sabato 24 giugno 2023

Prosa segnalata - Elisa Marchinetti - Noceto di Parma

 

.                                                 L’amore oltre

                                                                                                 Io sono con te  in ogni maledetto istante

                                                                                                     che vuole dividerci e non ci riesce.

                                                                                                            ( Alda Merini)                                                                                              

                                  

La  città era insolitamente  deserta a quell’ora della sera.

Immersa in una sofferta cappa di immobilismo sembrava avesse smesso di sognare, di riempirsi   il domani di progetti, di   mordere la vita  per  gustarne ad ampi bocconi l’essenza  stessa.

Ripiegata su se stessa sopportava silente e imbronciata  le rigide imposizioni  governative sulla pandemia e  tacitava  gli spasmi vitali  che continuavano  ad ardere  sotto le  ceneri di una repressa frenesia,  affidandosi alla  speranza di un rapido, quanto provvido cambiamento.

Del dinamismo di un tempo, solo vaghi ricordi riflessi nei poster  che  ancora  decoravano i viali cittadini o che occhieggiavano i pochi passanti  da  qualche angolo  del centro. Di invitanti  spettacoli teatrali o  di  estive e ridanciane  feste di paese non  rimanevano  che  stazzonate  e sbiadite locandine,  fermi  immagine  di  un passato che ritornava  con poderosa violenza a rivangare i  ricordi e a rintuzzare la nostalgia, quel brivido dolceamaro  che solletica la pelle  del  tempo perduto.

“Neanche un bar aperto per un caffè”, riuscì a dire Salvatore prima di inghiottire l’ultima parola  in un lungo, sonoro sbadiglio che accompagnò chiudendo gli occhi  e allungando  le  braccia ben oltre il capo. Poi, soffiò  come un cavallo  imbizzarrito per riprendersi dall’apatia del momento.

“Già, ci hanno tolto anche questa piccola certezza, sospirò sconsolato Giuliano, il suo compagno di pattuglia,  imboccando  a tutta velocità, e facendo  così stridere le gomme,  l’arteria principale  per  perlustrare  per l’ennesima volta la zona loro adibita.

“ Ehi, guaglio’, nessun inseguimento in vista, mi pare”,  lo redarguì l’altro agitandogli la mano sinistra davanti agli occhi,  facendo un po’ di teatro, come era nel suo stile.

“ Magari…Un po’ di adrenalina ci sveglierebbe, non ti pare? rispose il compagno, un tipo tutto nervi, facendogli l’occhiolino.

Loro abituati a bere più di una tazzina di quella miscela energizzante,  soprattutto nel  turno serale,  ad intavolare bizzarre e surreali  conversazioni  con  i baristi e più spesso con qualche  avventore un po’ su di giri  e  ad intervenire per sedare risse fuori dai locali della movida,  ora si ritrovavano  sgomenti a  percorrere   una città spettrale, muta e inerte che nella solitudine mostrava  le sue ferite aperte.

Le poche, pochissime  insegne illuminate  non riuscivano a contrastare il senso  palpabile della  paralisi fisica e sociale.  Vetrine vuote o trascurate da tempo  ed una  scia di  Affittasi “ e  Vendesi”,  che si ripetevano dal centro alla periferia , acuivano  il senso del vuoto e  della profonda  crisi economica e sociale.

Ed i tanti  catenacci attorno alle sedie ed ai tavolini dei bar all’aperto parevano la  calzante  metafora della  vita  improvvisamente   imbrigliata in un reticolo di limitazioni e rinunce.

Faceva ancora  freddo per essere la fine di   Marzo.

Quasi  che  l’Inverno volutamente  ritardasse  l’uscita di scena  per  lasciare una  decisiva testimonianza di sé, a riprova  della sua tempra.

Il cielo, ingrigito da giorni, minacciava pioggia e l’aria trasudava umidità e  instabilità, quasi respirasse in sincrono quel senso  di paura latente ed inquietante, che strisciante  come un serpente, si era insinuato in ogni anfratto .

Gli alberi, piegati da folate di un vento insidioso e dispettoso, si muovevano  in modo sussiegoso al suo volere, poi con rapide volute ritornavano imperiosi a sfidarlo e a mostrare  con orgoglio i segni di una incipiente ed attesa  rinascita.

