mercoledì 29 luglio 2020

«Parole ed Immagini» esposizione: visite su prenotazione tutto agosto

L’esposizione della XXIX  edizione del Concorso «Parole ed Immagini» di Mellana di Boves, allestita nei locali della ex scuola elementare frazionale, è stata ancora aperta, dopo la premiazione di sabato sera 18 e le visite di domenica 19, domenica 26, con presenza di visitatori costante. Domenica pomeriggio 26 è stato momento, anche, di «premiazione» di Lelio Giraudo, bovesano vincitore della sezione simbolo del Concorso, quella di «Abbinamento Parole ed Immagini», assente la sera del 18.L’esposizione resterà ancora allestita nelle prossime settimane, per tutto agosto, e visitabile SOLO SU PRENOTAZIONE, telefonando al 340.3761714 (mail adriano.toselli@libero.it., http://festeggiamentimellana.blogspot.it/, https://www.facebook.com/comunediboves).

 Gli organizzatori riflettono: «Alla premiazione ci è venuta in mente frase del cantautore emiliano Vasco Rossi, “Sembrava la fine del mondo, ma siamo ancora qui...”... In passato citavamo altro cantautore, Roberto Vecchioni, napoletano milanese, “Il Vespro e non la Messa... A Messa si va anche senza fede, il Vespro è davvero per chi crede”... Gli hanno ci hanno insegnato che è meglio avere cinque visitatori interessati, “che ci vengono apposta”, che cinquanta distratti, capitatici “per caso”... Se riproporremo l’iniziativa l’anno prossimo sarà non prima dell’inizio estate... Sezioni certe saranno, in tal caso, quelle fotografiche di “Mascherine” e del “Colore bianco”...».

 

 


