sabato 13 agosto 2022

Se un uomo è un uomo di Emanuele Rizzi

 

Se un uomo è un uomo

 

Era una pallida mattina d’inverno e si respirava il gelido olezzo prodotto dalle fabbriche industriali, ancora in dormiveglia, accanto alla stazione.

Quel giorno capitò che non riuscii a prendere il solito treno per andare al lavoro, ma non è che fosse un problema; agli operai del mio livello, addetti alla manutenzione delle pale eoliche fuori città, era stato ribadito più volte che “tanto prima o poi avrebbero smesso di girare”, motivo per cui non importava davvero che le tenessimo in funzione.

Ricordo che una volta un bullone era partito come una saetta, aveva rimbalzato qua e là per la cabina per poi schiantarsi sul viso del vecchio Richard. Tra le urla delle placche metalliche che si flettevano, in concerto con i gridolini dell’uomo, ebbi l’impressione che l’intera struttura si fosse inclinata di almeno dieci gradi. Neanche cinque minuti dopo, c’era già chi si calava con le funi per lucidare le paratie esterne, come se nulla fosse accaduto.

Ad ogni modo, quella mattina il freddo mi convinse senza troppe storie a nascondere le labbra infreddolite nella sciarpa di stoffa che avevo rimediato da una maglietta strappata.

Attesi il treno in piedi, congelato nella putrida sensazione di aver perso coscienza di me stesso. Che poi, cos’era la coscienza? Era da qualche anno, da quando la gente aveva smesso di rivolgersi parola o forse da quando la teorie scientifiche avevano perso valore, che sentivo il mio corpo sguazzare in una pozza di monotonia.

Lanciai una rapida occhiata all’orologio che penzolava dalla pensilina e, d’improvviso, l’ululato del treno riecheggiò tra i palazzi.

 

 Di tanto in tanto qualcuno prendeva posto nel vagone in cui mi ero accomodato, volti fugaci che avrei dimenticato pochi attimi dopo; una signora scheletrita, un collega operaio, una coppia di giovani agitati. La bocca della carrozza inghiottiva e rigurgitava corpi vuoti, come il sistema che aveva ormai preso il possesso del mondo. O, per lo meno, è ciò che avrei pensato se ne fossi stato consapevole.

Quando mancava poco più di un’ora all’arrivo, e io mi ero ormai perso nelle pubblicità dei cartelloni luminosi oltre il finestrino, un uomo dall’aspetto pittoresco mi si sedette di fronte.

Indossava una bombetta per cappello, un abito color cammello, e si accompagnava con un piccolo rotolo di pelo che lasciava zampate di fuliggine sul suo cammino. Subito ignorai la strana creatura e mi concentrai sui folti baffi spioventi dello sconosciuto, fronde di alberi che si lasciavano pettinare dai movimenti nervosi delle labbra.

Senza voler creare problemi allo strambo individuo – visto che portare animali sui mezzi pubblici era proibito – tornai a guardare fuori.

Trascorsero svariati minuti prima che, senza un’apparente ragione, mi rivolgesse la parola.

«Lei mi ricorda il protagonista di un libro che si intitolava “1984”, scritto da George Orwell. Lei conosce Orwell?».

Stranito dal fatto che mi avesse approcciato in maniera così diretta, scossi la testa.

«È vietato parlare di quei così lì, quelli con le pagine» replicai. «E anche parlare in generale». Lui sembrò non sentirmi nemmeno.

«Me lo ricorda perché cova le stesse idee rivoluzionarie ma ha troppa paura di urlarle al mondo».

«Io non ho idee rivoluzionarie» sussurrai frettolosamente.

«Non le ha… ancora. Vuole forse dirmi che, in inverno, un pesco non è un pesco solo perché non si vedono i frutti?».

«Così mi è stato insegnato. Un pesco senza frutta diventa un albero».

«Al diavolo, un pesco è un pesco». Spinse il tronco in avanti, come a volermi riferire un qualche segreto. «Ma un uomo non è sempre un uomo».

«Io sono un uomo!» urlai d’improvviso. Avevo agito d’impulso, alzandomi, mosso da una rabbia che non sapevo di covare. «Ho braccia, gambe, occhi, calcoli renali! Sono una persona!».

«Un uomo è un uomo» continuò lui, senza fretta «se ha una coscienza e il buon cuore di prendersi cura di tutto ciò che non è lui, se ha il coraggio di alzare la testa e ribellarsi alle ingiustizie».