Per le vie  fogli di giornale danzavano leggeri nell’aria,  sospinti dalla mano guantata di Eolo. Come ad inseguire i sospiri di una città in affanno, persa tra chiusure e riprese,  si posavano in frenata   sul marciapiede, dove sostavano per poco tempo   indecisi sul da farsi, infine   riprendevano  il proprio cammino con fare repentino, librandosi titubanti  in volo.


La serratura  stranamente si aprì al primo scatto. Un click netto e deciso.

Come se la manovra per  far girare la chiave le fosse tornata all’improvviso  familiare.

Come se il buio dell’ultimo periodo, che le aveva inghiottito i pensieri e messa alla deriva, si fosse  miracolosamente diradato, riportandola alla luce di una monotona  esistenza.

E a quella  gestualità che sapeva di riti consolidati in una vita lenta e sofferta che  Luisa  aveva trascinato  per ottanta primavere abbondanti.

In eccesso, soprattutto,  e mai in difetto, in fatto  di lavoro, fatica e paghe magre. Certo un destino beffardo il suo, come spesso  ricordava sconsolata,  lei che si era affacciata alla vita il 1 Maggio e che di  feste ne aveva celebrate poche. Anzi, pochissime.

Ma, come  ripeteva con piglio deciso e combattivo ad ogni ricorrenza,  quando  ancora il vigore e la determinazione  la sostenevano e la memoria non andava a scartamento ridotto,

 “Festa dei lavoratori un corno!”

E a ribadire il suo concetto  in piazza,   per la ricorrenza,  al posto di bandiere rosse  aveva per anni sventolato  con vigore  il suo di vessillo:  mani dalle  dita rattrappite e  divorate dai reumatismi che  alzava orgogliosa al cielo a celebrare il suo di lavoro, quello trascorso a cucire asole, a sistemare cerniere, a confezionare abiti, quello  forzatamente impostolo quando ancora  i sogni da  bambina  erano tinti di rosa.

Quando  nessuno in famiglia le aveva chiesto  se anche lei ne avesse uno.   

Dei giochi da cortile con le amiche  aveva conservato  per anni  poche  cartoline mentali ad acquerello e dagli angoli rovinati, sepolte nei pertugi della memoria.

Dei pomeriggi a casa dell’unica sarta del paese, una donnina segaligna e avida, invece,  album ed album zeppi di ricordi a tinte cupe.

L’aveva accompagnata la madre, un pomeriggio, quando di anni ne aveva solo nove e l’età dell’innocenza   dipinta  in volto.  La lasciò  sulla soglia di quella casa  e al suo destino  senza tante parole, ma  con un abbozzo di sorriso sulle labbra.

“ Qui imparerai un lavoro, per noi e per te ”, recitò laconica, spingendola in avanti, quasi tra le braccia della sarta,  con un nervoso colpetto sulla schiena.

Che quello non sarebbe stato l’unico dolore lo imparò ben presto e a sue spese.

La mano fredda che la ghermì  e la porta che rapida si chiuse dietro di sé le troncarono  sul nascere  qualsiasi ipotesi  di fuga e le  recisero  per sempre il  fragile cordone con la spensieratezza del suo passato. E le delimitarono, senza tante misure,  il  suo presente e il futuro.

Prima che si capacitasse del luogo in cui era finita, si ritrovò tra le mani una pezzuola di cotone bianco ed un ago. Se li rigirò tra le dita irrigidite, poi si guardò intorno smarrita e confusa. Che  avrebbe dovuto  contare solo sulle proprie forze  anche quello lo imparò velocemente e sulla propria pelle.

Addossate alle  pareti  di uno stanzone luminoso, alcune  bambine, più o meno sue  coetanee, stavano  chine su pezzi di stoffa. Nessuna di loro, però, si degnò di alzare lo sguardo per salutarla, tantomeno per  aiutarla.  Troppo impegnate a seguire le indicazioni   al meglio per perdersi in convenevoli, troppo intimorite per  lasciarsi sfuggire un cenno, preferirono continuare il loro lavoro   in un silenzio quasi  religioso, rovinato solo da qualche imprecazione a fior di labbra e dal ticchettio delle forbici.

“Apri bene gli occhi e le orecchie.” le intimò la sarta, posizionandosi accanto a lei.

