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L’amore oltre
Io sono con te in ogni maledetto istante
che vuole dividerci e non ci riesce.
( Alda Merini)
La città era insolitamente deserta a quell’ora della sera.
Immersa
in una sofferta cappa di immobilismo sembrava avesse smesso di sognare, di
riempirsi il domani di progetti, di mordere la vita per gustarne ad ampi bocconi l’essenza stessa.
Ripiegata
su se stessa sopportava silente e imbronciata
le rigide imposizioni governative
sulla pandemia e tacitava gli spasmi vitali che continuavano ad ardere
sotto le ceneri di una repressa
frenesia, affidandosi alla speranza di un rapido, quanto provvido
cambiamento.
Del
dinamismo di un tempo, solo vaghi ricordi riflessi nei poster che
ancora decoravano i viali
cittadini o che occhieggiavano i pochi passanti
da qualche angolo del centro. Di invitanti spettacoli teatrali o di estive e ridanciane feste di paese non rimanevano che
stazzonate e sbiadite locandine, fermi
immagine di un passato che ritornava con poderosa violenza a rivangare i ricordi e a rintuzzare la nostalgia, quel
brivido dolceamaro che solletica la
pelle del tempo perduto.
“Neanche
un bar aperto per un caffè”, riuscì a dire Salvatore prima di inghiottire
l’ultima parola in un lungo, sonoro
sbadiglio che accompagnò chiudendo gli occhi e allungando
le braccia ben oltre il capo. Poi,
soffiò come un cavallo imbizzarrito per riprendersi dall’apatia del
momento.
“Già,
ci hanno tolto anche questa piccola certezza, sospirò sconsolato Giuliano, il
suo compagno di pattuglia, imboccando a tutta velocità, e facendo così stridere le gomme, l’arteria principale per
perlustrare per l’ennesima volta
la zona loro adibita.
“
Ehi, guaglio’, nessun inseguimento in vista, mi pare”, lo redarguì l’altro agitandogli la mano
sinistra davanti agli occhi, facendo un
po’ di teatro, come era nel suo stile.
“
Magari…Un po’ di adrenalina ci sveglierebbe, non ti pare? rispose il compagno,
un tipo tutto nervi, facendogli l’occhiolino.
Loro
abituati a bere più di una tazzina di quella miscela energizzante, soprattutto nel turno serale,
ad intavolare bizzarre e surreali conversazioni
con i baristi e più spesso con
qualche avventore un po’ su di giri e ad
intervenire per sedare risse fuori dai locali della movida, ora si ritrovavano sgomenti a
percorrere una città spettrale, muta e inerte che nella
solitudine mostrava le sue ferite aperte.
Le
poche, pochissime insegne illuminate non riuscivano a contrastare il senso palpabile della paralisi fisica e sociale. Vetrine vuote o trascurate da tempo ed una
scia di “Affittasi “ e “Vendesi”,
che si ripetevano dal centro alla periferia , acuivano il senso del vuoto e della profonda crisi economica e sociale.
Ed
i tanti catenacci attorno alle sedie ed
ai tavolini dei bar all’aperto parevano la
calzante metafora della vita improvvisamente imbrigliata
in un reticolo di limitazioni e rinunce.
Faceva
ancora freddo per essere la fine di Marzo.
Quasi che
l’Inverno volutamente ritardasse l’uscita di scena per
lasciare una decisiva
testimonianza di sé, a riprova della sua
tempra.
Il
cielo, ingrigito da giorni, minacciava pioggia e l’aria trasudava umidità
e instabilità, quasi respirasse in
sincrono quel senso di paura latente ed
inquietante, che strisciante come un
serpente, si era insinuato in ogni anfratto .
Gli
alberi, piegati da folate di un vento insidioso e dispettoso, si muovevano in modo sussiegoso al suo volere, poi con
rapide volute ritornavano imperiosi a sfidarlo e a mostrare con orgoglio i segni di una incipiente ed
attesa rinascita.
Per
le vie fogli di giornale danzavano
leggeri nell’aria, sospinti dalla mano
guantata di Eolo. Come ad inseguire i sospiri di una città in affanno, persa
tra chiusure e riprese, si posavano in
frenata sul marciapiede, dove sostavano per poco
tempo indecisi sul da farsi, infine riprendevano il proprio cammino con fare repentino,
librandosi titubanti in volo.