Coscienza. Che cos’era la coscienza? E cosa voleva da me uno sconosciuto vestito in maniera così desueta, che seppur non fosse concesso mi rivolgeva la parola senza conoscermi, che si portava appresso quello che una volta probabilmente era un cane e che si metteva a straparlare di libri e altre sciocchezze?

Cercai di calmarmi. Mostrarsi agitati non era un buon biglietto da visita, soprattutto perché sui treni c’era sempre qualche Militante pronto a fucilarti solo perché per un attimo avevi perso il controllo. Sul tuo petto ci sarebbe stato un buco e sul suo l’ennesima medaglia per chissà quale merito.

Gli occhi dei curiosi che s’erano alzati negli altri vagoni, tornarono al loro posto.

«Il mondo è diventato un luogo strano» continuò l’uomo. A un tratto si era fatto serio. «A nessuno importa di niente, le città sono abbandonate a se stesse, le persone muoiono per strada e le altre cercano di non sporcarsi le scarpe mentre evitano i loro corpi. Non serve neanche più un governo, perché non c’è più niente da governare. Questo è il mondo in cui ci hanno abbandonato i nostri predecessori. A meno che non si faccia qualcosa di grave tipo, che ne so, portarsi un cane e un libro su un treno, non si viene neanche redarguiti».

Con una disinvoltura disarmante, frugò nel taschino della giacca e ne tirò fuori un rettangolino di pelle rovinato.

«Lei dev’essere impazzito» farfugliai, guardandomi intorno. «I Militanti potrebbero arrivare da un momento all’altro! Mi avranno senz’altro sentito gridare! Cosa diavolo lo sta facendo?».

«Le sto salvando la vita, ecco cosa sto facendo. A lei e a tutti quelli che non conosce». Accarezzò la copertina e, proprio mentre si decideva a sfogliarlo, sentii passi pesanti avvicinarsi dai vagoni adiacenti.

«In questo libro ci sono solo poche pagine, le macchie d’inchiostro di ciò che resta di un tempo passato, memorie che sono ora impresse nel futuro. Ho impiegato anni per scriverle, ma non riesco ad andare oltre alla settima pagina».

«Se glielo trovassero, la sbatterebbero in carcere o non so che altro». Dai miei occhi trasudava preoccupazione, forse persino terrore, e percepii il calore anomalo delle guance. Era ormai questione di minuti, prima che un esercito piombasse nella carrozza.

«Mi ammazzerebbero, altroché. Sei d’accordo, Freddy?».

Freddy – il cane – doveva essere d’accordo, perché scodinzolò animosamente.

«Mi creda, non le darei questo libro se non fossi certo che altrimenti finirebbe inghiottito dalle fiamme di qualche anonima fornace, giù nel quartiere industriale. Separarmene mi costa molto, ma l’ottava pagina so che non la vedrò mai. Sette io, sette lei, sette qualcun altro…».

Il rumore dei passi si fece più intenso; erano vicinissimi. Il volto dello sconosciuto era calmo e rilassato, gli occhi scintillavano come stelle.

«Vedrà, verrà un buon libro».

Appena prima che le porte si aprissero, sussurrò qualcosa all’animale, che afferrò il piccolo libro e si nascose sotto ai sedili. Fu davvero questione di millesimi di secondo che vidi quell’uomo, con cui avevo parlato per neanche mezz’ora, venire mestamente trascinato fuori dalla carrozza.

«Ah, prima che mi dimentichi» concluse, sorridendo «se un uomo è un uomo, la civiltà non morirà mai».

 

Il treno si fermò per una manciata di minuti. Il cane riemerse dalla fuliggine, tenendo il libro ben saldo tra i denti, e mi saltò in braccio. Ero troppo confuso per opporre resistenza. Poi, senza preavviso, il paesaggio fuori dal finestrino riprese a muoversi.

Un boato mi ridestò da un sonno profondissimo e una lacrima mi solcò la guancia. Chi ero io? Chi sarei stato, in un futuro non troppo lontano? Dopo di me, chi sarebbe venuto?

«Se un uomo è un uomo» sussurrai «scrive almeno sette pagine».

Avrei fissato il libro per ore, fino a quando il sole avrebbe lasciato il posto al crepuscolo, e quel giorno non sarei andato al lavoro.

Tanto, nessuno se ne sarebbe accorto.

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