sabato 25 luglio 2020

Prosa segnalata 2020 Alessandra Forlani Bussana Vecchia


Bussana vecchia.
Alice si fermò un istante per asciugarsi la fronte. Il sole arrabbiato di Ferragosto la riscaldava tutta, provocandole rivoli di sudore che, colando dalla fronte, scendevano al collo e giù sulla pelle serica, nella curva fra i seni. Nonostante gli sforzi per renderla almeno color ambra, anche d’estate la sua pelle riluceva come pallida porcellana. Alice non era consapevole del proprio fascino e non si era mai guardata con gli occhi di un uomo, perlomeno non lo aveva più fatto da moltissimo tempo. A trentadue anni poteva ancora passare tranquillamente per una ragazzina, con i lunghi capelli ramati e gli occhi grigi dalle sfumature cangianti. Il fruscio della gonna nera guarnita di sangallo bianco le avvolgeva le lunghe gambe snelle, fino a sfiorarle le caviglie, accompagnandola ad ogni suo passo, ad ogni scalino, su verso la cima, nel silenzio quasi irreale di quella mattinata festiva. Il villaggio arroccato nell’entroterra ligure era ancora esattamente come lei lo ricordava, come lo aveva visto l’ultima volta, dieci anni prima. L’ultima volta che aveva visto Louis.
Le case diroccate, abbarbicate sulla roccia si stagliavano contro il blu del cielo, donandone un’immagine dolce e struggente al tempo stesso; la giovane donna ferma sull’ultimo scalino sembrava far parte di un dipinto. I capelli rossi, lunghi e ribelli, nonostante lei cercasse di domarli costringendoli in due grosse trecce, le incorniciavano gli occhi grigi con morbidi riccioli che sfuggivano dall’elastico variopinto. La camicetta bianca di seta indiana, scollata sul davanti, avrebbe inteso lasciar vedere parte del generoso decolleté se questo non fosse stato quasi del tutto celato da un monile di turchese a forma di stella, incastonato in una struttura di ferro brunito. Quella collana era stato l’ultimo dono di Louis ad Alice e lei non la toglieva mai, neppure quando il lavoro le imponeva di indossare la maschera della donna in carriera. La stella di Louis faceva parte di lei come le gambe o le braccia e mai se ne sarebbe separata. Alice stava stringendo il monile fra le dita, come faceva spesso quando le capitava di ripensare a lui e sentì che le lacrime, liberatorie, stavano arrivando. Una brezza leggera iniziò ad accarezzarla mentre il fruscio della veste, unito al tintinnio dei campanelli appesi alle porte delle case – gli acchiappasogni - creava una musica dolce e lenta. Quel suono accompagnava Alice nel suo cammino a ritroso nel tempo, dentro ad un sogno che si dipanava come una matassa di fronte ai suoi occhi, oltre l’orizzonte. Risentì la voce di Louis, calda e profonda, che le parlava sempre come se la stesse accarezzando. «Questo paese, è una fenice che risorge dalle proprie ceneri, fu raso al suolo da un catastrofico terremoto alla fine del 1800 ed abbandonato per molti anni. Il nuovo villaggio fu ricostruito più a valle, poi nei primi anni ‘60, un gruppo di artisti ribelli ed arrabbiati, riscoprì questo borgo, eleggendolo a quartier generale. Fecero tutto in autonomia: ristrutturando, imbiancando ed arrangiandosi come meglio potevano per portare acqua e luce. Ora ogni casa diroccata è la dimora di qualcuno di noi: chi dipinge, chi modella la creta, chi tesse e chi come me, crea monili e gioielli poveri, ma che arricchiscono la bellezza di chi li sa portare, come te. Qui ognuno di noi può essere se stesso, sentirsi libero, esprimere la propria essenza. In questo posto non esistono barriere politiche né religiose, sono i valori dell’amicizia e della fratellanza che sanciscono tacitamente un legame fra chi decide di vivere qui, che sia per sempre o per un’ora soltanto». Louis l’aveva condotta lì per mano, pochi mesi dopo l’inizio della loro relazione; si erano conosciuti ad un mercatino dell’usato, una sera d’Agosto ed in pochissimo tempo erano diventati quasi inseparabili. Louis, che l’aveva stregata come nessun uomo aveva mai fatto prima e nessuno sarebbe riuscito a fare dopo: alto, dinoccolato con un modo di fare l’amore che l’aveva lasciata sconvolta dalla felicità. Prima di lui aveva avuto altre storie ma nessuno, mai, aveva dimostrato tanta sensibilità nei suoi confronti, attento più a lei che a se stesso.
Con lui era stato subito desiderio, tanto intenso da farla stare male. Alice non si era vergognata di quella passione e l’aveva vissuta intensamente; quel giorno, dieci anni dopo la fine della loro storia, era tornata lì a cercare dentro di sé la conferma che lui se ne fosse davvero andato, non solo dall’Italia ma anche e soprattutto dal suo cuore. Il sole aveva lasciato il posto a grigie nuvole che promettevano un incombente temporale, il tempo in Liguria può cambiare repentinamente e così una magnifica giornata di sole si trasforma nel teatro in cui la natura mette in scena gli atti della sua commedia. L’ultimo atto, in genere è un acquazzone furioso che si esaurisce nel giro di qualche ora, lasciando in regalo un arcobaleno di rara beltà. I primi goccioloni cominciarono a cadere con un tonfo sordo iniziale che si trasformò subito in un ticchettio sui tetti di pietra e di lamiera; improvvisamente il paese che le era parso deserto, si animò di vita propria.
Gruppetti di persone cominciarono a correre fra i muri spaccati dalle ferite della terra ed a gridare frasi smozzicate in almeno cinque lingue diverse. “Chissà dove stavano nascoste prima tutte queste persone” pensò Alice, sentendosi strappare con violenza ai propri ricordi ed a Louis. Stava correndo anche lei, discendendo veloce la scalinata che aveva percorso poco prima in senso inverso, quando una mano, sbucata da una porticina di ferro, seminascosta da un porticato in pietra, l’afferrò saldamente e la trascinò all’interno. Nella stanza, il fumo denso di un fuoco che ardeva nel camino le invase le narici, ma un altro odore, tanto più forte quanto evocativo di un ricordo, la sconvolse.
Non fece in tempo a guardare in viso la persona cui dovevano appartenere quelle mani e quel profumo; un bacio urgente, violento, la travolse e si ritrovò stretta fra le braccia di Louis.
La sua barba, ancora più folta di quanto lei la ricordasse le solleticava le labbra in quel modo dolorosamente familiare. Improvvise le lacrime irruppero dentro a quell’istante e sulle labbra di entrambi giunse il sapore salato di un amore mai spento. Dopo, nel tepore del fuoco che rallegrava il laboratorio dove Louis lavorava alle sue creazioni, Alice - raggomitolata accanto all’uomo che ancora non riusciva a guardare senza chiedersi se fosse sogno o realtà - gli parlò: «Louis… sei qui! Sei sempre stato qui non è vero?» «Si». Il silenzio che seguì alla risposta di lui fu un istante dilatato mille volte nel tempo di un respiro, fino a quando lei riuscì a parlare di nuovo: «Ma perché? Non capisco. Io ero venuta qui a dirti che volevo te, solo te, che avrei lasciato la famiglia, l’Università, che avrei voluto vivere qui con te. Potevo farlo, potevo scrivere da qui. Tu lo sapevi vero? E’ per questo che, prima che io potessi metterti a parte dei miei progetti, mi hai preceduta con la tua mazzata. Mi hai detto che saresti partito e mi hai lasciata qui a piangere: sono dieci anni che piango lo sai Louis: dieci anni! Perché? Lo devo sapere ora».
«Perché ti amavo Alice e ti amo ancora, forse più di allora. Sono orgoglioso della donna che sei diventata e della vita che ti sei creata. Con me, Stella – così la chiamava nei momenti di intimità – non avresti avuto alcuna chance. Guardati oggi. Sei una giornalista importante, a soli trentadue anni, una donna splendida, che scrive in maniera acuta ed intelligente, che trasmette emozioni ai suoi lettori. Ti seguo sai? Da sempre. Sono il tuo più grande fan, lo sai questo vero Stella?».
