel percorso delle «Premiazioni itineranti», che decidemmo già nel 2020, viste le difficoltà dei vincitori di arrivare a Mellana ed un servizio postale che certo non migliora...

È stato modo per conoscere meglio i nostri partecipanti, alcuni «storici»... La strada percorsa ci ha portati sin in Friuli, a Pordenone, e nel Lazio meridionale, a Cassino.

Gli riservammo, esattamente, lo scorso fine ottobre, l’ultima «premiazione itinerante», dopo essere passati a casa di Maria Teresa Cantamessa Andrina... Gli avevamo proposto un, contestuale, «aperitivo». Lui insistette per condurci in un ristorante tipico canavesano in una frazione di Ivrea, al termine di un delizioso vialetto di platani giallissimi. Lì mangiammo abbondantemente (a partire dai famosi «tupunet»), parlando...

Ci raccontò del suo passato lavoro, dell’amore per la famiglia, di un interesse per la poesia e la letteratura, italiane e piemontesi, per i quali aveva trovato tempo soprattutto con la pensione...

Ci sentimmo ancora a marzo, telefonicamente, quando ci chiamò per chiederci chiarimenti sul nuovo bando... Ci ripromettemmo di ritrovarci, in qualsiasi caso... Qualche giorno dopo ci  arrivò una sua poesia, come sempre, scritta in italiano e piemontese, garbata e delicata, di sorriso malinconico...

Ad inizio maggio ci è arrivata la notizia della sua morte, l’8 di quel mese, rapidamente portato via da un male implacabile...

Un mesetto dopo la giuria ci comunicò sua nuova vittoria, purtroppo «postuma»...

 

Adriano Toselli

Silenzi - prosa vincitrice di Giuseppe Raineri (Giulio Irneari) - Bergamo

 

Silenzi

 

Era notte a Camerino. Una notte senza luna, le stelle brillavano inconsapevoli di quanto era successo, di quello che succede e continuerà ad accadere.

La natura è quella che è, semplicemente è.

È sé stessa, niente altro, come una creatura appena venuta alla luce, non è male, non è bene, e si comporta come se non sapesse cosa sia l’una o l’altra cosa.

Vive senza porsi domande.

Questione di mera fisica, di mera chimica.

Non può seguire una legge morale e la morale è, che una morale non ce l’ha.

A volte si manifesta bella e generosa, a volte si rivela crudele ed egoista, ma sono categorie che non le appartengono.

Nessuna altra luce interferiva con lo spettacolo di un cielo buio e profondo, imperturbabile, quasi insensibile alla sofferenza di chi lo stava scrutando in cerca di risposte. Il borgo sembrava immerso in un’atmosfera irreale, come un paziente in stato di coma.

Ogni sera, da molti giorni ormai, violava le insistenti raccomandazioni a voce, le notifiche di attenersi con rigore e senso di responsabilità alle indicazioni di pericolo e di non oltrepassare gli sbarramenti che precludevano l’ingresso alla zona rossa.

Durante quei pellegrinaggi della disperazione e della consolazione cercava con ostinazione spiegazioni che non potevano avere risposte. Troppi perché, tutti possibili, tutti veri e tutti falsi: imperizia, ingordigia, fatalità, disonestà, spensierata o deliberata assenza di rispetto per luoghi e persone, ignoranza, inadeguatezza.

Dopo i primi sopralluoghi, i lavori di consolidamento, di ricostruzione erano promesse di una rinascita lontana come le stelle sopra di lei.

Almeno il caschetto di protezione, quello sì, l’aveva sempre con sé.

Si temeva per l’incolumità delle persone e che qualche disonesto si approfittasse della situazione per penetrare nelle abitazioni e rubare quello che ancora era possibile portare via. Gesti disumani.

Passò attraverso il varco che tempo addietro ragazzini curiosi, ricchi di intraprendenza e fantasia, affascinati dal mistero e forse dal brivido irresistibile di violare le regole imposte dagli adulti, avevano aperto e accuratamente richiuso per cancellare le tracce del loro passaggio.

