Silenzi
Era notte a Camerino. Una notte senza luna, le
stelle brillavano inconsapevoli di quanto era successo, di quello che succede e
continuerà ad accadere.
La natura è quella che è, semplicemente è.
È sé stessa, niente altro, come una creatura
appena venuta alla luce, non è male, non è bene, e si comporta come se non sapesse
cosa sia l’una o l’altra cosa.
Vive senza porsi domande.
Questione di mera fisica, di mera chimica.
Non può seguire una legge morale e la morale è,
che una morale non ce l’ha.
A volte si manifesta bella e generosa, a volte
si rivela crudele ed egoista, ma sono categorie che non le appartengono.
Nessuna altra luce interferiva con lo
spettacolo di un cielo buio e profondo, imperturbabile, quasi insensibile alla
sofferenza di chi lo stava scrutando in cerca di risposte. Il borgo sembrava
immerso in un’atmosfera irreale, come un paziente in stato di coma.
Ogni sera, da molti giorni ormai, violava le insistenti
raccomandazioni a voce, le notifiche di attenersi con rigore e senso di
responsabilità alle indicazioni di pericolo e di non oltrepassare gli
sbarramenti che precludevano l’ingresso alla zona rossa.
Durante quei pellegrinaggi della disperazione
e della consolazione cercava con ostinazione spiegazioni che non potevano avere
risposte. Troppi perché, tutti possibili, tutti veri e tutti falsi: imperizia,
ingordigia, fatalità, disonestà, spensierata o deliberata assenza di rispetto
per luoghi e persone, ignoranza, inadeguatezza.
Dopo i primi sopralluoghi, i lavori di
consolidamento, di ricostruzione erano promesse di una rinascita lontana come
le stelle sopra di lei.
Almeno il caschetto di protezione, quello sì,
l’aveva sempre con sé.
Si temeva per l’incolumità delle persone e che
qualche disonesto si approfittasse della situazione per penetrare nelle
abitazioni e rubare quello che ancora era possibile portare via. Gesti
disumani.
Passò attraverso il varco che tempo addietro ragazzini
curiosi, ricchi di intraprendenza e fantasia, affascinati dal mistero e forse dal
brivido irresistibile di violare le regole imposte dagli adulti, avevano aperto
e accuratamente richiuso per cancellare le tracce del loro passaggio.
Li aveva osservati, non vista, mentre
trafficavano con le recinzioni tenendosi a una certa distanza. Non avevano cattive
intenzioni e probabilmente andavano in cerca delle case che avevano abitato.
Parlavano tra loro a voce bassa come se si trovassero in un cimitero per una
visita, quasi un commiato, tenendosi al centro della strada ed indicando a
turno chi un edificio, chi un altro.
Tornò indietro, li attese ma non disse loro
nulla, segno di rispetto e di solidarietà per la sofferenza che li accomunava.
Rimise ogni cosa al suo posto dietro di sé, si
guardò ancora alle spalle per sincerarsi che non ci fosse qualcuno che la
stesse seguendo. Fece alcuni passi e si fermò in ascolto, nascosta da una zona
d’ombra, scrutando l’oscurità, per cogliere eventuali segnali di presenze.
Nessuno!
Iniziò a percorrere la stradina lievemente in
salita tra i muri delle case puntellati da assi, da travi. C’erano ancora
macerie per terra.
Indugiò nuovamente in una piazzola, ferma, in
ascolto, immobile, mettendo a tacere anche il pur lieve rumore dei suoi passi.
Soffiava una brezza leggera, frizzante.
Quel silenzio era innaturale, ogni volta che
penetrava di soppiatto nella zona proibita sperimentava la stessa sensazione di
vuoto e di abbandono.
Regnava un odore di morte e non era questione
di olfatto, solo di memoria e di suggestione per l’assenza di vita.
Si ostinava a voler rivivere le ore che
avevano preceduto e seguito l’orrore dei crolli.
La prima scossa aveva generato preoccupazione,
ma alla fine si trattava semplicemente di trovare una soluzione temporanea per
la notte. Probabilmente sarebbe finito tutto lì, senza gravi conseguenze.
Altrove le cose erano andate molto peggio, ma
incaute e infondate sicurezze e pericolose speranze possono giocare brutti
scherzi; a distanza di poche ore quell’illusione si sarebbe dissolta insieme a
parte degli edifici
La seconda scosse uccise tutte le già magre
certezze.
Si era precitata, così come si trovava, per la
rampa di scale che la separava dalla strada. Il primo pensiero era stato di
agguantare il telefono, la borsa all’ingresso con documenti, chiavi e
raggiungere l’auto.
Calcinacci e polvere erano ovunque mentre
sotto i piedi la terra tremava e lo fece per un tempo che sembrava
interminabile dilatato dalla paura, gettando nel dubbio tra rimanere e lottare
o scappare da un luogo che era diventato irriconoscibile e ostile.