Alice non rispose, stava guardando in quegli occhi, in quel pozzo profondo del colore degli alberi in autunno, quando cadono le ultime foglie. Stava sfiorando con le dita la piccola cicatrice sul viso di lui proprio sullo zigomo sinistro, appena visibile sotto all’occhio; era un gesto che aveva compiuto spesso, durante i mesi del loro amore. Le piaceva immensamente, prima di baciarlo, tenere il suo viso stretto fra le mani, passargli le dita fra i capelli, sulla fronte, sul naso, giocare con lui per vedere chi dei due reggesse più a lungo lo sguardo dell’altro. Era venuta a Bussana Vecchia per annegare le proprie lacrime nel mare che si stagliava all’orizzonte, lassù dall’altipiano dove sorgeva l’antica chiesa; pensava – perché gli aveva creduto in quella notte di Aprile di dieci anni prima – che lui fosse lontano, che vivesse ormai in America, magari guadagnandosi da vivere con le sue creazioni. Invece lui era lì, non si era mai allontanato da quel paese fantasma dove lei, al contrario, non aveva avuto il coraggio di tornare per paura di ritrovarsi da sola con i propri rimpianti. Quante volte aveva pensato che, se avesse insistito, forse lui avrebbe acconsentito a portarla con sé; aveva immaginato come sarebbe stata la propria vita al fianco di quell’uomo che amava con tutta se stessa e che – di questo era certa da sempre – l’adorava a sua volta. Nel corso degli anni aveva avuto altre piccole storie, ma il cuore non era mai entrato in gioco, quello lei lo aveva regalato a Louis ed ora, al suo posto, nell’incavo del suo petto, c’era soltanto il buio, un buco nero privo di sensazioni sensoriali. Le era capitato di desiderare di sentire il suo profumo, un misto di fragranze muschiate e tabacco da pipa, ma non era mai riuscita a ricrearlo nella propria mente. Adesso mentre lo guardava negli occhi, tutti i sensi accesi, in attesa, non le importava nemmeno di sapere se davvero lui l’amasse ancora. Lei lo voleva con tutta se stessa e glielo fece capire. Lo baciò con la passione sopita per tanto tempo, con un’audacia che da ragazza non aveva posseduto mentre gli sussurrava frasi scomposte, dai suoni disarticolati, in una lingua che entrambi avevano conosciuto bene in un’altra vita, dieci anni prima. Louis fece all’amore con lei con una delicatezza insolita, quasi timoroso di rovinare quella pelle di porcellana, giocherellando con i suoi capelli, che aveva sciolto dall’elastico e che ora ricadevano ribelli sul petto di Alice. Le aveva sempre detto che andava pazzo per la sua chioma rossa, sostenendo che non avrebbe dovuto imbrigliarla; come lei, i suoi capelli dovevano restare liberi, ribelli e selvaggi, affinché la sua vera natura potesse affiorare completamente. Louis avrebbe dato qualunque cosa pur di dividere la sua vita con Alice, ma era un uomo molto intelligente, dotato di una sensibilità particolare, dovuta probabilmente al suo talento artistico. Sapeva bene che la donna che amava non avrebbe mai ottenuto il riconoscimento del pubblico con i suoi scritti se si fosse ritirata a Bussana insieme a lui. Nel giro di un paio d’anni avrebbero avuto due o tre bambini ed Alice avrebbe tralasciato le sue ambizioni per dedicarsi a loro, finendo poi per odiare quella vita ed infine lui stesso. Quest’idea gli faceva male al solo pensiero. Ad occhi chiusi poteva immaginare due bimbette con le lentiggini e le trecce rosse giocare a settimana sull’acciottolato del paese, proprio fuori dal negozio di gelati gestito da Ingrid, la sua amica svedese. Il cioccolato avrebbe imbrattato i vestitini celesti delle bimbe, lasciando uno sbaffo sulle loro labbra. Le piccole, ilari, sarebbero allora corse in casa gridando: «Papà! Guarda, ci sono cresciuti i baffi… come te!».
Louis la strinse più forte nel suo abbraccio, lasciando aderire il suo corpo a quello di lei in maniera totale. Alice era lì, nonostante lui l’avesse scacciata dalla sua vita per regalarle il futuro che meritava e a cui sarebbe stata pronta a rinunciare per amore suo. Aveva letto tutto quanto era stato pubblicato - da e su di lei - e le critiche - a volte positive, altre meno - sulle sue opere. Quando aveva saputo che si trovava in Africa per un reportage sulla situazione delle donne affette dal virus dell’AIDS aveva temuto per l’ incolumità di lei. Ogni giorno si collegava attraverso Internet a tutte le fonti che avrebbero potuto fornirgli notizie e fotografie; ne aveva a centinaia: tutte immagini di Alice, alcune – le più belle – erano poste all’interno di cornici di ferro battuto che Louis aveva creato appositamente per esaltare la bellezza del soggetto. Lavorava e lei era là con lui, lo guardava di sottecchi e gli sorrideva. Alice non aveva mai saputo che, ogni scatto che la stampa le tributava ed ogni obbiettivo a cui lei sorrideva, erano in realtà un regalo che stava inviando a Louis, per farlo sentire un po’ meno solo. Anche lui aveva avuto tante storie durante quel decennio, alcune durature. Mary, una ragazza irlandese che dipingeva magnifici arazzi, aveva vissuto con lui per due anni ma infine se n’era andata perché non sopportava di avere accanto un uomo che, nel guardarla vedeva in realtà un’altra donna. In quel periodo aveva una mezza storia con Ingrid, la svedese che aveva in gestione la bio-gelateria; bella e statuaria, si era trasferita in paese l’estate precedente con la sorella la quale però aveva lasciato tutto dopo soli due mesi, accortasi che quella vita non faceva per lei. Louis ed Ingrid passavano parecchio tempo insieme, pranzavano sotto al pergolato davanti al laboratorio di lui e disputavano lunghe discussioni filosofiche, davanti al mare, sotto ad un cielo denso di stelle. Spesso quelle serate si concludevano a letto, ma entrambi erano consapevoli di come si trattasse soltanto di compagnia reciproca, non d’amore. Quando Louis aveva visto Alice salire la scalinata che conduce alla chiesa, si trovava appunto insieme ad Ingrid; stavano bevendo un bicchierino di sherry, chiacchierando delle opportunità per gli artisti di vendere qualcosa in quella giornata di Ferragosto. La mano che reggeva il bicchiere gli era rimasta sollevata a mezz’aria ed il suo viso aveva assunto un’espressione di stupore prima e di gioia intensa, subito dopo. Dalla luce che era comparsa nei suoi occhi, Ingrid capì immediatamente – anche se ne poteva scorgere soltanto la schiena ed i capelli – che quella donna era Alice. La donna dei sogni di Louis, quella che lo faceva sorridere nel sonno, mentre lei stava sveglia al suo fianco, desiderando d’essere amata così da qualcuno.
Come due naufraghi dopo la tempesta, una sola anima in due corpi distinti, si assopirono abbracciati, davanti al camino. Fu infine Alice ad aprire gli occhi e per un istante si chiese dove fosse finita. Sentiva intorno a sé l’odore acre di un fuoco spento e nelle ossa una sensazione di torpore piacevole, che saliva fino ai muscoli ed alle terminazioni nervose. Si voltò ed incontrò il viso di Louis, che l’abbracciava nel sonno e – di nuovo - credette di sognare. Lui stava ancora dormendo e l’espressione del volto contrastava con quella che di solito amava dare agli altri di se stesso; pareva un bambino riaddormentatosi dopo il primo pasto del mattino, avvolto e cullato dalla calda sicurezza dell’abbraccio materno. Alice si ravvivò i capelli, sistemò la gonna, che sembrava ormai uno straccetto spiegazzato, mentre lo sguardo vagava per la stanza ad ammirare gli innumerevoli lavori di lui, muti testimoni del fatto che il suo talento non si era spento ma era andato in crescendo negli anni. Con movimenti lenti e fluidi Alice si tolse il monile dal collo e posò con delicatezza la stella sul palmo aperto della mano di Louis, attenta a non svegliarlo. Prese un bigliettino, uno di quelli fatti con carta riciclata, che i clienti utilizzavano per accompagnare i regali che acquistavano nella Bottega del Capo e vi scrisse: “Tienimela tu, abbine cura come ho fatto io per tutto questo tempo, tornerò a riprendermela e quando lo farò, sarà per non ripartire più. A presto amore e grazie. Ho capito soltanto adesso quello che hai fatto per me, credendo di fare solo quel che era giusto. Non sono sicura che tu abbia avuto ragione sai? Ci hai derubati entrambi di un’infinità di attimi preziosi che non abbiamo vissuto, ma se io ora non andassi via per continuare quello che ho cominciato tutto questo sarebbe stato inutile non è così amore mio? L’ho capito, anche se fa male lasciarti, oggi più di allora. Vado ad incastrare le ultime tessere del mosaico della mia vita ed a farlo incorniciare. Poi tornerò qui, lo appenderemo sopra il muro del tuo camino e trascorreremo il resto delle nostre vite a contemplarlo. Avrò avuto il mio successo: TE”. Poche parole erano state pronunciate: i baci, la pelle, le mani e gli occhi si erano detti tutto, senza bisogno di aggiungere nulla. Era ora di tornare, un ricordo meraviglioso si era aggiunto all’agenda della sua vita. Alice sapeva che l’avrebbe portato dentro, come un prezioso cibo di cui ci si nutre per non morire, dentro al cuore, fino alla prossima volta in cui, come sempre e per sempre, la forza del loro amore sarebbe esplosa ancora e ancora, per ritrovarli uniti, tremanti e felici, insieme davanti ad un tramonto a strapiombo sul mare, nella magia dei suoni e dei colori di Bussana Vecchia.


