Se un uomo è un uomo
Era una pallida mattina
d’inverno e si respirava il gelido olezzo prodotto dalle fabbriche industriali,
ancora in dormiveglia, accanto alla stazione.
Quel giorno capitò che
non riuscii a prendere il solito treno per andare al lavoro, ma non è che fosse
un problema; agli operai del mio livello, addetti alla manutenzione delle pale
eoliche fuori città, era stato ribadito più volte che “tanto prima o poi avrebbero
smesso di girare”, motivo per cui non importava davvero che le tenessimo in
funzione.
Ricordo che una volta
un bullone era partito come una saetta, aveva rimbalzato qua e là per la cabina
per poi schiantarsi sul viso del vecchio Richard. Tra le urla delle placche
metalliche che si flettevano, in concerto con i gridolini dell’uomo, ebbi
l’impressione che l’intera struttura si fosse inclinata di almeno dieci gradi.
Neanche cinque minuti dopo, c’era già chi si calava con le funi per lucidare le
paratie esterne, come se nulla fosse accaduto.
Ad ogni modo, quella
mattina il freddo mi convinse senza troppe storie a nascondere le labbra
infreddolite nella sciarpa di stoffa che avevo rimediato da una maglietta
strappata.
Attesi il treno in
piedi, congelato nella putrida sensazione di aver perso coscienza di me stesso.
Che poi, cos’era la coscienza? Era da qualche anno, da quando la gente aveva
smesso di rivolgersi parola o forse da quando la teorie scientifiche avevano
perso valore, che sentivo il mio corpo sguazzare in una pozza di monotonia.
Lanciai una rapida
occhiata all’orologio che penzolava dalla pensilina e, d’improvviso, l’ululato
del treno riecheggiò tra i palazzi.
Di tanto in tanto qualcuno prendeva posto nel
vagone in cui mi ero accomodato, volti fugaci che avrei dimenticato pochi
attimi dopo; una signora scheletrita, un collega operaio, una coppia di giovani
agitati. La bocca della carrozza inghiottiva e rigurgitava corpi vuoti, come il
sistema che aveva ormai preso il possesso del mondo. O, per lo meno, è ciò che
avrei pensato se ne fossi stato consapevole.
Quando mancava poco più
di un’ora all’arrivo, e io mi ero ormai perso nelle pubblicità dei cartelloni
luminosi oltre il finestrino, un uomo dall’aspetto pittoresco mi si sedette di
fronte.
Indossava una bombetta
per cappello, un abito color cammello, e si accompagnava con un piccolo rotolo
di pelo che lasciava zampate di fuliggine sul suo cammino. Subito ignorai la
strana creatura e mi concentrai sui folti baffi spioventi dello sconosciuto, fronde
di alberi che si lasciavano pettinare dai movimenti nervosi delle labbra.
Senza voler creare
problemi allo strambo individuo – visto che portare animali sui mezzi pubblici
era proibito – tornai a guardare fuori.
Trascorsero svariati
minuti prima che, senza un’apparente ragione, mi rivolgesse la parola.
«Lei mi ricorda il
protagonista di un libro che si intitolava “1984”,
scritto da George Orwell. Lei conosce Orwell?».
Stranito dal fatto che
mi avesse approcciato in maniera così diretta, scossi la testa.
«È vietato parlare di
quei così lì, quelli con le pagine» replicai. «E anche parlare in generale».
Lui sembrò non sentirmi nemmeno.
«Me lo ricorda perché cova
le stesse idee rivoluzionarie ma ha troppa paura di urlarle al mondo».
«Io non ho idee
rivoluzionarie» sussurrai frettolosamente.
«Non le ha… ancora. Vuole forse dirmi che, in
inverno, un pesco non è un pesco solo perché non si vedono i frutti?».
«Così mi è stato
insegnato. Un pesco senza frutta diventa un albero».
«Al diavolo, un pesco è
un pesco». Spinse il tronco in avanti, come a volermi riferire un qualche
segreto. «Ma un uomo non è sempre un uomo».
«Io sono un uomo!»
urlai d’improvviso. Avevo agito d’impulso, alzandomi, mosso da una rabbia che
non sapevo di covare. «Ho braccia, gambe, occhi, calcoli renali! Sono una
persona!».
«Un uomo è un uomo» continuò
lui, senza fretta «se ha una coscienza e il buon cuore di prendersi cura di
tutto ciò che non è lui, se ha il coraggio di alzare la testa e ribellarsi alle
ingiustizie».
