lunedì 15 agosto 2022

Tenere le mani contro il vetro che mi separa dal mondo di Anita Morri - secondo "giovani"

Oggi come ieri e, ieri come oggi. Rinchiusa in questa bolla di vetro sospesa in uno spazio vuoto e remoto, privo di tempo, di confini. Rinchiusa, con me sola. Passo le giornate qui dentro da molto tempo, non da sempre, da molto tempo. Talvolta mi sento ludibrio della sorte: la vedo, ride; la vedo, si avvicina al di là del vetro; la vedo, muove le labbra con beffarda malizia. Cosa dice? Cosa dici?... permettimi di saperlo! Abbasso lo sguardo, so di non poter udire. La vedo, si allontana e mi abbandona nuovamente alla solitudine.

Lascio sfuggire grida soffocate che mi attraversano sonore. Sbatto più volte i pugni contro il vetro come se ancora non sapessi quanto è resistente, tanto da non poter nemmeno farvi nascere quella crepa che lascerebbe filtrare un alito di vita. Talvolta mi sento grata alla sorte: mi ha concesso almeno il tempo di apprendere la parola.

La mia vita si nutre di questo, io mi nutro di questo. Pensieri fluttuanti intrappolati tra i cunicoli della mente che cercano lo svincolo per fuggire. Una volta fuori, ma ancora dentro alla mia stessa prigione, creano piccoli vortici e, dopo pochi istanti di sfrenato saltabeccare, schiantandosi muoiono, scivolano verso il basso lungo il vetro.

La vedo, si avvicina; la vedo, si allontana lasciandomi ancora una volta nel silenzio intonso ed eterno che non mi è possibile colmare. Tutto ciò che mi è dato sentire è qualcosa che posso tastare contemplare odorare gustare; perciò da quando c’è questo vetro a tenermi distante dallo scorrere della mia stessa vita trasformo le onde sonore in concreto, percepibile con gli altri sensi. La musica, che un tempo facevo risuonare reale attorno a me, nell’oggi mi scuote con le vibrazioni che dal pianoforte viaggiano attraverso il mio corpo. Oppure, quando è mia sorella ad essere sul seggiolino usurato del pianoforte, nella grande sala che ricordo rimbombante, osservo la delicatezza con cui muove le dita, l’irruenza del piede sui pedali e poi lascio danzare gli occhi sullo spartito. Intanto, in quei pertugi della mente, trasformo tali percezioni nell’armonia che desidero ottenere, immaginando, ad esempio, gli improvvisi passaggi dal forte al pianissimo e i delicati crescendo che si adagiano sul mezzoforte, quando le mie mani suonano trasportate dall’Appassionata di Beethoven.

Ammiravo la natura nel suo grande potere di trasmettere la propria compiutezza, il proprio equilibrio, con piccoli elementi captabili da ognuno dei sensi umani. Ora, alla luce del sole che muta i colori repentinamente, al tocco piccante del vento sul viso, al soffuso profumo di bosco, al sapore delle erbe selvatiche, non accosto più il parlare eloquente del fiume nella vallata, delle cinciarelle nascoste tra i rami, delle pietre che rotolano sul sentiero o dei fiocchi di neve che si posano impalpabili gli uni sugli altri. Per questo, forse, in alcuni momenti la Tenuta mi sembra spegnersi, affievolirsi, ma dopo poco rammento di essere io a proiettare quest’assenza di vita sul mondo. Esiste, però, qualcosa che asseconda la mia mancanza; i libri non prestano né immagini né sottofondi acustici né sapori e odori di ciò che le pagine raccontano, così questi possono essere generati e amalgamati in accordo tra loro nei cunicoli affollati della mente senza bisogno di sovrapporre rumori e voci che ricordo a visioni del presente.

Le parole compongono in me un canto potente, superiore a qualsiasi altro vero suono. Qualcuno mi tocca la spalla. Non sussulto nell’abbandonare tale intreccio di riflessioni, il distacco e l’apatia me lo impediscono. Appoggio una mano sul tavolo e una sullo schienale della sedia per torcermi verso destra a guardare chi è. Vedo mia sorella nel suo bel vestitino di flanella rossa. Quanto mi è cara… Vorrei sorriderle, ma nulla che adesso è volere può facilmente essere realizzato. Sbircio nei suoi occhi dolci. Mi sfiora con le dita la guancia, poi il naso, ora le labbra. Sono calde. Volgo lo sguardo un istante verso la finestra per sapere se sta ancora nevicando e… Sono nella mia bolla, rinchiusa. Non può essere! Vedo me stessa fuori del vetro: sto leggendo le poche parole scritte a matita su un pezzo di carta giallognola. “Sei pronta? Fuori siamo già tutti in attesa della mezzanotte”.