Poesia LN 2020 segnalazione Vaira


N’àngel a l’avìa dime.


N’àngel a l’avìa dime ch’i dovìa esse contenta
Përchè ch’ i l’avrìa catà ʼn gran bel citin,
ma cò ch’i sarìa stàita na mare diferenta
con gròsse sodisfassion e ʼn pò tròpi sagrin,

che tante vòlte i l’avrìa dovù scapé via
con Ti e tò pare, col meno ʼmportant,
che, bon òm, a sarìa cariasse sta stran-a famija
tant a l’è ver che peui a l’avrìo fin-a falo sant.

A l’avìa dime ch’it sarìe mai barda-te da spos,
coma che tute le fomne a seugno për sò fieul,
ch’i  l’avrìa vardate rabasté la cros
e che për Ti l’avrìa portà ʼl deul.

Ma a Ti, che a tuti it l’has daje na man,
che a tuti it l’has faje dël bin,
ch’it l’has moltipicà ij pèss e ij pan
e trasformà l’eva ʼn vin,

a Ti che, an seguitand con costa lista,
ij sòp it l’has torna faje marcé,
che ai bòrgno it l’has daje la vista
e col mòrt ëd Betania it l’has butalo ʼn pè,

a Ti, un miràcol për mama at costava pròpi tant?
A sarìa bastate vorèj calé giù e vnime visin,
vnì via con mi ch’i j’era lì dacant,
a sarìa bastate bogé ʼl dil mamlin

për pasié ij nòstri torment,
për buté fin a col dolor,
ma Ti it podìè pa fè diferent…
eh nò, Tì mè fieul, it ses Nosgnor;

però mi adess, it lo sas ch’i son sincera,
se na fomna, për tant ch’a sia stàita grama,
për sò cit, am manda na preghiera
i la giuto volenté përché cò chila, prima ʼd tut, a l’é na mama.


Un angelo mi aveva detto

Un angelo mi aveva detto che dovevo essere contenta
perché avrei partorito un gran bel bambino,
ma anche che sarei stata una madre diversa
con grandi soddisfazioni e un po’ troppe preoccupazioni,

che tante volte sarei dovuta fuggire
con Te e tuo padre, quello meno importante,
che, pover uomo, si sarebbe sobbarcato questa strana famiglia
tant è vero che poi lo avrebbero perfino fatto santo.

Mi aveva detto che non ti saresti mai vestito da sposo
come tutte le donne sognano per il proprio figlio,
che ti avrei visto trascinare la croce
e che per Te avrei portato il lutto.

Ma a Te, che a tutti hai dato una mano,
che a tutti hai fatto del bene,
che hai moltiplicato i pesci e i pani
e trasformato l’acqua in vino,

a Te che , continuando con questa lista,
gli zoppi li hai fatti tornare a camminare,
che ai ciechi hai ridato la vista
e quel morto di Betania lo hai rimesso in piedi,

a Te, un miracolo per tua mamma costava proprio tanto?
Ti sarebbe bastato voler scendere e venirmi vicino,
venir via con me che ero lì accanto,
ti sarebbe bastato muovere il dito mignolo

per alleviare i nostri tormenti,
per porre fine a quel dolore,
ma Tu non potevi fare diversamente…
eh no, Tu mio figlio, sei Nostro Signore;

però io adesso, lo sai che sono sincera,
se una donna, per quanto sia stata cattiva,
per il suo piccolino, mi manda una preghiera
io l’aiuto volentieri perché anche lei, prima di tutto, è una mamma.


Satira secondo classificato Vaira


Sensa nòm.



Trantesinch ani a j’eront ij pat
question che apress a l’han canbiame l contrat
a-i na van dj’àutri doi … për rivé a tranteset,
ma a va bin, as soporto…a vorrà dì ch’ i-jё spet,

ma ’ntramentre ch’i slargo ʼl mant ëstradal
dòp vintetre mèis am riva ʼl pach ëd Natal.
Cambiand-me le regole, parèj ’d san-a pianta
a spero che  adess a-i na basto quaranta.

Tranquil però am diso, ch’at na gionto pì gnun,
e ʼn efet l’ann apress… a-i na van quarantun,
ch’a sarìo ’ncor pòchi, a fan cèrti coj,
e ’l ministro am na ’mplaca quaranta pì doi

an disend al TG ch’i ven-ma tròp vej
e s-ciopeisso ʼn pò ’d pì a sarìa fin-a mej
peuj,  për èssi sicur ëd ciapè tuti a rèis
minca tre sman-e  a la slonga d’ un mèis,

ma l’Italia a l’é fòrta e a peuss fé ’d sacrifissi
j’ovrié da la bòita  a van peuj ëd longh a l’ospissi

ch’a sarìa ’n cit oberge, ma  fé bin atension…                                                                  
e sercoma ʼd capisse
la paròla pension …                                                                                                    
manch pì lì as peul nen disse !


Sensa nòm.


Trentacinque anni erano nei patti
questione che dopo mi han cambiato il contratto
ce ne vogliono altri due ... per arrivare a trentasette,
ma va bene, si sopportano... vorrà dire che li aspetto,

ma mentre io stendo il manto stradale
dopo ventitre mesi mi arriva il pacco di Natale.
Cambiandomi le regole, così, di sana pianta
si spera che adesso ne bastino quaranta.

Tranquillo però, che non ne aggiungon nessuno
e in effetti l’anno dopo ... ce ne van quarantuno,
che sarebbero ancor pochi, sostengono quelli
e il ministro ne mette quaranta più due

dicendo al TG che diventiamo troppo vecchi
e schiattassimo di più sarebbe perfin meglio
poi, per essere certo di includere tutti quanti
ogni tre settimane  l’allunga di un mese,

ma l’Italia è forte e può far sacrifici
gli operai dalla ditta van poi subito all’ ospizio

che sarebbe un piccolo albergo, ma fate attenzione
e cerchiamo di capirci
la parola pensione ...
neanche più lì si può dire !  