“ Ti mostro i primi  passaggi, tanto per iniziare; come tenere l’ago, il ditale, la pezzuola e ad imbastire. Seguimi e non distrarti, perché non amo  troppo ripetere  ed il tempo è denaro.”

Luisa  osservò i suoi gesti attentamente, col fiato corto e la paura dietro gli occhi  spalancati.

“ Precisione e precisione, ricordatelo! Poi le passò l’occorrente, la guidò nei primi movimenti, quindi  la osservò al debutto.

Al primo inciampo, una grossolana sbavatura, le rifilò una bacchettata sulle nocche della mano destra, un colpo secco quanto inaspettato  che la fece urlare dal dolore e  liberare un rivolo di urina.

“ Qui non c’è posto per i piagnoni ed i piscioni”, sentenziò la donna con voce ferma e minacciosa, puntando gli occhi sbarrati prima sul  viso paonazzo, poi sulla pozza giallognola che si andava formando sul pavimento e di nuovo sul volto rigato della piccola.

La sera, alla madre che aspettava impaziente il resoconto della giornata, esibì tremante e dolorante i vari ricami sulla pezzuola, mentre tra le  gambe  strette nascondeva  la vergogna e l’umiliazione.

Da lei non un apprezzamento, nè un incoraggiamento. Non quella sera, nemmeno nelle successive. Solo un lieve  cenno del capo accompagnato dalle palpebre abbassate, segno inequivocabile di un freddo, quanto sottile, interiore   compiacimento materno. E la convinzione che la svolta impressa al destino della figlia avrebbe prima o poi dato i suoi frutti. Per l’economia  della famiglia, soprattutto, per quel nucleo numeroso in cui ogni bocca da sfamare rappresentava un assillo quotidiano e due braccia da impiegare un sicuro sostegno.

Più di una volta provò la piccola a ribellarsi a quei lunghi e sofferti pomeriggi dalla sarta, ad un’attività che non le piaceva affatto, che non le era congeniale, ma le bastavano le mani  del padre che sfioravano la cinghia  per  riportarla sul sentiero già tracciato.

“ Voglio studiare e fare la maestra”, biascicava di tanto in tanto con un groppo in gola, tenendosi stretto al petto l’abbecedario.

“ Dell’erba voglio sono pieni i giardini del re; di erba grama i nostri. Non te lo scordare ”, sentenziava la madre imperterrita e sorda ai desideri della figlia.

Ed accompagnava il severo monito, scandito lentamente e con l’intonazione di un  salmo,  inarcando le sopracciglia e portandosi  l’indice destro davanti al naso  a zittire  una possibile, probabile replica.

Non le restava allora che piangere, di nascosto  da tutti,  lacrime che sapevano di sogni infranti e di intima solitudine, di sofferenze e  sacrifici a venire, di agognati  spazi aperti e bramate storie da leggere, di ambizioni schiacciate e  libertà negate.

Luisa impiegò poco a capire che non poteva. Che non poteva insistere.

In nome di  quel dito che  fendeva  il suo destino e che le delimitava l’orizzonte   riportandola al  suo dovere di figlia e alla responsabilità che quel ruolo comportava.

In nome e per nome della sua famiglia che,  pur rigida ed ottusa che fosse, era tutto  il suo mondo.  

Fu così che  terminata la quinta elementare ed accantonata a malincuore l’immagine della maestrina dalla penna rossa, le giornate presso la sarta diventarono appuntamenti quotidiani, un lavoro a bottega formativo ed alquanto indispensabile. Un obbligo che, mascherato il disappunto dietro un sorriso tirato di facciata, diligentemente la bambina osservava appuntandosi il portaspilli al petto,  sistemandosi il metro attorno al collo ed il ditale al medio della mano destra.

Come  ci si aspettava da lei, come una futura, brava sartina doveva presentarsi.    

Ma se non poteva assecondare il suo sogno, ostinatamente e con quel piglio libertino che covava sotto l’umile ubbidienza, decise che  avrebbe  coltivato la sua passione per la lettura in privato. Nei ritagli di tempo e nei pochi momenti liberi, messe da parte le questioni sartoriali ed accantonate quelle familiari, si  tuffava con animo bramoso  nel regno delle parole, beandosi  delle poetiche immagini di alcuni racconti e lasciando che  qualche idilliaca   suggestione   le  rinfrancasse  il cuore e la mente. Racimolate le scarse mance correva ad investirle nell’unico negozio  del paese che, per via della stessa  dedizione  del proprietario, disponeva di un piccolo, ma sempre aggiornato scaffale di libri. Testi italiani per lo più, con qualche incursione  nella letteratura russa e  francese.