Li aveva osservati, non vista, mentre trafficavano con le recinzioni tenendosi a una certa distanza. Non avevano cattive intenzioni e probabilmente andavano in cerca delle case che avevano abitato. Parlavano tra loro a voce bassa come se si trovassero in un cimitero per una visita, quasi un commiato, tenendosi al centro della strada ed indicando a turno chi un edificio, chi un altro.

Tornò indietro, li attese ma non disse loro nulla, segno di rispetto e di solidarietà per la sofferenza che li accomunava.

Rimise ogni cosa al suo posto dietro di sé, si guardò ancora alle spalle per sincerarsi che non ci fosse qualcuno che la stesse seguendo. Fece alcuni passi e si fermò in ascolto, nascosta da una zona d’ombra, scrutando l’oscurità, per cogliere eventuali segnali di presenze. Nessuno!

Iniziò a percorrere la stradina lievemente in salita tra i muri delle case puntellati da assi, da travi. C’erano ancora macerie per terra.

Indugiò nuovamente in una piazzola, ferma, in ascolto, immobile, mettendo a tacere anche il pur lieve rumore dei suoi passi.

Soffiava una brezza leggera, frizzante.

Quel silenzio era innaturale, ogni volta che penetrava di soppiatto nella zona proibita sperimentava la stessa sensazione di vuoto e di abbandono.

Regnava un odore di morte e non era questione di olfatto, solo di memoria e di suggestione per l’assenza di vita.

Si ostinava a voler rivivere le ore che avevano preceduto e seguito l’orrore dei crolli.

La prima scossa aveva generato preoccupazione, ma alla fine si trattava semplicemente di trovare una soluzione temporanea per la notte. Probabilmente sarebbe finito tutto lì, senza gravi conseguenze.

Altrove le cose erano andate molto peggio, ma incaute e infondate sicurezze e pericolose speranze possono giocare brutti scherzi; a distanza di poche ore quell’illusione si sarebbe dissolta insieme a parte degli edifici

La seconda scosse uccise tutte le già magre certezze.

Si era precitata, così come si trovava, per la rampa di scale che la separava dalla strada. Il primo pensiero era stato di agguantare il telefono, la borsa all’ingresso con documenti, chiavi e raggiungere l’auto.

Calcinacci e polvere erano ovunque mentre sotto i piedi la terra tremava e lo fece per un tempo che sembrava interminabile dilatato dalla paura, gettando nel dubbio tra rimanere e lottare o scappare da un luogo che era diventato irriconoscibile e ostile.

Chiamare i genitori, suo fratello, parenti stretti ed amici, rassicurare, rassicurarsi.

In pochi attimi da una vita ad un'altra.

Nella proiezione della sua memoria la strada si ripopolava all’improvviso di amici, di vicini di casa, del vociare dei giovani studenti, del latrato dei cani, del rumore dei passi cadenzati, delle corse dei bambini.

Altrettanto all’improvviso calava la solitudine, il senso di abbandono.

Una forza impossibile da contrastare li aveva sospinti controvoglia sulla soglia di una porta; una volta varcata, quella porta si era chiusa con fragore e violenza alle loro spalle impedendogli di riattraversarla.

Nella vita alcune porte sono semplici varchi, è facile attraversarli, diaframmi sottili di carta traslucida che lasciano intravvedere quello che potrebbe aspettarci oltre; ritornare sui propri passi è facile, è pur sempre possibile; altre permettono un cammino a ritroso, ma a prezzo di dure sofferenze, altre ancora non permetteranno nemmeno di volgersi indietro.

Non sono necessari lutti perché una tragedia si compia appieno, è sufficiente venire espropriati della quotidianità di mura amiche, privati delle sicurezze più elementari.