Tocco i bordi irregolari del foglio strappato. Prendo la matita e scrivo. “Sì”. Sento gli occhi bruciare e subito lacrime pesanti cadere in basso, ai mei piedi, e rimbombare. Mi bagnano le guance, il naso, le labbra proprio dove mia sorella mi ha carezzata e con loro portano via il suo tocco delicato. Respiro con affanno, la bolla si riempie di vapore, il vetro si appanna. Guardo tutt’intorno, non riesco più a capire cosa accada nella mia stanza, vedo solamente il buio fuori, ho paura. Premo i palmi delle mani contro il vetro bagnato di condensa, vi appoggio la fronte, strizzo gli occhi per tentare di intravedere qualche movimento attraverso la coltre che ormai mi soffoca. Aspetta…! Scorgo delle luci colorate che piovono dal cielo illuminando le montagne incappucciate dalla neve. Ci sono io, in piedi, con il capo rivolto verso l’alto e lo sguardo velato.

C’è la mia adorata sorella, mia madre abbracciata a mio padre con le testa appoggiata sulla sua spalla. Mi sentite? Pausa. Perché nessuno mi sente? Vi sto urlando, ascoltatemi! Premo più forte i polpastrelli e le lacrime continuano a sgorgare silenziose in questo silenzio. Chiudo lentamente gli occhi, ormai troppo offuscati da un dolore ed una stanchezza improvvisi. Mi rannicchio sul fondo della bolla, ma non dormo perché ho freddo. Tutta la famiglia è fuori a festeggiare la speranza che l’inizio di un nuovo anno dona, anche il mio corpo è lì, ma non sono io. Io sono qui, sono qui. La speranza non ha più dimora in questa bolla, o forse non vi è mai vissuta. Tutto ciò che posso fare per osservare la vita, senza desiderare la morte, è tenere le mani contro il vetro che mi separa dal mondo. Benché gli anni, uno dopo l’altro, arrivino al loro termine, io da qui non libero il mio ‘essere’ e non mi libero di questo mio ‘essere’, tanto rovinoso. Fasci di luce inondano la sala vuota. Oggi è un tempo nuovo? Con la punta delle dita accarezzo la superficie vellutata della tastiera in avorio del mio Bösendorfer a coda. Istante di meditazione. Ad occhi socchiusi comincio a saltare sui tasti emanando l’impeto del tormento. Cosa suono? Nemmeno io lo so: è una musica che nasce in profondità a me sconosciute e affiora compassionevole. Pochi sono i pensieri che, in momenti come questo, rimangono bloccati a lungo nella testa. Vi aleggia dentro solamente un fastidioso ronzio; esso non turba, però, il senso di una così grande elevazione. Adesso lo sguardo torna presente, ma fugge oltre la finestra che dà sui giardini coltivati. Eccola! Nascosta tra i cespugli di sambuco, illuminata da bagliori chiari, quella bimba cui intensamente dedico amore, che curo come l’unica che lenisce la mia infelicità. La musica smette di risuonare, fuori e dentro della mia bolla, lasciando nell’aria un incessante riverbero.

Faccio violenza alle ginocchia deboli, mi alzo di scatto, cammino verso l’uscita del Palazzo. Mentre mi muovo tra i viali del giardino per raggiungerla, alzo gli occhi più volte, la sogguardo nella sua innocenza. Mani intrecciate, camminiamo sull’erba del frutteto; le dita dei piedi solleticate dagli steli bagnati. Folate di vento muovono i riccioli della piccola sotto il subbonet di raso. Ride. Percepisco la sua gioia.

Con la schiena poggiata al tronco di un pruno fisso le sue labbra che scandiscono una poesia di Hölderlin tanto amata: Poco sapere, ma di gioia molto ai mortali è concesso. O bel sole, perché me non appaga – tu, fiore dei miei fiori – nominarti in un giorno di maggio? Conosco io forse cosa più alta? Oh potessi essere come i fanciulli, come gli usignoli e in canti senza affanno la mia gioia cantare! Vorrei non dover più spezzare questa condizione di freschezza in una disperata liberazione.

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