Pietro Ricami era il bottegaio. Non il classico pizzicagnolo dalla guance rubizze, gli occhi volpini, la pancia prominente e la parlantina svelta di chi riuscirebbe a vendere anche l’invendibile. Tutt’altro. Un giovane uomo  mite e taciturno, poco più che trentenne, prestato al commercio obtorto collo dopo la morte del padre, che dietro una composta timidezza, quasi una voluta ritrosia, celava  una profonda cultura ed un animo dolce.

“ Non è il caso di pensare alla dote , invece di sprecare soldi in frottole?” questionava la madre, tutta pragmatismo e sostanza, ogni  volta che la vedeva con gli occhi trasognati, persa tra le righe di un libro.

Ma il   corredo, cui pensava la ragazzina, era di tutt’altra stoffa.

Perché i  suoi pensieri, ingordi di cultura,  ricorrevano a  quel patrimonio di volumi che  aveva ammirato a bocca spalancata e con il cuore al trotto un pomeriggio, a quella  libreria alta sino al soffitto e che occupava tre pareti della sala del signor Pietro, a quel regno magico dove finzione e realtà, come magneti,  catalizzavano tutto il suo  interesse.

L’incontro, il primo, fu per lavoro.

Doveva  consegnargli un paio di calzoni nuovi per conto della titolare.

  Ma prego, accomodati”.

Fu l’invito che le aprì un mondo e che sancì l’inizio di un lungo, tenero rapporto confidenziale,  l’alba di un sodalizio singolare, sentimentale e spirituale insieme, che li tenne uniti per tutta la vita.

“Ma…sono…tutti suoi?”, balbettò Luisa con  stupore epifanico, sgranando le iridi e rimanendo immobile come una statua di gesso davanti a tutti quei tomi.

“ Mi puoi dare del tu, se ti va, visto che ami i libri quanto me ”, le  rispose affabilmente e con il cuore in mano.

Di fronte a quell’innocente, pura  meraviglia e  al dispiegarsi di una affinità elettiva, inaspettata quanto salvifica, ad una sentita condivisione  di valori, Pietro si  lasciò andare.

Fu come il dischiudersi di un bocciolo ai primi tepori primaverili,  l’ouverture di una sinfonia che si aprì  piano  su un   totale, sincero e disincantato abbandono,  per poi dispiegarsi, negli anni, tra toni  allegri   e cupi ed  i vari virtuosismi e le difficoltà di una relazione tanto  speciale quanto unica. Ed anche  prevedibilmente osteggiata.

Dalla famiglia di lei, in primis.

Impensabile una frequentazione con uomo del doppio dell’età della figlia, schivo e taciturno, un sognatore perso nelle sue divagazioni letterarie e con il cruccio dell’Università non terminata.

Lui non era l’uomo giusto. Non per Luisa, ne erano convinti,  cui occorreva un giovane solido, pratico e senza grilli per la testa, qualcuno che contenesse   le  sue evasioni e  la sua  esuberanza.

Ostacolata dalla madre  e dai fratelli di lui, soprattutto. Disdicevole sarebbe stato  mischiarsi con quella famiglia  che, quanto a  ricchezza di prole e  debiti da cancellare dal  quaderno dei crediti, vantava un bel primato. Di certo, poco conveniente e rispettabile, oltre che  difficile da giustificare ai tanti amici benestanti che di fruttuose speculazioni economiche  avevano fiuto. E quello, a loro,  sarebbe di certo parso un cattivo affare.

Ma esistono legami e relazioni indissolubili ed indistruttibili, che sopravvivono oltre le forzature, e da quelle  spesso traggono vigore, al di là delle barriere ideologiche e culturali e che si nutrono della stessa sostanza dei sogni.

Vincoli   che hanno la tenacia e la perseveranza  dalla loro.

Resistettero Luisa e Pietro, con difficoltà, ma resistettero  a dispetto di tutti,  delle   convenzioni e  dei pregiudizi: lei, la sartina sognatrice, lui il bottegaio letterato. 