Quando la terra una volta così familiare trema e tutte le certezze si incrinano come crepe nei muri e crollano disgregandosi insieme alle case, schiantandosi al suolo nel boato assordante e nella polvere che si alza minacciosa e penetra nel naso, negli occhi, annebbiando la vista che vaga in un buio innaturale alla ricerca di riferimenti che non ci sono più e di persone di cui senti solo le urla disperate senza riuscire a vederle, si prova l’amarezza di essere vittime designate di un piano perverso e crudele, un disegno preordinato volto a distruggere con sapiente regia ogni cosa, all’improvviso senza un avvertimento.

Al contrario è fatalità, incolpevole presenza lì e in quel momento preciso invece che essere altrove, ma altrove non potevi essere perché quello è il tuo posto, la tua vita da sempre, ma nulla è per sempre.

È il cambiamento repentino, compresso in un istante, che devasta nell’ impossibilità di opporsi agli eventi, di evitare la catastrofe, scatena dubbi e tutte le domande del mondo riaffiorano con prepotenza perché ci si sente illegittimamente defraudati, violentati nel proprio intimo, feriti profondamente negli affetti, traditi dai luoghi amici.

Poi il silenzio, i silenzi, mentre l’erba crescerà indifferente senza rumore e si radicherà sulle rovine in attesa che la vita di un tempo riprenda un nuovo corso.

Colpa di un Dio distratto? O peggio indifferente? Del destino o del caso?

Venire colpiti così duramente, quasi a tradimento, scatena paura, fa riaffiorare ansie nascoste e poi il risentimento, la rassegnazione, il desiderio di rivincita.

Alla fine, l’anima si accartoccia come un foglio usato e vince il silenzio.

Appoggiata ad un muro, si lasciò scivolare lentamente fino a sedere per terra.

Sganciò il sottogola per liberarsi del casco e si prese il volto tra le mani, chiuse gli occhi permettendo al buio di penetrarle dentro.

Non riusciva più ad addormentarsi con naturalezza da quella notte.

Rimaneva in lunga attesa di un sonno ristoratore che stentava a giungere e nemmeno la stanchezza accumulata era sufficiente a farla crollare.

Quando finalmente le palpebre si appesantivano e la coscienza si annebbiava, era sufficiente un leggero rumore, il rigirarsi tra le lenzuola per rivivere la sensazione della terra che si agitava con violenza.

Ogni notte la cosa si ripeteva.

Non voleva più essere felice, prima lo era stata. Non sarebbe stato possibile esserlo come lo era un tempo. La felicità si era cristallizzata come casa sua, rimasta nello stesso stato in cui l’aveva abbandonata di fretta, mentre si aprivano crepe nei muri lasciando intravvedere le pietre coperte dall’intonaco che si sgretolava.

Le bruciava dentro un vago senso di responsabilità, del tutto inconsistente, ma comunque le pesava sulla coscienza la cecità di segnali che avrebbe potuto cogliere lei come gli altri e che erano stati trascurati, ignorati.

Come ogni notte riprese la via del ritorno alle nuove case, con un senso di gratitudine e di speranza, miste ai timori di un futuro incerto,

Non poteva accettare nemmeno lontanamente l’idea che del posto dove era nata e vissuta se ne potesse parlare al passato, con parole definitive.

Camerino, come un cuore malato che ha rallentato i battiti pur di sopravvivere, pulsava ancora, ma le pietre hanno bisogno d’altro, di mani e di silenzio operoso…

Se un uomo è un uomo di Emanuele Rizzi

 

Se un uomo è un uomo

 

Era una pallida mattina d’inverno e si respirava il gelido olezzo prodotto dalle fabbriche industriali, ancora in dormiveglia, accanto alla stazione.

Quel giorno capitò che non riuscii a prendere il solito treno per andare al lavoro, ma non è che fosse un problema; agli operai del mio livello, addetti alla manutenzione delle pale eoliche fuori città, era stato ribadito più volte che “tanto prima o poi avrebbero smesso di girare”, motivo per cui non importava davvero che le tenessimo in funzione.