La
serratura stranamente si aprì al primo
scatto. Un click netto e deciso.
Come
se la manovra per far girare la chiave le
fosse tornata all’improvviso familiare.
Come
se il buio dell’ultimo periodo, che le aveva inghiottito i pensieri e messa
alla deriva, si fosse miracolosamente
diradato, riportandola alla luce di una monotona esistenza.
E
a quella gestualità che sapeva di riti
consolidati in una vita lenta e sofferta che Luisa
aveva trascinato per ottanta
primavere abbondanti.
In
eccesso, soprattutto, e mai in difetto,
in fatto di lavoro, fatica e paghe magre.
Certo un destino beffardo il suo, come spesso
ricordava sconsolata, lei che si
era affacciata alla vita il 1 Maggio e che di
feste ne aveva celebrate poche. Anzi, pochissime.
Ma,
come ripeteva con piglio deciso e
combattivo ad ogni ricorrenza,
quando ancora il vigore e la
determinazione la sostenevano e la
memoria non andava a scartamento ridotto,
“Festa dei lavoratori un corno!”
E
a ribadire il suo concetto in piazza, per la
ricorrenza, al posto di bandiere
rosse aveva per anni sventolato con vigore il suo di vessillo: mani dalle dita rattrappite e divorate dai reumatismi che alzava orgogliosa al cielo a celebrare il suo
di lavoro, quello trascorso a cucire asole, a sistemare cerniere, a
confezionare abiti, quello forzatamente
impostolo quando ancora i sogni da bambina erano tinti di rosa.
Quando nessuno in famiglia le aveva chiesto se anche lei ne avesse uno.
Dei
giochi da cortile con le amiche aveva
conservato per anni poche cartoline mentali ad acquerello e dagli angoli
rovinati, sepolte nei pertugi della memoria.
Dei
pomeriggi a casa dell’unica sarta del paese, una donnina segaligna e avida,
invece, album ed album zeppi di ricordi
a tinte cupe.
L’aveva
accompagnata la madre, un pomeriggio, quando di anni ne aveva solo nove e l’età
dell’innocenza dipinta in volto. La lasciò
sulla soglia di quella casa e al
suo destino senza tante parole, ma con un abbozzo di sorriso sulle labbra.
“
Qui imparerai un lavoro, per noi e per te ”, recitò laconica, spingendola in
avanti, quasi tra le braccia della sarta,
con un nervoso colpetto sulla schiena.
Che
quello non sarebbe stato l’unico dolore lo imparò ben presto e a sue spese.
La
mano fredda che la ghermì e la porta che
rapida si chiuse dietro di sé le troncarono sul nascere
qualsiasi ipotesi di fuga e
le recisero per sempre il fragile cordone con la spensieratezza del suo
passato. E le delimitarono, senza tante misure,
il suo presente e il futuro.
Prima
che si capacitasse del luogo in cui era finita, si ritrovò tra le mani una
pezzuola di cotone bianco ed un ago. Se li rigirò tra le dita irrigidite, poi si
guardò intorno smarrita e confusa. Che avrebbe dovuto
contare solo sulle proprie forze anche quello lo imparò velocemente e sulla
propria pelle.
Addossate
alle pareti di uno stanzone luminoso, alcune bambine, più o meno sue coetanee, stavano chine su pezzi di stoffa. Nessuna di loro,
però, si degnò di alzare lo sguardo per salutarla, tantomeno per aiutarla. Troppo impegnate a seguire le indicazioni al meglio per perdersi in convenevoli,
troppo intimorite per lasciarsi sfuggire
un cenno, preferirono continuare il loro lavoro
in un silenzio quasi religioso, rovinato solo da qualche imprecazione
a fior di labbra e dal ticchettio delle forbici.
“Apri
bene gli occhi e le orecchie.” le intimò la sarta, posizionandosi accanto a
lei.
“
Ti mostro i primi passaggi, tanto per iniziare;
come tenere l’ago, il ditale, la pezzuola e ad imbastire. Seguimi e non
distrarti, perché non amo troppo
ripetere ed il tempo è denaro.”
Luisa
osservò i suoi gesti attentamente, col
fiato corto e la paura dietro gli occhi spalancati.