Prosa seconda (LN) 2020 Vaira


Lorens e Rensino dla mùsica .
Vint o trant’ani fa’ o magara a peul esse ch’a fusso quaranta, i lo seu pì nen, ma tant a l’é pa important, ant un paisòt ëd montagna, pròpi ʼnt ël cheur ëd la Val Susa, a-i era na famija ʼd bërgé ch’a vivìa dël pòch che col mesté a podìa garantije, tutun ij sò component a l’avìo la fortun-a d’esse sèmper tuti alégher. Mai na sola vòlta che da cola ca a fussa sentisse ʼn braj o dël rabel ma pitòst tanti grign e dzortut tanta bela mùsica. Eh già tuti ij component ëd cola famija a j’ero bon a soné almeno në strument e chi ch’a sonava nen, coma la mama e la nòna, përché ch’a l’avìo sèmper le man ampegnà ʼnt ij travaj ëd cusin-a, a compagnava j’àutri ʼn cantand con na vos motobin anciarmanta. Squasi tuti j’abitant ëd cola cita borgà prima o apress a j’ero pijasse ʼl piasì ëd passé dnans a la ca dij “Tòmatis”, col-lì a l’era ël cognòm ëd cola gent bele che tuti a-j ciameisso con lë stranòm ëd “coj ëd la mùsica”, për fërmesse a scoté na canson o quàich bela sonada. Në stranòm pì giust che col-lì a podìo nen trovej-lo: nono Censin a contava che già ij sò vej a sonavo, chi la fisa, chi ël clarin o bele mach la tòla dl’euli coma s’a fussa stàita ʼn tamborn e la passion për la mùsica a l’era sèmper tramandasse da pare ʼn fieul bele che, belavans, gnun a fussa mai andàit a scòla për amprende a lesla da bin. Ij Tòmatis a j’ero, coma ch’as dis: sonador a orija, gent con le nòte ʼnt ël sangh e va a savèj lòn ch’a sarìo podù dventé magara ʼn frequentand ël conservatòri. Col-lì a l’era l’ùnich ringret ëd “Gino dla mùsica”: nen avèj ij sòld për mandé ël fieul Lorens ant na vera scòla ʼnté che ij magìster a fusso bon a valorisé al màssim le capacità dël giovo. Lorens già a dodes ani a l’era bon a soné pì bin che tuti ij sò famijar; da qualsëssìa strument ch’a-j pasèissa për le man chiel a riessìa a fé seurte na bela melodìa che però, an fasend tut a stim, a sarìa mai pì stàit bon a arpete. Na dumìnica matin, un-a dle tante dumìniche tute istesse, la famija Tòmatis al complet a l’era ʼndàita a mëssa granda nopà che a cola ëd ses e mesa, përché col di a-i era la trigèsima ʼd n’avzin ëd ca e Lorens a l’avìa promëttuje ch’a l’avrìa sonaje chiel ël violin quand ch’a fussa stàita soa ora che, për maleur, a l’era rivà tròp an pressa. Fin-a don Egidio, ch’a conossìa bin col fiolin, a l’era stàit ambajà da le nòte ʼd sò “requiem” e donca a l’era sentisse ʼn dover ëd  presenteje monsù Ceruti, magìster ant la scòla ëd mùsica a Turin. Lë strument ch’a sonava Rensino, coma ch’a lo ciamava soa mare, a l’era pòch pì che ʼn tòch ëd bòsch, ma con tut lòn ant soe man a smijava un ëd coj violin da vàire milion ëd lire; chi sà lòn ch’a sarìa stàit bon a fé con ij mej atrass dël mesté? Pròpi cola a l’era stàita la domanda che ël magìster Ceruti a l’era fasse dòp d’avèj sentì la mùsica dël giovo parochian ëd don Egidio. La decision d’andé a ca dij Tòmatis a l’era stàita direta: se ij sò a l’avèisso përmëttuj-lo, monsù Ceruti a sarìa portasse col fieul a Turin e a l’avrìa pagaje jë studi ʼd soa sacòcia, sèmper che Rensino a fussa dispòst a ʼntrapijé la difìcila cariera dël musicista.
«Tanti a l’han ël don ëd soné bin a orija, ma pòchi a riesso a dventé famos e apress ëd tanta fatiga as treuvo a fé un mesté diferent da col ch’a sognavo. Mi i son la preuva ʼd lòn ch’iv diso».
Cole paròle pronunsià dal Ceruti a smijavo pì na mnassa che n’avis, ma la mama ʼd Rensino a l’era tanto sicura dl’abilità ʼd sò fieul, chila ʼncor pì che ʼl pare, da convinci la masnà a aceté cola propòsta, un colp ëd fortun-a ch’a l’avrìa poduje deurbe le pòrte ʼd na cariera strepitosa da costruì pòch për vòlta, belavans, lontan da l’amor e da l’armonìa ʼd cola ca.
Armonìa a l’era pròpi la paròla che da col di a sarìa passà mila vòlte ʼnt la ment ëd Lorens Tòmatis. Ij professor dël conserva-tòri a l’avìo sùbit capì che col fieulin a l’era ʼn fenòmeno, tant ant ël soné che ʼnt ël compon-e, ma fé ʼmprende al pì cit dij Tòmatis le regole dla mùsica, cola seria, da euvre lìriche për capisse, a l’era stàita n’imprèisa nen da pòch da già che soa veuja ʼd dësdesse, d’anventé ʼn sël moment dij motiv tuti sò, a l’era sèmper lì a l’avàit, pronta a dé fòra e felo scapé da le precise righe dël pentagrama. Pian pianin però Rensino dla mùsica, mersì ai primi risultà angagiant, a le prime bon-e riussìe, a l’era dobiasse a le régole ʼd fer dël conservatòri e a vinteut ani ʼd col rascon ch’a corìa për le rochere con ij sabò ant ij pé sonand ël violin për le fèje, a-i era pì nen restaje gnente; a sò pòst “Lorenzo Tomatis” gran composidor a ʼncaminava a fesse conòsse fòra dij confin nassionaj, prima ʼn Fransa, peui an Almagna, Àustria e fin-a dëdlà dl’océan, an América. La famija ëd “coj ëd la mùsica” a l’era pien-a d’orgheuj e con l’agiut ëd col fieul, giumai famos, a l’era trasferisse ʼnt na bela cassinòta ʼn pianura ʼnté che minca tant quàich giornalista a anadsìa a troveje për fesse conté da la mama la stòria ëd col “requiem” ch’a l’avìa fàit ancaminé ij boneur dij Tòmatis.
Lorens, con ël passé dj’ani a l’era dventà sèmper pì arnomà, ma cola fama nopà che deje ʼd sodisfassion a smijava squasi ch’a-j peisèissa coma na pera da mulin. Soa mùsica a l’era përfeta, ma sò sguard a l’era përdù ʼnt ël veuid coma se soné a fussa mach pì un travaj. Fin-a ʼl pùblich as na rendìa cont confondend però la tristëssa dël magìster con la bòria tant da stranòmielo “ël sofìstich”. Për boneur ant col ambient esse simpàtich o nen ess-lo a fà tut istess, lòn ch’a conta a l’è la bravura dël musicista e Lorens a l’era un dij mej al mond. Ij sò consert a lo portavo daspërtut, ma squasi mai ʼnt ël leu che chiel a l’avìa pì car: nòstr Piemont, peui ʼn bel di na litra a l’avìa ʼnvitalo a partessipé coma òspite d’onor al consert ëd mesost pròpi ʼnt soe bele montagne dla Val ëd Susa. Lorens a l’avìa  acetà lʼanvit sensa penseje doe vòlte e a l’era sùbit partì con l’areoplan. Ant la stra da l’areopòrt ëd Casele a sò vej pais, vàire arcòrd a j’ero tornaje ʼnt la ment: Don Egidio, j’amis dj’elemetar, fin-a ij nòm ëd le fèje ch’a portava ʼn pastura da cit e dzortut na melodìa, cola ch’a sonava për soa mama quand che chila a l’era ʼd cativ imor. La vitura fità a Turin a l’era fërmasse ai pé dël senté ch’a portava a la ca ʼd “coj ëd la mùsica” e donca Lorens a l’era ancaminasse ʼd bon pass con la goj ëd torna vëdde ij pòst ëd soa infansia e ʼl sagrin ëd nen fé basta lest për artorné për sin-a. An lontanansa, forsi per la sugestion d’esse ambelelì, a-jë smijava ëd sente na mùsica ma a l’era convint dë sbaliesse da già che cola cita borgà a l’era stàita bandonà da tanti ani. Cola mùsica, nopà, a minca pass as fasìa sèmper pì fòrta fin-a a quand che, pròpi dnans a la bàita dij “Tòmatis” Lorens a l’avìa arconossù la canson ch’a piasìa tant a soa mare.
« Chi ch’a-i è ? » a l’avìa crijà
« Ehi musicant fate vëdde, coma fas-to a conòsse col motiv ?»
Ant col moment un fiolin con la caviera bionda, le braje curte e ij sòcu ant ij pé, a l’era surtì da dré da la bàita con un vej violin an man e a l’avìa risponduje:
« I son mi ch’i son-o »
« Ma col violin i lo conòsso, a l’é ʼl mè ʼd quand ch’i j’era gagno e ti, ti it jë smije tanto a… »
« Nò a l’è pa ch’i smija a Rensino dla mùsica… i son pròpi chiel»
Lorens a capìa pì gnente e ʼn bërbotand a seguitava a dì:
« A l’é nen possìbil, mi i son Rensino dla mùsica, ma i son andàit via tanti ani fa’. Ti it ses precis a mi quand’ ch’i j’era cit, it ses mè sòsia ».
« Nò mè car, a l’é fàcil chërde d’avèj un dobi, na rassa ʼd binel, ma mi i son pa lòn-lì »
« E chi ses-to alora ? »
« I son Ti… Rensino dla mùsica o mej, i son lòn che ʼd ti a l’ha mai lassà costi pòst, la part pì importanta, cola ch’it ses nen portate apress përché ch’a l’é pa lassasse dësreisé da sì ».
« L’anima? »
« It peule ciameme coma ch’at ësmija, i son lòn ch’at mancava ʼnt tuti costi ani passà lontan da toe montagne; noi i soma doi ma ʼdcò un sol ch’a peuss torna sentisse complet, a basta mach capì lòn ch’it veule fé».
N’atim ëd riflession peui, con un gest decis, Lorens a l’avìa pijà da ʼnt la borsa jë spartì dël consert ëd l’indoman e l’avìa s-ciancaje ʼnt tanti tòch lassand che ʼl vent a-jë spatarèissa an cel e an col moment vardand ël fiolin, ch’a smijava svanì ʼnt j’ombre dla sèira, a l’avìa dije:
« Am piasirìa ambrassete ma a l’é impossìbil nen vèra? »
e l’àutr con un fil ëd vos: « A fà pa bzògn d’ambrasesse da sol, adess da doi i soma torna un… un musicant che doman a dovrà fé conòsse al mond anter la canson pì bela, cola ch’a sonava për soa mama».
Ëd corsa, col ël cheur gonfi ʼd contentëssa, l’òm a l’era artornà a val për fesse consigné ij manifest dël consert e cambieje, a man, ël nòm dlʼòspite d’onor: pì nen “Lorenzo Tomatis” ma finalment, torna…
“Rensino dla mùsica”.