Coscienza. Che cos’era
la coscienza? E cosa voleva da me uno sconosciuto vestito in maniera così
desueta, che seppur non fosse concesso mi rivolgeva la parola senza conoscermi,
che si portava appresso quello che una volta probabilmente era un cane e che si
metteva a straparlare di libri e altre sciocchezze?
Cercai di calmarmi.
Mostrarsi agitati non era un buon biglietto da visita, soprattutto perché sui
treni c’era sempre qualche Militante pronto a fucilarti solo perché per un
attimo avevi perso il controllo. Sul tuo petto ci sarebbe stato un buco e sul
suo l’ennesima medaglia per chissà quale merito.
Gli occhi dei curiosi
che s’erano alzati negli altri vagoni, tornarono al loro posto.
«Il mondo è diventato
un luogo strano» continuò l’uomo. A un tratto si era fatto serio. «A nessuno
importa di niente, le città sono abbandonate a se stesse, le persone muoiono per
strada e le altre cercano di non sporcarsi le scarpe mentre evitano i loro
corpi. Non serve neanche più un governo, perché non c’è più niente da
governare. Questo è il mondo in cui ci hanno abbandonato i nostri predecessori.
A meno che non si faccia qualcosa di grave tipo, che ne so, portarsi un cane e
un libro su un treno, non si viene neanche redarguiti».
Con una disinvoltura
disarmante, frugò nel taschino della giacca e ne tirò fuori un rettangolino di
pelle rovinato.
«Lei dev’essere
impazzito» farfugliai, guardandomi intorno. «I Militanti potrebbero arrivare da
un momento all’altro! Mi avranno senz’altro sentito gridare! Cosa diavolo lo
sta facendo?».
«Le sto salvando la
vita, ecco cosa sto facendo. A lei e a tutti quelli che non conosce». Accarezzò
la copertina e, proprio mentre si decideva a sfogliarlo, sentii passi pesanti
avvicinarsi dai vagoni adiacenti.
«In questo libro ci
sono solo poche pagine, le macchie d’inchiostro di ciò che resta di un tempo
passato, memorie che sono ora impresse nel futuro. Ho impiegato anni per
scriverle, ma non riesco ad andare oltre alla settima pagina».
«Se glielo trovassero,
la sbatterebbero in carcere o non so che altro». Dai miei occhi trasudava
preoccupazione, forse persino terrore, e percepii il calore anomalo delle
guance. Era ormai questione di minuti, prima che un esercito piombasse nella
carrozza.
«Mi ammazzerebbero,
altroché. Sei d’accordo, Freddy?».
Freddy – il cane – doveva
essere d’accordo, perché scodinzolò animosamente.
«Mi creda, non le darei
questo libro se non fossi certo che altrimenti finirebbe inghiottito dalle
fiamme di qualche anonima fornace, giù nel quartiere industriale. Separarmene
mi costa molto, ma l’ottava pagina so che non la vedrò mai. Sette io, sette
lei, sette qualcun altro…».
Il rumore dei passi si
fece più intenso; erano vicinissimi. Il volto dello sconosciuto era calmo e
rilassato, gli occhi scintillavano come stelle.
«Vedrà, verrà un buon
libro».
Appena prima che le
porte si aprissero, sussurrò qualcosa all’animale, che afferrò il piccolo libro
e si nascose sotto ai sedili. Fu davvero questione di millesimi di secondo che
vidi quell’uomo, con cui avevo parlato per neanche mezz’ora, venire mestamente
trascinato fuori dalla carrozza.
«Ah, prima che mi
dimentichi» concluse, sorridendo «se un uomo è un uomo, la civiltà non morirà
mai».
Il treno si fermò per
una manciata di minuti. Il cane riemerse dalla fuliggine, tenendo il libro ben
saldo tra i denti, e mi saltò in braccio. Ero troppo confuso per opporre
resistenza. Poi, senza preavviso, il paesaggio fuori dal finestrino riprese a
muoversi.
Un boato mi ridestò da
un sonno profondissimo e una lacrima mi solcò la guancia. Chi ero io? Chi sarei
stato, in un futuro non troppo lontano? Dopo di me, chi sarebbe venuto?
«Se un uomo è un uomo»
sussurrai «scrive almeno sette pagine».
Avrei fissato il libro
per ore, fino a quando il sole avrebbe lasciato il posto al crepuscolo, e quel
giorno non sarei andato al lavoro.
Tanto, nessuno se ne
sarebbe accorto.
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