“
Precisione e precisione, ricordatelo! Poi le passò l’occorrente, la guidò nei
primi movimenti, quindi la osservò al
debutto.
Al
primo inciampo, una grossolana sbavatura, le rifilò una bacchettata sulle
nocche della mano destra, un colpo secco quanto inaspettato che la fece urlare dal dolore e liberare un rivolo di urina.
“
Qui non c’è posto per i piagnoni ed i piscioni”, sentenziò la donna con voce
ferma e minacciosa, puntando gli occhi sbarrati prima sul viso paonazzo, poi sulla pozza giallognola che
si andava formando sul pavimento e di nuovo sul volto rigato della piccola.
La
sera, alla madre che aspettava impaziente il resoconto della giornata, esibì
tremante e dolorante i vari ricami sulla pezzuola, mentre tra le gambe strette nascondeva la vergogna e l’umiliazione.
Da
lei non un apprezzamento, nè un incoraggiamento. Non quella sera, nemmeno nelle
successive. Solo un lieve cenno del capo
accompagnato dalle palpebre abbassate, segno inequivocabile di un freddo,
quanto sottile, interiore compiacimento
materno. E la convinzione che la svolta impressa al destino della figlia
avrebbe prima o poi dato i suoi frutti. Per l’economia della famiglia, soprattutto, per quel nucleo
numeroso in cui ogni bocca da sfamare rappresentava un assillo quotidiano e due
braccia da impiegare un sicuro sostegno.
Più
di una volta provò la piccola a ribellarsi a quei lunghi e sofferti pomeriggi
dalla sarta, ad un’attività che non le piaceva affatto, che non le era
congeniale, ma le bastavano le mani del
padre che sfioravano la cinghia per riportarla sul sentiero già tracciato.
“
Voglio studiare e fare la maestra”, biascicava di tanto in tanto con un groppo
in gola, tenendosi stretto al petto l’abbecedario.
“
Dell’erba voglio sono pieni i giardini del re; di erba grama i nostri. Non te
lo scordare ”, sentenziava la madre imperterrita e sorda ai desideri della
figlia.
Ed
accompagnava il severo monito, scandito lentamente e con l’intonazione di
un salmo, inarcando le sopracciglia e portandosi l’indice destro davanti al naso a zittire una possibile, probabile replica.
Non
le restava allora che piangere, di nascosto
da tutti, lacrime che sapevano di
sogni infranti e di intima solitudine, di sofferenze e sacrifici a venire, di agognati spazi aperti e bramate storie da leggere, di
ambizioni schiacciate e libertà negate.
Luisa
impiegò poco a capire che non poteva. Che non poteva insistere.
In
nome di quel dito che fendeva
il suo destino e che le delimitava l’orizzonte riportandola al suo dovere di figlia e alla responsabilità che
quel ruolo comportava.
In
nome e per nome della sua famiglia che, pur rigida ed ottusa che fosse, era tutto il suo mondo.
Fu
così che terminata la quinta elementare
ed accantonata a malincuore l’immagine della maestrina dalla penna rossa, le
giornate presso la sarta diventarono appuntamenti quotidiani, un lavoro a
bottega formativo ed alquanto indispensabile. Un obbligo che, mascherato il
disappunto dietro un sorriso tirato di facciata, diligentemente la bambina
osservava appuntandosi il portaspilli al petto,
sistemandosi il metro attorno al collo ed il ditale al medio della mano
destra.
Come
ci si aspettava da lei, come una futura,
brava sartina doveva presentarsi.
Ma
se non poteva assecondare il suo sogno, ostinatamente e con quel piglio
libertino che covava sotto l’umile ubbidienza, decise che avrebbe coltivato la sua passione per la lettura in
privato. Nei ritagli di tempo e nei pochi momenti liberi, messe da parte le
questioni sartoriali ed accantonate quelle familiari, si tuffava con animo bramoso nel regno delle parole, beandosi delle poetiche immagini di alcuni racconti e lasciando
che qualche idilliaca suggestione le rinfrancasse il cuore e la mente. Racimolate le scarse
mance correva ad investirle nell’unico negozio
del paese che, per via della stessa
dedizione del proprietario,
disponeva di un piccolo, ma sempre aggiornato scaffale di libri. Testi italiani
per lo più, con qualche incursione nella
letteratura russa e francese.