Lorenzo e Renzino della musica .
Venti o trent’anni fa o magari può darsi che fossero quaranta non lo sò più, ma tanto non è importante, in un paesino della Val Susa, c’era una famiglia di pastori che viveva del poco che quel lavoro poteva garnatirle, tuttavia i suoi componenti avevano la fortuna di essere sempre tutti allegri. Mai una sola volta che da quella casa si fosse sentito un grido od uno strepito, ma piuttosto tante risate e soprattutto una gran bella musica. Eh già, tutti i componenti di quella famiglia erano in grado di suonare almeno uno strumento e chi non suonava, come la mamma e la nonna, che avevano sempre le mani impegnate nei lavori di cucina, accompagnava gli altri cantando con voce suadente. Quasi tutti gli abitanti di quella piccola borgata prima o poi si erano deliziati passando davanti alla casa dei “Tomatis”, quello era il loro cognome nonostante tutti li chiamassero semplicemente “quelli della musica”, per fermarsi ad ascoltare una canzone o qualche bella suonata. Un soprannome più indicato non avrebbero potuto trovarglielo: nonno Vincenzo raccontava che già i suoi avi suonavano, chi la fisarmonica, chi il clarinetto od anche solo la latta dell’ olio a mò di tamburo e la passione per la musica si era sempre tramandata da padre in figlio, nonostante nessuno fosse mai andato a scuola per imparare a leggerla correttamente. I Tomatis erano una famiglia di suonatori ad orecchio, gente con le note nel sangue e chissà cosa sarebbero potuti diventare magari frequentando il conservatorio.  Quello era il solo rimpianto di “Gino della musica”: non avere i denari per mandare il figlio Lorenzo in una vera scuola ove i maestri fossero in grado di valorizzare al massimo le doti del ragazzo. Lorenzo già a dodici anni era in grado di suonare meglio di tutti i suoi familiari; da qualunque strumento gli passasse tra le mani lui riusciva a far uscire una bella melodia che però, inventandola al momento, non sarebbe mai più riuscito a riprodurre. Una domenica mattina, una delle tante domeniche tutte uguali, i Tomatis si erano recati alla  messa più importante, anziché a quella abituale delle sei e mezza, perché quel giorno si celebrava la trigesima di un loro vicino di casa al quale Lorenzo aveva promesso che sarebbe stato lui a suonare il violino quando fosse arrivata la sua ultima ora che, sfortunatamente era giunta davvero troppo presto. Perfino Don Egidio, che conosceva bene quel ragazzo, era rimasto affascinato dalle note del suo “Requiem” sentendosi in dovere perciò di presentargli il signor Cerutti, maestro in una scuola di musica a Torino. Lo strumento suonato da Renzino, come lo chiamava la sua mamma, era poco più di un pezzo di legno, ma ciò nonostante nelle sue mani pareva uno di quei violini da svariati milioni di lire: chissà cosa sarebbe stato in grado di fare con i migliori attrezzi del mestiere?  Proprio quella era stata la domanda che il maestro Cerutti si era posto, dopo aver ascoltato la musica del giovane parrocchiano di Don Egidio. La decisione di andare alla casa dei Tomatis era stata immediata: se i genitori glielo avessero permesso, il signor Cerutti si sarebbe portato quel ragazzo a Torino e gli avrebbe pagato gli studi di tasca sua, sempre che Renzino fosse disposto ad intraprendere la difficile carriera del musicista.
« Molti hanno il dono di suonare bene ad orecchio, ma pochi riescono a diventare famosi e dopo aver fatto tanta fatica si trovano a dover fare un mestiere diverso da quello che sognavano. Io sono la prova di ciò che vi dico ».
Quelle parole pronunciate dal Cerutti parevano più una minaccia che un avvertimento, ma la mamma di Renzino era tanto sicura dell’ abilità di suo figlio, lei ancor più del padre, da convincere il piccolo ad accettare quella proposta, un colpo di fortuna che gli avrebbe potuto aprire le porte di una carriera strepitosa da costruire poco per volta, purtroppo, lontano dall’ amore e dalla armonia di quella casa. Armonia era proprio la parola che da quel giorno sarebbe passata mille volte nella mente di Lorenzo Tomatis. I professori del conservatorio avevano subito capito che quel ragazzino era un fenomeno, tanto nel suonare quanto nel comporre, ma fare apprendere al più piccolo dei Tomatis le regole della musica, quella seria, da opere liriche per capirci, era stata un’ impresa non da poco visto che la sua voglia di rilassarsi, di inventare sul momento dei motivio tutti suoi, era sempre in agguato, pronta a venir fuori e farlo deviare dalle precise righe del pentagramma. Pian pianino, però Renzino della musica, grazie ai primi incoraggianti risultati, si era piegato alle ferree regole del conservatorio e a ventotto anni di quel bambino che correva per le pietraie con gli zoccoli ai piedi suonando il violino alle pecore, non era rimasto nulla; al suo posto “Lorenzo Tomatis” gran compositore iniziava a farsi conoscere fuori dai confini nazionali, prima in Francia, poi in Germania, Austria e perfino oltre oceano, in America. La famiglia di “quelli della musica” era piena di orgoglio e con l’aiuto di quel figlio, ormai famoso, si era trasferita in una bella cascina in pianura dove ogni tanto qualche giornalista andava a farsi raccontare dalla mamma la storia di quel “Requiem” che aveva dato origine alla fortuna dei Tomatis.
Lorenzo, col passare degli anni era diventato sempre più rinomato, ma quella fama anziché dargli soddisfazioni gli pesava come un macigno. La sua musica era perfetta, ma il suo sguardo era perso nel vuoto come se suonare fosse solo più un lavoro. Anche il pubblico se ne rendeva conto confondendo però la tristezza del maestro con la boria tanto da soprannominarlo “il presuntuoso”. Per fortuna in quell’ ambiente essere simpatici o non esserlo è la stessa cosa, ciò che conta  è la bravura del musicista e Lorenzo era uno dei migliori al mondo. I suoi concerti lo portavano ovunque, ma quasi mai nel luogo che lui amava di più: il nostro bel Piemonte, poi un giorno ricevette una lettera che lo invitava a prendere parte come ospite d’onore al concerto di ferragosto, proprio sulle sue belle montagne della Val di Susa. Lorenzo aveva accettato l’invito senza pensarci due volte ed era subito partito con l’aereo. Nella strada tra l’aereoporto di Caselle ed il suo vecchio paese, quanti ricordi gli erano tornati alla mente: Don Egidio, gli amici delle elementari, perfino i nomi delle pecore che portava al pascolo e soprattutto una melodia, quella che suonava per sua madre quando lei era di cattivo umore. La vettura noleggiata a Torino si era arrestata ai piedi del sentiero che portava alla vecchia casa di “quelli della musica” e quindi Lorenzo si era incamminato di buon passo con il desiderio di vedere nuovamente i luoghi della sua infanzia e la preoccupazione di tardare per la cena.  In lontananza, forse per la suggestione di trovarsi lì, gli pareva di sentire una musica, ma era convinto di sbagliarsi poiché quella borgata era stata abbandonata da anni. Qualla musica, invece, ad ogni passo si faceva sempre più forte fino a quando, proprio di fronte all’ abitazione dei “Tomatis” lorenzo riconobbe la canzone che tanto piaceva a sua madre.
« Chi c’è? » aveva gridato
« Ehi musicista fatti vedere, come fai a conoscere quel motivo? »
In quel momento un ragazzino con i capelli biondi, i pantaloni corti e gli zoccoli ai piedi, era uscito da dietro alla baita con un vecchio violino in mano e gli aveva risposto:
« Sono io che suono »
« Ma quel violino io lo conosco, è il mio di quando ero piccolo e tu, tu assomigli tanto a… »
« No, non è vero che assomiglio a Renzino della musica… sono lui »
« Non è possibile, io sono Renzino della musica, ma sono andato via tanto tempo fa. Tu sei uguale a me quando ero piccolo, sei il mio sosia ».
« No mio caro, è facile credere di avere un doppione, una razza di gemello, ma io non sono quello’individuo ».
« E chi sei allora? »
« Sono Te… Renzino della musica, o meglio, sono ciò che di te non ha mai lasciato questi posti, la parte più importante, quella che non ti sei portato dietro perché non si è lasciata sradicare da qui ».
« L’anima? »
« Puoi chiamarmi come credi, sono ciò che ti mancava in tutti questi anni passati lontano dalle tue montagne; noi siamo due ma anche uno solo che può nuovamente sentirsi completo, basta solo capire cosa vuoi fare ».
Un attimo di riflessione poi, con un gesto deciso, Lorenzo aveva preso la borsa con gli spartiti del concerto dell’indomani e li aveva strappati in tanti pezzi lasciandoli trasportare in cielo dal vento ed in quello stesso momento, guardando il ragazzino che pareva svanire nelle ombre della sera gli aveva detto:
« Mi piacerebbe abbracciarti, ma non è possibile vero ?»
e l’altro con un filo di voce: « Non occorre abbracciarsi da soli, ora da due siamo nuovamente uno… un musicante che domani dovrà fare conoscere al mondo intero la canzone più bella, quella che suonava per la sua mamma ».
Di corsa  con il cuore gonfio di gioia, l’uomo era tornato a valle per farsi consegnare i manifesti del concerto e cambiare, a mano, il nome dell’ ospite d’onore: non più “Lorenzo Tomatis” ma finalmente
di nuovo…
“ Renzino della musica” 

Prosa premiata 2020 (LN) Vaira


Scarpon bleu.