Chiamare i genitori, suo fratello, parenti
stretti ed amici, rassicurare, rassicurarsi.
In pochi attimi da una vita ad un'altra.
Nella proiezione della sua memoria la strada
si ripopolava all’improvviso di amici, di vicini di casa, del vociare dei
giovani studenti, del latrato dei cani, del rumore dei passi cadenzati, delle
corse dei bambini.
Altrettanto all’improvviso calava la
solitudine, il senso di abbandono.
Una forza impossibile da contrastare li aveva
sospinti controvoglia sulla soglia di una porta; una volta varcata, quella
porta si era chiusa con fragore e violenza alle loro spalle impedendogli di
riattraversarla.
Nella vita alcune porte sono semplici varchi,
è facile attraversarli, diaframmi sottili di carta traslucida che lasciano
intravvedere quello che potrebbe aspettarci oltre; ritornare sui propri passi è
facile, è pur sempre possibile; altre permettono un cammino a ritroso, ma a
prezzo di dure sofferenze, altre ancora non permetteranno nemmeno di volgersi
indietro.
Non sono necessari lutti perché una tragedia
si compia appieno, è sufficiente venire espropriati della quotidianità di mura
amiche, privati delle sicurezze più elementari.
Quando la terra una volta così familiare trema
e tutte le certezze si incrinano come crepe nei muri e crollano disgregandosi
insieme alle case, schiantandosi al suolo nel boato assordante e nella polvere
che si alza minacciosa e penetra nel naso, negli occhi, annebbiando la vista
che vaga in un buio innaturale alla ricerca di riferimenti che non ci sono più
e di persone di cui senti solo le urla disperate senza riuscire a vederle, si prova
l’amarezza di essere vittime designate di un piano perverso e crudele, un
disegno preordinato volto a distruggere con sapiente regia ogni cosa,
all’improvviso senza un avvertimento.
Al contrario è fatalità, incolpevole presenza
lì e in quel momento preciso invece che essere altrove, ma altrove non potevi
essere perché quello è il tuo posto, la tua vita da sempre, ma nulla è per
sempre.
È il cambiamento repentino, compresso in un
istante, che devasta nell’ impossibilità di opporsi agli eventi, di evitare la
catastrofe, scatena dubbi e tutte le domande del mondo riaffiorano con
prepotenza perché ci si sente illegittimamente defraudati, violentati nel
proprio intimo, feriti profondamente negli affetti, traditi dai luoghi amici.
Poi il silenzio, i silenzi, mentre l’erba
crescerà indifferente senza rumore e si radicherà sulle rovine in attesa che la
vita di un tempo riprenda un nuovo corso.
Colpa di un Dio distratto? O peggio indifferente?
Del destino o del caso?
Venire colpiti così duramente, quasi a
tradimento, scatena paura, fa riaffiorare ansie nascoste e poi il risentimento,
la rassegnazione, il desiderio di rivincita.
Alla fine, l’anima si accartoccia come un
foglio usato e vince il silenzio.
Appoggiata ad un muro, si lasciò scivolare
lentamente fino a sedere per terra.
Sganciò il sottogola per liberarsi del casco e
si prese il volto tra le mani, chiuse gli occhi permettendo al buio di
penetrarle dentro.
Non riusciva più ad addormentarsi con
naturalezza da quella notte.
Rimaneva in lunga attesa di un sonno
ristoratore che stentava a giungere e nemmeno la stanchezza accumulata era
sufficiente a farla crollare.
Quando finalmente le palpebre si appesantivano
e la coscienza si annebbiava, era sufficiente un leggero rumore, il rigirarsi
tra le lenzuola per rivivere la sensazione della terra che si agitava con
violenza.
Ogni notte la cosa si ripeteva.
Non voleva più essere felice, prima lo era
stata. Non sarebbe stato possibile esserlo come lo era un tempo. La felicità si
era cristallizzata come casa sua, rimasta nello stesso stato in cui l’aveva
abbandonata di fretta, mentre si aprivano crepe nei muri lasciando intravvedere
le pietre coperte dall’intonaco che si sgretolava.
Le bruciava dentro un vago senso di
responsabilità, del tutto inconsistente, ma comunque le pesava sulla coscienza
la cecità di segnali che avrebbe potuto cogliere lei come gli altri e che erano
stati trascurati, ignorati.
Come ogni notte riprese la via del ritorno
alle nuove case, con un senso di gratitudine e di speranza, miste ai timori di
un futuro incerto,
Non poteva accettare nemmeno lontanamente
l’idea che del posto dove era nata e vissuta se ne potesse parlare al passato,
con parole definitive.
Camerino, come un cuore malato che ha
rallentato i battiti pur di sopravvivere, pulsava ancora, ma le pietre hanno
bisogno d’altro, di mani e di silenzio operoso…
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