Il loro nido d’incontri e d’amore fugace fu per alcuni anni  una piccola biblioteca di un paese vicino, coi  libri a far da cornice ai loro sguardi voluttuosi, a solleticare la vivida  curiosità  e  le poesie a far vibrare le corde della sensibilità, a  dar voce e conforto alle loro inquietudini.

“Ho scoperto questo poeta. Ascolta:

Ognuno ha una favola dentro, che non

riesce a leggere da solo. Ha bisogno di

qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto

negli occhi, la legga e gliela racconti.*

… le declamò a fior di labbra un giorno, mentre lei ad occhi chiusi ascoltava assorta.

Una bolla, la biblioteca,  in cui spazio e tempo non esistevano più, annullati dal  fondersi di anima e corpo in un comune sentire, in un percorso sensoriale e conoscitivo in cui i due  si scoprirono complici ed amanti, esuli e soli, distanti, ma uniti. E liberi di sognare, finalmente.

Passarono gli anni. Nel paese che lentamente si andava spopolando, di lavoro per lei ce ne era sempre meno. Lo trovò in città, presso una ditta che confezionava abiti maschili. Il salario, appena sufficiente a coprire le spese di un appartamentino al terzo piano di un edificio che era stato sistemato alla bell’e meglio dalle ferite della guerra, lo rimpinguava con qualche rammendo ai vicini.      

Da mattina a pomeriggio inoltrato la schiena curva sulla stoffa e le orecchie otturate dallo sferragliare della macchina da cucire. Ed i piedi a macinare kilometri sui pedali. La sera, dopo cena, la vedeva di nuovo china e con l’ago in mano. Ogni tanto alzava lo sguardo, al di là del vetro, e lasciava che lui la venisse a trovare, con  la sua voce calda ed i modi premurosi. Bastava  che le stesse accanto con le sue letture bisbigliate o anche solo in silenzio. Le bastava lui per coricarsi con il sorriso sulle labbra ed avere la spinta per alzarsi la mattina seguente. Anche quando rimase sola, molti anni dopo, lui perennemente il suo lume, il suo faro, il suo sostegno.

Pietro, imbrigliato negli affari di famiglia e nell’assistenza all’anziana madre, ancorato moralmente a quel legame di sangue  che è marchio indelebile di un’appartenenza, un imperativo morale, non se l’era sentito di cambiar vita. Non ne aveva avuto il coraggio, come pure di  sposarsi, d’altronde. E Luisa  aveva  ancora una  volta compreso, capito. Perché di accettare il volere altrui  aveva  esperienza. Eccome.

Qualche telefonata, qualche fine settimana a gioire del tempo insieme, a viversi come  desideravano, raccontandosi libri, leggendo poesie, perdendosi nei ricordi, sorseggiando un te. Di più, a loro  non occorreva, là dove la fisicità dell’assenza era  superata dalla solidità di un rapporto unico e speciale.

 

Con lentezza richiuse la porta, evitando il pesante e sordo sbatacchiare dei cardini, poi scese i gradini con passo sicuro, senza nemmeno appoggiarsi al mantello delle scale.

Schiacciò il pulsante a lato del portone d’ingresso e si ritrovò in strada. Sola e persa, come la  città deserta e fredda che  la colse nel suo ventre buio e profondo.

Sembrava non avere esitazioni nel suo incedere. Si indirizzò verso i portici, come ad inseguire un’idea, a rispettare un appuntamento, trascinando a fatica, ma con passo cadenzato, i piedi gonfi dentro ciabatte imbottite. Ogni tanto si copriva la gola arricciando i lembi della camicia da notte la cui trasparenza, alla luce dei neon, denudava  gambe diafane ed appesantite.

La scorsero due agenti di polizia, nel loro serale controllo tra le vie del centro.

 “ Signora, come si chiama?”

“ Signora, dove abita?”

Silenzio.

Li guardava senza vederli, un corpo inanimato, alla deriva da sé.

Insistettero con garbo:“ Ci scusi, ma dove sta andando?”

Un altro click e questa volta  una molla interiore  scattò, un’apertura nel vuoto stagnante  della mente, nell’oscurità in cui  lo sguardo smarrito galleggiava.

Gli  occhi spenti ed acquosi sembrarono rianimarsi.

“Pietro mi aspetta in biblioteca”, rispose finalmente Luisa indirizzando ai due un tenero sorriso.

 

*Pablo Neruda

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