Ricordo che una volta un bullone era partito come una saetta, aveva rimbalzato qua e là per la cabina per poi schiantarsi sul viso del vecchio Richard. Tra le urla delle placche metalliche che si flettevano, in concerto con i gridolini dell’uomo, ebbi l’impressione che l’intera struttura si fosse inclinata di almeno dieci gradi. Neanche cinque minuti dopo, c’era già chi si calava con le funi per lucidare le paratie esterne, come se nulla fosse accaduto.

Ad ogni modo, quella mattina il freddo mi convinse senza troppe storie a nascondere le labbra infreddolite nella sciarpa di stoffa che avevo rimediato da una maglietta strappata.

Attesi il treno in piedi, congelato nella putrida sensazione di aver perso coscienza di me stesso. Che poi, cos’era la coscienza? Era da qualche anno, da quando la gente aveva smesso di rivolgersi parola o forse da quando la teorie scientifiche avevano perso valore, che sentivo il mio corpo sguazzare in una pozza di monotonia.

Lanciai una rapida occhiata all’orologio che penzolava dalla pensilina e, d’improvviso, l’ululato del treno riecheggiò tra i palazzi.

 

 Di tanto in tanto qualcuno prendeva posto nel vagone in cui mi ero accomodato, volti fugaci che avrei dimenticato pochi attimi dopo; una signora scheletrita, un collega operaio, una coppia di giovani agitati. La bocca della carrozza inghiottiva e rigurgitava corpi vuoti, come il sistema che aveva ormai preso il possesso del mondo. O, per lo meno, è ciò che avrei pensato se ne fossi stato consapevole.

Quando mancava poco più di un’ora all’arrivo, e io mi ero ormai perso nelle pubblicità dei cartelloni luminosi oltre il finestrino, un uomo dall’aspetto pittoresco mi si sedette di fronte.

Indossava una bombetta per cappello, un abito color cammello, e si accompagnava con un piccolo rotolo di pelo che lasciava zampate di fuliggine sul suo cammino. Subito ignorai la strana creatura e mi concentrai sui folti baffi spioventi dello sconosciuto, fronde di alberi che si lasciavano pettinare dai movimenti nervosi delle labbra.

Senza voler creare problemi allo strambo individuo – visto che portare animali sui mezzi pubblici era proibito – tornai a guardare fuori.

Trascorsero svariati minuti prima che, senza un’apparente ragione, mi rivolgesse la parola.

«Lei mi ricorda il protagonista di un libro che si intitolava “1984”, scritto da George Orwell. Lei conosce Orwell?».

Stranito dal fatto che mi avesse approcciato in maniera così diretta, scossi la testa.

«È vietato parlare di quei così lì, quelli con le pagine» replicai. «E anche parlare in generale». Lui sembrò non sentirmi nemmeno.

«Me lo ricorda perché cova le stesse idee rivoluzionarie ma ha troppa paura di urlarle al mondo».

«Io non ho idee rivoluzionarie» sussurrai frettolosamente.

«Non le ha… ancora. Vuole forse dirmi che, in inverno, un pesco non è un pesco solo perché non si vedono i frutti?».

«Così mi è stato insegnato. Un pesco senza frutta diventa un albero».

«Al diavolo, un pesco è un pesco». Spinse il tronco in avanti, come a volermi riferire un qualche segreto. «Ma un uomo non è sempre un uomo».

«Io sono un uomo!» urlai d’improvviso. Avevo agito d’impulso, alzandomi, mosso da una rabbia che non sapevo di covare. «Ho braccia, gambe, occhi, calcoli renali! Sono una persona!».

«Un uomo è un uomo» continuò lui, senza fretta «se ha una coscienza e il buon cuore di prendersi cura di tutto ciò che non è lui, se ha il coraggio di alzare la testa e ribellarsi alle ingiustizie».

Coscienza. Che cos’era la coscienza? E cosa voleva da me uno sconosciuto vestito in maniera così desueta, che seppur non fosse concesso mi rivolgeva la parola senza conoscermi, che si portava appresso quello che una volta probabilmente era un cane e che si metteva a straparlare di libri e altre sciocchezze?