Vintesinch ëd Novèmber dël 2019. Ancheuj a l’é la giornà che ʼn bon-a part dël mond as fan ëd manifestassion contra chi ch’a maltrata e patela le fomne; nò speté na minuta, i son nen ëspiegame bin: contra j’om ch’a fan ëd violensa a le fomne, përché a më smija ʼd capì che s’a fusso quàich madame, madamin o magara  dle tòte a carchess-je ʼn tra ʼd lor, lòn-lì a farìa nen ësgiaj a gnun. Mi i son ël prim a condané costi comportament përché patlé na fomna a l’é na ròba pròpi da viliach e bele che ʼnt mia vita i sia trovame vàire vòlte ʼnt situassion anté ch’i l’avrìa avù tant pì car avèj da discute con n’òm, magara fin-a për desse doe scopass e peui rangé sùbit la question a la mòda dij mas-cc, dnans a ʼn cichèt, i son mai solament përmëttume d’aussé la vos con na fumela. Mai na vòlta manch ant tuti coj ani ch’i l’heu travajà ʼnt n’asienda ʼndoa ch’a-i ero tranteut fomne e mach mi sol òm. Quajdun a rijerà da sota ai barbis ma i peuss assicureve ch’a-i era pròpi gnente da sté alégher, feve cont che l’adressa a l’era an via 8 ëd mars, pròpi coma ʼl di dla festa dle fomne e che mie coleghe a j’ero tute feministe sfegatà. Mach a caté le mimose për tute i l’heu arzigà d’andé a rabel vàire vòlte e dòp ëd des ani passà ʼn mes a cole farinele, che ʼn sël travaj a l’han famne peui pròpi ʼd tuti ij color, a l’é già tant s’i son ëstàit bon a nen cambié sponda sercand-me ʼn moros con ël barbaròt. Comsëssìa giornà come coste a son motobin ʼmportante, quand ch’i sentoma a dì chʼa l’é capitaje quaicòs ëd brut a na fomna ʼl prim pensé a l’é che la midema ròba a podrìa capiteje a na nostra seur, a na fija o përché nò fin-a a na mama e alora ʼl sentiment a sarìa col ëd calé ʼn piassa con un lignòt e fé giustissia da nojàutri, ma a servirìa a gnente d’àutr se nen a fene arzighé la galera. L’ùnica ròba giusta da fé a l’è cola ʼd sensibilisé tuti an manera che cost problema da doman a ven-a nen butà ʼnt ël canton ëd la dësmentia e, për giuté la memòria, ij promotor ëd costa giornà a l’han decidù ʼd pijé a model l’ideja ʼd n’artista messican-a “Elina Chauvet” ch’a l’ha ʼnventà costa forma ʼd protesta: buté fòra ʼd ca dle scarpe da fomna piturà ëd ross. Minca pàira dë scarpe a veul significhé na fomna maltratà e ʼl ross a deuv arcordé ʼl color dël sangh ëd cole pòvre dòne.
Fin-a sì i soma tuti d’acòrdi e ògnidun a podrìa conté na stòria bruta ch’a l’ha lesù ʼn sël giornal o sentì magara a la radio, sèmper naturalment a rësguard ëd violense o bele mach ëd maltratament patì da dle fomne për man dij sò òm o moros. Lòn che bin pòche përsone a sarìo ʼn gré ʼd conté a son tute cole vicende ʼnté che a seufre a son nen le fomne ma l’àutra metà dël cel, cola che tuti as penso ch’a sià la part pì fòrta dla cobia. Eh già… pròpi parèj, a smija nen possìbil ma sossì a capita motobin pì da soens ëd vàire ch’i soma dispòst a chërde, però gnun a lo dis, magara përchè ch’a l’han onta ʼd felo savèj, pròpi coma che na volta a capitava për le fomne. J’òm a l’han tut da amprende da le fomne che, për mè cont, a son lor cole fòrte, nen noi; pì fòrte e ʼdcò pì svice tant a l’é ver che ch’i ch’as buta a rusé “legalment” con na fomna a l’ha bin bin pòche speranse ʼd vagné contut ch’a peussa avèj tute le rason dël mond. Un moment fa’ i l’heu mansionà la data dl’eut ëd mars, ël di dla mimosa, ebin i son squasi sicur che gnun a sà che da pì o meno vint ani a-i é ʼdcò la giornà dj’òm ch’a dròca al disneuv ëd novèmber. A l’è na festa pòch sentìa, fàita squasi sicurament për fejë ʼl vers a cola dle fomne; nopà as treuva nen un di ch’a sià ʼl corispondent mascolin dël 25 ëd novèmber. Vardand an sla ragnà as treuva la giornà contra la violensa a le masnà, cola contra i maltratament a j’ansian e fin-a contra j’animaj, ma dj’òm a smija ch’a-j na fasa gnente a gnun. Forsi sossì a l’é për via che j’òm a ʼncalo nen a buté ʼn piassa soe tribulassion e comsëssìa a l’han ancora talment rispet për le compagne che pitòst ëd feje fé quàich bruta figura dnans a tuti a l’han pì car sté ciuto e buté giù brusch, magara për na vita ʼntera. J’ani dle lòte feministe ch’a rivendicavo parità ëd dirit a son nen tant distant, ma adess a sarìa squasi ʼl cas ëd torna calé ʼn piassa për buté na frisa d’ordin an favor ʼd coj bonomass che mach për ël fàit d’esse nassù mas-cc a smija ch’a sio ij responsabij ëd tut lòn ch’a capita. J’òm ch’a patisso di tòrt da le morose o pes ancora da le fomne ch’a l’han marià, bin da soens as compòrto coma coj ansian vitime dj’ambreuj, as vërgògno lor al pòst ëd chi ch’a fàit col gest da viliach.
Tre o quatr ani fa’ parland con dij colega, tuti mal marià, i son ëvnù a conossensa ʼd soe malaventure e i l’heu pròpi avù la conferma che ʼl proverbi: “guai a chi ch’as ʼncaprissia ʼd rende giusta la giustissia” a l’é nen mach na manera ʼd dì.  Tuti a l’avìo avù dij problema, ma la stòria ch’a l’ha fame pì sgiaj a l’é stàita cola ʼd Rico, un fieul, ansi n’òm ëd quarantequatr ani che, prima d’esse trasferì ʼd repart, a l’era stàit mè avzin d’ufissi pròpi ʼnt ël period pì brut ëd soa vita.  Rico, ël nòm i l’heu baratajlo ʼn manera che gnun a peussa arconòss-lo da già che tut sò calvari a l’ha contamlo ʼn pòch da genà, a l’era, o mej a l’é ancora, na përson-a dle pì brave ch’a-i sio ʼn sla facia dla tèra. Mi e chiel i soma intrà ʼnt nòstra asienda squasi ʼnt l’istess moment pì ʼd vinteut ani fa’ e da col di nostre cariere a l’han marcià paralele: prima ovrié, peui técnich dël repart colaudeur e a la fin responsabij ëd le vendite. N’ufissi con doe scrivanìe e doe cadreghe a l’era dventà nòstra sconda ca e ambelelì i passavo bon-a part ëd nòstra vita squasi sensa parlesse ʼn tra ʼd noi se nen për question ëd travaj. Mi i lʼavìa la prima metà dla stansia, sùbit tacà a l’uss, e chiel cola pì distanta, con la cadrega pogià a la muraja e la scrivanìa ʼn facia a la pòrta. Adess, dòp d’esse stàit anformà ʼd cola ch’a l’era soa situassion famijar, im rend cont dël përchè ant j’ùltim temp la madamin ëd le polissie a bërbotèissa sèmper ëd nen podèj ramassé da bin sota a la scrivanìa ëd Rico; a disìa che col monsù a smijava ch’a fussa portasse mesa vardaròba pròpi là sota. An efet col bonomass a l’era ʼnt ël moment forsi pì brut ëd la vita: Lena, soa fomna, a l’era ʼncaplinasse ʼd n’àutr òm e donca chiel, pòch për vòlta,  a l’era slontanasse da ca. Coma ch’a fussa possìbil na facenda përparèj Rico a podìa nen ëspieghess-lo; a l’é vera che j’anteressà a son sèmper j’ùltim a savèj coste ròbe, ma Lena a l’era mai stàita na fomna coma ch’ an piaso a nojàutri mascc… “càuda”, për capisse sensa ʼndé ʼnt ël volgar, donca ch’a podèissa avèj na relassion con n’àutr òm dòp ch’a j’ero ani e ani ch’as avzinava pì nen al sò, a smijava na bestialità da nen chërde.  Për maleur tut lòn che ij colega, an grignand, a l’avìo dije vàire vòlte visadì che: chi ch’a mangia nen ant ëcà a veul nen dì ch’a meuira ʼd fam, a l’era dventà realtà.  Lena a l’avìa sèmper considerà sò òm un grand travajeur, ma bon a gnente d’àutr; chila a l’avrìa vorsù avèj dacant në scritor, un poeta, na përson-a ch’a la portèissa a teatro o magara a fé dle gite ʼn montagna e Rico nopà a l’era mach sèmper con la testa ʼnt l’ufissi opurament ampegnà a fé ʼd manutension a cola ca che ij doi a l’avìo catà con ij sò miser profit. Për fela curta, sensa vorèj deje la colpa a un o a l’àutra, cola cobia a l’era dësblasse contut che gnun dj’amis o dij parent a fussa ancorzuss-ne. Rico a l’era ʼndàit via da ca ma a l’avìa seguità a buté ij sòld an sël cont an banca da ʼndoa che tant chiel che la fomna, chila pì che tut, a pijavo për fé la spèisa e për jë bzògn ëd cola che sèmper meno a smijava a na famija. Ij doi fieuj, giumaj grand, ch’a studiavo ʼn sità, a stasìo via dij mèis anter e la ca donca a l’era restà tuta a disposission ëd cola dòna che përparèj a l’avìa carta bianca për ancontré, pròpi ambelelì, sò neuv spasimant.
E Rico? Rico a l’avìa fin-a onta ʼd dì lòn ch’a l’era capitaje e arlongh a la giornà a vivìa coma sèmper: ant l’ ufissi fin-a a sèira tard, peui però quand’ ch’a rivava l’ora ʼd sin-a nopà che ʼndé a ca a stasìa lì a mangé ʼn sànguiss an sla scrivanìa. Minca tant, quand ch’ a l’era nen da sol, Rico a fasìa finta d’andé via, ma dòp ëd na cobia d’ore a tornava ʼnt l’ufissi për serché ʼdeurme quàich ora cogià ʼn sla scrivanìa. Gnun dij colega a l’era mai sdass-ne che col òm a passava le neuit an sël travaj fin-a ʼnt ël sinch ore ʼd matin për peui lavesse ʼnt ij bagn ëd l’asienda, seurte për fé colassion al bar e torna intré  timbrand la catolin-a pontual ansem a j’àutri. Col gest ëd timbré la cartolin-a tute le sèire fasend finta ʼd seurte a-j peisava ʼn sl’anima coma na pera da mulin; tuti ij di sèmper pì tard, tant che ʼl cap ufissi a l’avìa fin-a rusaje pensand che col òm as fërmèissa për fé dle maròche. A mi sol, adess ch’a l’é lassasse ʼndé a feme dle confidense, Rico a l’ha contame vàire ch’a j’ero longhe cole ore slongà ʼn sla scrivanìa con la tëmma che la guardia dla neuit a podèissa  ancorzisse ʼd soa presensa quand che ël son ëd sò cheur a smijava ʼn tanbòrn ch’a-j martlava ʼnt j’orije e ʼl respir a-jë vnisìa sèmper pì afanà.
Cola  ch’a l’avrìa dovù esse na sistemassion provisòria nopà a l’era dventà squasi normala përché l’ùnica rèndita sicura për la famija, ch’a l’avìa già sèmper tribulà a rivé a la fin dël mèis, a l’era pròpi mach la paga dl’ òm e chiel, për conseguensa a sarìa mai stàit an gré ʼd pagesse ʼl fit ëd n’alògg decoros. Quand chʼa j’ero mariasse Lena a l’era nʼanfermera genèrica, ma bele ch’a fusso tanti ani ch’a travajava pì nen, sò òm a chërdìa che dòp d’avèj otnù ʼl divòrsi a sarìa torna ampiegasse, miraco ʼn sfrutand cola specialisassion ch’ a l’avìa pijà frequentand un cors, pagà da Rico naturalment, quand che, con ij fieuj già grand, la fomna a së stufiava a sté a ca. Chi ch’a viv dë speransa dësperà a meuir, a dis ël proverbi, donca l’avocat che ij doj a l’avìò pijà ʼd sòcio, për vansé dij sòld e fé në strument sempli, a l’avià dit che le spèise a sarìò stàite a divise ʼnt tra ʼd lor conforma a j’ero le possibilità finansiarie e ʼl giudes, na fomna cò chila coma l’avocat, a l’avìa giuntaje dël fer a la ciòca an precisand che ʼl tren ëd vita dla madama e dij fieuj a tocava ch’a fussa sèmper istess. Cola sentensa a l’era stàita na massà sensa sens. Lena a l’avrìa poduje passé la neuit ai malavi o fé le pòste, se a vorìa nen pròpi  serchesse ʼn travaj fiss, ma col-lì a smijava esse sò ùltim pensé tant, con col papé ʼn man, chila a l’era tranquila. L’ùnich agreman che l’òm ansistend a erà stàit bon a oten-e a l’era col ʼd dovré chiel la vitura pì gròssa.
-J’euj ëd Rico, sèmper pì ross man a man ch’am contava soa stòria, a tribulavo a traten-e le lerme -
Tuti ij di a disné, ant la mensa asiendal, Rico as ampinìa la pansa pì ch’a podìa ʼn manera d’arsiste fin-a a l’indoman e vansé ʼd fé sin-a. N’òm ëd quarantequatr ani a l’era rivà a la mira ʼd patì la fam për avèj an sacòcia ij sòld ch’a-j servìo a porté ʼn piòla ij sò doi matòt na vòlta minca quindes di. Lòr, ij fieuj, an vëddend sò papà sèmper pì strafognà a j’ero smonosse d’andè ʼnt ëcà da chiel a mangé, për capì s’a l’avèissa avù dabzògn ëd na man, magara për buté d’ardriss, ma Rico a disìa che la stansia dël portié che ʼl padròn ëd la bòita a l’avìa fitaje, a l’era tanto cita ch’ a bastavo sinch minute per butela a pòst, belavans la vrità a l’era che manch pì ʼnt l’ufissi a durmìa pì nen. Cola vitura famijar, che Lena a l’avìa lassaje, a l’era dventà soa cusin-a, vardaròba e stansia da let. Minca dì a tocava tramuvela ʼnt un parchegg diferent për nen dé ʼnt l’euj, për nen fé pen-a e tut sossì conservand na dignità vrament ùnica.
Sicurament Rico gnun a l’é mai arzigasse a patlelo përchè ch’a l’é grand e gròss, ma tut lòn ch’a l’ha soportà a l’é stàita na forma ëd violensa nen meno grama ʼd cola che ʼd sòlit i s’anmaginoma, na forma d’ingiustissia legalisà che bin da ràir a ven svantà ʼnt le piasse contut ch’a sia giumai comun-a a tanti monsù.
Për fortun-a nen tute le fomnè as compòrto coma Lena, ansi la pì granda part a son bin diferente da chila e la giornà dël 25 ëd Novèmber a deuv arcordene a nojàutri òm che lor a son la ròba pì pressiosa ch’i l’oma, tutun a l’indoman ëd cola data, da fianch a le scarpëtte rosse i podrìo ëdcò buté quàich pàira dë scarpon, magara bleu, parèj, giusta për fé capì a tuti che ʼnt nòstr pais as peul esse tratà pes che ij delinquent sensa avèj fàit mai gnente d’àutr che ʼl pare d’famija.