Cercai di calmarmi. Mostrarsi agitati non era un buon biglietto da visita, soprattutto perché sui treni c’era sempre qualche Militante pronto a fucilarti solo perché per un attimo avevi perso il controllo. Sul tuo petto ci sarebbe stato un buco e sul suo l’ennesima medaglia per chissà quale merito.

Gli occhi dei curiosi che s’erano alzati negli altri vagoni, tornarono al loro posto.

«Il mondo è diventato un luogo strano» continuò l’uomo. A un tratto si era fatto serio. «A nessuno importa di niente, le città sono abbandonate a se stesse, le persone muoiono per strada e le altre cercano di non sporcarsi le scarpe mentre evitano i loro corpi. Non serve neanche più un governo, perché non c’è più niente da governare. Questo è il mondo in cui ci hanno abbandonato i nostri predecessori. A meno che non si faccia qualcosa di grave tipo, che ne so, portarsi un cane e un libro su un treno, non si viene neanche redarguiti».

Con una disinvoltura disarmante, frugò nel taschino della giacca e ne tirò fuori un rettangolino di pelle rovinato.

«Lei dev’essere impazzito» farfugliai, guardandomi intorno. «I Militanti potrebbero arrivare da un momento all’altro! Mi avranno senz’altro sentito gridare! Cosa diavolo lo sta facendo?».

«Le sto salvando la vita, ecco cosa sto facendo. A lei e a tutti quelli che non conosce». Accarezzò la copertina e, proprio mentre si decideva a sfogliarlo, sentii passi pesanti avvicinarsi dai vagoni adiacenti.

«In questo libro ci sono solo poche pagine, le macchie d’inchiostro di ciò che resta di un tempo passato, memorie che sono ora impresse nel futuro. Ho impiegato anni per scriverle, ma non riesco ad andare oltre alla settima pagina».

«Se glielo trovassero, la sbatterebbero in carcere o non so che altro». Dai miei occhi trasudava preoccupazione, forse persino terrore, e percepii il calore anomalo delle guance. Era ormai questione di minuti, prima che un esercito piombasse nella carrozza.

«Mi ammazzerebbero, altroché. Sei d’accordo, Freddy?».

Freddy – il cane – doveva essere d’accordo, perché scodinzolò animosamente.

«Mi creda, non le darei questo libro se non fossi certo che altrimenti finirebbe inghiottito dalle fiamme di qualche anonima fornace, giù nel quartiere industriale. Separarmene mi costa molto, ma l’ottava pagina so che non la vedrò mai. Sette io, sette lei, sette qualcun altro…».

Il rumore dei passi si fece più intenso; erano vicinissimi. Il volto dello sconosciuto era calmo e rilassato, gli occhi scintillavano come stelle.

«Vedrà, verrà un buon libro».

Appena prima che le porte si aprissero, sussurrò qualcosa all’animale, che afferrò il piccolo libro e si nascose sotto ai sedili. Fu davvero questione di millesimi di secondo che vidi quell’uomo, con cui avevo parlato per neanche mezz’ora, venire mestamente trascinato fuori dalla carrozza.

«Ah, prima che mi dimentichi» concluse, sorridendo «se un uomo è un uomo, la civiltà non morirà mai».

 

Il treno si fermò per una manciata di minuti. Il cane riemerse dalla fuliggine, tenendo il libro ben saldo tra i denti, e mi saltò in braccio. Ero troppo confuso per opporre resistenza. Poi, senza preavviso, il paesaggio fuori dal finestrino riprese a muoversi.

Un boato mi ridestò da un sonno profondissimo e una lacrima mi solcò la guancia. Chi ero io? Chi sarei stato, in un futuro non troppo lontano? Dopo di me, chi sarebbe venuto?

«Se un uomo è un uomo» sussurrai «scrive almeno sette pagine».

Avrei fissato il libro per ore, fino a quando il sole avrebbe lasciato il posto al crepuscolo, e quel giorno non sarei andato al lavoro.

Tanto, nessuno se ne sarebbe accorto.