P.S.
Col mè colega adess a sta motobin mej përchè a l’ha trovà na compagna neuva – coma ch’as dis adess – a viv pì tranquil e finalment tuta cola rumenta ch’ a-i era sota soa scrivanìa a l’é portass-la a ca la fomna dle polissìe… ansem a Rico.






Scarponi blu.

Venticinque Novembre 2018. Oggi è la giornata in cui in buona parte del mondo si fanno delle manifestazioni contro chi maltratta e picchia le donne; anzi aspettate un attimo, non mi sono spiegato bene: contro gli uomini che fanno violenza alle donne, perché mi pare di capire  che se fossero delle signore, signorine o magari delle ragazze a malmenarsi tra loro, quel fatto non farebbe senso a nessuno. Io sono il primo a condannare questi comportamenti, perché picchiare una donna è un gesto proprio da vigliacco ed anche se nella mia vita mi son trovato più volte in situazioni in cui avrei preferito dover discutere con un uomo, magari anche per scambiarci due schiaffoni e poi sistemare subito la questione alla maniera dei maschi, davanti ad un bicchierino, non mi sono mai nemmeno permesso di alzare la voce con una femmina. Mai una volta, neppure in  tutti quegli anni  in cui ho lavorato in un’azienda  nella quale c’erano trentotto donne ed un solo uomo, io. Qualcuno riderà sotto ai baffi ma posso assicurarvi  che non c’era proprio niente da star allegri; figuratevi che l’indirizzo della ditta era via  otto marzo, proprio come il giorno della festa della donna e che le mie colleghe erano tutte femministe sfegatate. Solo per comprare le mimose per tutte loro ho rischiato più volte di finire sul lastrico e dopo dieci anni passati tra quelle “birbantelle”, che sul lavoro me ne han combinate di tutti i colori, è già tanto se sono stato in grado di non cambiare sponda cercandomi un fidanzato con il pizzetto. Comunque giornate come questa sono molto importanti, quando sentiamo dire che è accaduto qualcosa di brutto ad una donna il primo pensiero è che la medesima cosa  potrebbe capitare ad una nostra sorella, ad una figlia o perché no ad una mamma ed allora il primo sentimento sarebbe quello di scendere in piazza con un randello e farci giustizia da soli, ma non servirebbe ad altro che farci rischiare la galera. L’unica cosa giusta da fare è quella di sensibilizzare tutti, in modo che questo problema da domani non venga riposto nel dimenticatoio e, per aiutare la memoria, i promotori di questa giornata hanno deciso di prendere a modello l’idea di  di un artista messicana “Elina Chauvet” che ha inventato questa forma di pròtesta: mettere fuori di casa delle scarpe da donna verniciate di rosso. Ogni paio di scarpe  vuole significare una donna maltrattata ed il rosso deve ricordare il colore del sangue di quelle poverette.
Fin qua siamo tutti d’accordo  e ciascuno  potrebbe raccontare una brutta storia che ha letto sul giornale o sentito alla radio, sempre naturalmente riguadanti violenze od anche solo maltrattamenti patiti da donne per mano dei propri mariti o fidanzati. Ciò che ben poche persone sarebbero in grado di raccontare sono tutte quelle vicende in cui a soffrire non sono le donne ma bensì l’altra metà del cielo, quella che tutti  pensano sia la parte più forte della coppia. Eh già… proprio così, sembra impossibile, ma questo capita molto più sovente di quanto siamo disposti a credere, però nessuno lo dice, magari per la vergogna di farlo sapere, proprio come una volta accadeva per le donne. Gli uomini hanno tutto da imparare dalle donne che, per conto mio, sono quelle forti, non noi. Più forti ed anche più scaltre tant’è vero che chi inizia una controversia legale  con una donna ha ben poche speranze di  vincere sebbene possa avere tutte le ragioni del mondo. Un attimo fa ho menzionato la data dell’ 8 marzo, il giorno della mimosa, ebbene sono quasi certo che nessuno sa che da più o meno vent’anni c’è anche la giornata degli uomini che cade al diciannove di novembre. È una festa poco sentita, creata quasi sicuramente per fare il verso a quella delle donne; invece non si trova un giorno che sia il corrispondente maschile del 25 novembre. Cercando su internet si trova la giornata contro la violenza sui bambini, contro i maltrattamenti agli anziani e perfino contro gli animali, ma degli uomini pare proprio che non importi nulla a nessuno. Forse questo è perche gli uomini non osano mettere in piazza le loro tribolazioni e comunque hanno ancora talmente rispetto per le compagne che piuttosto di far fare loro una qualche brutta figura di fronte a tutti, preferiscono tacere ed ingoiare il boccone, magari per una vita intera.
Gli anni delle lotte femministe che rivendicavano parità e diritti non sono molto lontani, ma ora sarebbe quasi il caso di scendere nuovamente in piazza per mettere un po’ d’ ordine in favore di quei poveracci che per il solo fatto di essere nati maschi pare che siano i responsabili di tutto quanto accade. Gli uomini che subiscono dei torti dalle fidanzate o peggio ancora dalle mogli spesso si comportano come quegli anziani vittime di inganni, si vergognano loro per chi ha compiuto quel gesto da vigliacco.
Tre o quattro anni fa, parlando con dei colleghi, tutti mal maritati, sono venuto a conoscenza delle loro  disavventure ed ho avuto proprio la conferma che il proverbio:
“guai a chi si incapriccia di render giusta la giustizia” non è solo un modo di dire.
Tutti avevano avuto dei problemi, ma la storia di Enrico, un ragazzo, anzi un uomo, di quarantaquattro anni che, prima di essere trasferito di reparto, era stato un mio vicino d’ufficio proprio nel periodo più brutto della sua vita. Enrico, il nome gliel’ ho cambiato in modo che nessuno possa riconoscerlo poiché mi ha raccontato tutto il suo calvario con un po’ di vergogna, era, o meglio è ancora, una persona  delle più buone che ci siano sulla faccia della terra.  Io e lui siamo entrati nella nostra azienda quasi nello stesso momento, più di ventotto anni or sono e da quel giorno le nostre carriere hanno marciato parallele: prima operai, poi tecnici del reparto collaudatori ed alla fine responsabili delle vendite. Un ufficio con due scrivanie e due sedie era diventato la nostra seconda casa e lì passavamo buona parte della nostra vita quasi senza parlare tra noi se non per questioni di lavoro. Io avevo la prima metà della stanza, vicino all’uscio e lui quella più distante, con la sedia appoggiata al muro e la scrivania davanti alla porta. Adesso, dopo essere stato informato di quella che era la sua situazione famigliare, mi rendo conto del perché ultimamente la signora delle pulizie borbottasse sempre che non poteva scopare  bene sotto alla scrivania di Enrico; diceva che quel signore pareva si fosse portato un armadio di panni proprio là sotto. Effettivamente quel pover uomo attraversava il momento forse più brutto della sua vita: Maddalena, sua moglie, si era invaghita di un altro uomo e pertanto lui, poco per volta, si era allontanato da casa.  Come fosse possibile una cosa del genere Enrico non poteva spiegarselo; è vero che gli interessati sono sempre gli ultimi a sapere queste cose, ma Maddalena non era proprio mai stata una di quelle donne come piacciono a noi maschi… “calda”, per capirci senza andare sul volgare, dunque che potesse avere una relazione con un altro uomo dopo che erano anni che non si avvicinava più al suo, pareva una bestialità da non credere. Per sfortuna tutto ciò che i colleghi, ridendo, gli avevano detto tante volte vale a dire che: chi non mangia in casa non significa che muoia di fame, era diventato realtà. Maddalena aveva sempre considerato suo marito un gran lavoratore, ma buono a null’altro; lei avrebbe voluto avere accanto uno scrittore, un poeta, una persona che la portasse a teatro o magari a fare delle gite in montagna ed Enrico invece era solo sempre con la testa in ufficio oppure impegnato nei lavori di manutenzione di quella casa che i due avevano comprato con i suoi miseri profitti. Per farla corta, non volendo dar la colpa all’uno o all’altra, quella coppia si era disfatta senza che nessuno degli amici o parenti se ne fosse accorto. Enrico era andato via di casa ma aveva continuato a depositare i soldi sul conto in banca dal quale tanto lui che la moglie, lei soprattutto, attingevano per fare la spesa e per le necessità della famiglia.  I due figli ormai grandi, che studiavano in città, non tornavano per dei mesi interi e quindi la casa era rimasta completamente a disposizione di quella donna che così aveva carta bianca per incontrare, proprio lì, il suo nuovo spasimante.
Ed Enrico ?  Enrico, che aveva perfino vergogna di quel che gli era accaduto,  durante la giornata viveva come sempre: in ufficio fino a tarda sera, poi però quando arrivava l’ora di cena, anziché andarsene a casa  restava lì a mangiare un panino sulla scrivania. Ogni tanto, quando non era da solo, Enrico fingeva di andarsene ma dopo un paio di ore tornava in ufficio per cercare di dormire qualche ora sdraiato sulla scrivania. Nessuno dei colleghi si era mai accorto che quell’ uomo trascorreva le notti sul lavoro fino alle cinque del mattino per poi lavarsi nei bagni aziendali, uscire per far colazione al bar e rientrare timbrando puntualmente il cartellino con gli altri. Quel gesto di timbrare il cartellino tutte le sere fingendo di uscire gli pesava come una macina da mulino: tutti i giorni sempre più tardi tanto che il capo ufficio lo aveva addirittura rimproverato pensado che si fermasse per fare del lavoro in proprio. A me solo, adesso che si è lasciato andare a farmi delle confidenze, Enrico ha raccontato quanto erano lunghe quelle ore passate coricato sulla scrivania con il timore che il guardiano notturno potesse accorgersi della sua presenza quando il cuore pareva essere un tamburo che gli martellava nelle orecchie ed il respiro gli si faceva sempre più affannato. Quella che avrebbe dovuto essere una sistemazione provvisoria era invece diventata quasi normale perché la sola rendita sicura per la famiglia, che aveva già sempre tribolato ad arrivare a fine mese, era proprio solo la paga di quell’uomo e lui, per conseguenza, non sarebbe mai stato in grado di pagarsi l’affitto di un’ appartamento decoroso. Quando si erano sposati, Maddalena era un’infermiera generica, ma nonostante fossero anni che non esercitava più, suo marito credeva che dopo aver ottenuto il divorzio si sarebbe nuovamente impiegata, anche sfruttando la specializzazione che aveva preso frequentando un corso, pagato da Enrico naturalmente, quando, con i figli già garndicelli, la donna si annoiava a stare in casa. Chi vive di speranza disperato muore, dice il proverbio, quindi l’avvocato che i due coniugi avevano assoldato in società, per risparmiare qualche soldo e fare un contratto semplice, aveva detto che le spese sarebbero state divise tra loro  a seconda delle possibilità finanziarie ed il giudice, anche lei una donna come l’avvocato, aveva rincarato la dose precisando che il tenore di vita della signora e dei figli doveva essere sempre lo stesso. Quella sentenza era stata una mazzata senza senso. Maddalena averebbe potuto fare assistenza ai malati o fare le pulizie, se non si fosse voluta cercare un lavoro fisso, ma quello pareva essere l’ultimo dei suoi pensieri tanto, con quel foglio in mano, lei era tranquilla. La sola agevolazione che l’uomo insistendo era riuscito ad ottenere era quella di poter usare lui l’autovettura più grande.
- Gli occhi di Enrico, sempre più arrossati a mano a mano che mi raccontava la sua storia, faticavano a trattenere le lacrime .
Tutti i  giorni a pranzo, nella mensa aziendale Enrico si riempiva la pancia più che poteva in modo da poter resistere fino al giorno successivo evitando così la cena. Un uomo di quarantaquattro anni era giunto al punto di patire la fame per avere in tasca i soldi che gli servivano per portare in trattoria i suoi due ragazzi, una volta ogni quindici giorni. Loro, i figli, vedendo il padre sempre più trasandato, avevano proposto di incontrarlo nella sua nuova casa, anche per capire se avesse bisogno di una mano magari per mettere in ordine, ma Enrico diceva che la stanza del portinaio, che il proprietario della ditta gli aveva affittato, era tanto piccola che bastavano cinque minuti per sistemarla, purtroppo la verità era che non dormiva nemmeno più in ufficio. Quell’ auto familiare, che Maddalena gli aveva lasciato, era diventata la sua cucina, il suo armadio ed anche la stanza da letto. Ogni giorno occorreva spostarla in un parcheggio diverso per non dare troppo nell’ occhio, per non far pena e tutto questo conservando una dignità davvero unica.
Di certo nessuno si è mai arrischiato a picchiare Enrico perché lui è un uomo grande e grosso, ma tutto ciò che ha sopportato  è stata una forma di violenza non meno cattiva di quella che solitamente ci immaginiamo, una forma di ingiustizia legalizzata che raramente viene sventolata nelle piazze sebbene ormai sia comune a tanti uomini. Per fortuna non tutte le donne si comportano come Maddalena anzi la maggior parte sono ben diverse da lei e la giornata del 25 novembre deve ricordare a noi uomini che loro sono la cosa più preziosa che abbiamo, tuttavia, il giorno successivo a quella data, di fianco  alle scarpette rosse potremmo mettere qualche paio di scarponi, magari blu, così, giusto per far capire che nel nostro paese è possibile essere trattati peggio dei delinquenti senza aver mai fatto altro che il padre di famiglia.

P.S.
Quel mio collega ora sta molto meglio perché ha trovato una nuova compagna – come si usa dire adesso – vive più tranquillo e finalmente tutta quella roba stipata sotta la sua scrivania se l’è portata a casa la donna delle pulizie… insieme ad Enrico.