Pietro
Ricami era il bottegaio. Non il classico pizzicagnolo dalla guance rubizze, gli
occhi volpini, la pancia prominente e la parlantina svelta di chi riuscirebbe a
vendere anche l’invendibile. Tutt’altro. Un giovane uomo mite e taciturno, poco più che trentenne, prestato
al commercio obtorto collo dopo la morte del padre, che dietro una composta timidezza,
quasi una voluta ritrosia, celava una
profonda cultura ed un animo dolce.
“
Non è il caso di pensare alla dote , invece di sprecare soldi in frottole?”
questionava la madre, tutta pragmatismo e sostanza, ogni volta che la vedeva con gli occhi trasognati,
persa tra le righe di un libro.
Ma
il corredo, cui pensava la ragazzina, era di
tutt’altra stoffa.
Perché
i suoi pensieri, ingordi di cultura, ricorrevano a quel patrimonio di volumi che aveva ammirato a bocca spalancata e con il
cuore al trotto un pomeriggio, a quella libreria alta sino al soffitto e che occupava
tre pareti della sala del signor Pietro, a quel regno magico dove finzione e
realtà, come magneti, catalizzavano tutto
il suo interesse.
L’incontro,
il primo, fu per lavoro.
Doveva
consegnargli un paio di calzoni nuovi
per conto della titolare.
“ Ma prego, accomodati”.
Fu
l’invito che le aprì un mondo e che sancì l’inizio di un lungo, tenero rapporto
confidenziale, l’alba di un sodalizio
singolare, sentimentale e spirituale insieme, che li tenne uniti per tutta la
vita.
“Ma…sono…tutti
suoi?”, balbettò Luisa con stupore
epifanico, sgranando le iridi e rimanendo immobile come una statua di gesso
davanti a tutti quei tomi.
“
Mi puoi dare del tu, se ti va, visto che ami i libri quanto me ”, le rispose affabilmente e con il cuore in mano.
Di
fronte a quell’innocente, pura meraviglia
e al dispiegarsi di una affinità
elettiva, inaspettata quanto salvifica, ad una sentita condivisione di valori, Pietro si lasciò andare.
Fu
come il dischiudersi di un bocciolo ai primi tepori primaverili, l’ouverture di una sinfonia che si aprì piano su
un totale, sincero e disincantato abbandono, per poi dispiegarsi, negli anni, tra toni allegri e cupi
ed i vari virtuosismi e le difficoltà di
una relazione tanto speciale quanto
unica. Ed anche prevedibilmente
osteggiata.
Dalla
famiglia di lei, in primis.
Impensabile
una frequentazione con uomo del doppio dell’età della figlia, schivo e
taciturno, un sognatore perso nelle sue divagazioni letterarie e con il cruccio
dell’Università non terminata.
Lui
non era l’uomo giusto. Non per Luisa, ne erano convinti, cui occorreva un giovane solido, pratico e
senza grilli per la testa, qualcuno che contenesse le sue evasioni e
la sua esuberanza.
Ostacolata
dalla madre e dai fratelli di lui,
soprattutto. Disdicevole sarebbe stato mischiarsi con quella famiglia che, quanto a
ricchezza di prole e debiti da
cancellare dal quaderno dei crediti, vantava
un bel primato. Di certo, poco conveniente e rispettabile, oltre che difficile da giustificare ai tanti amici
benestanti che di fruttuose speculazioni economiche avevano fiuto. E quello, a loro, sarebbe di certo parso un cattivo affare.
Ma
esistono legami e relazioni indissolubili ed indistruttibili, che sopravvivono
oltre le forzature, e da quelle spesso
traggono vigore, al di là delle barriere ideologiche e culturali e che si
nutrono della stessa sostanza dei sogni.
Vincoli
che hanno la tenacia e la
perseveranza dalla loro.
Resistettero
Luisa e Pietro, con difficoltà, ma resistettero a dispetto di tutti, delle convenzioni e
dei pregiudizi: lei, la sartina sognatrice, lui il bottegaio letterato.
Il
loro nido d’incontri e d’amore fugace fu per alcuni anni una piccola biblioteca di un paese vicino, coi
libri a far da cornice ai loro sguardi
voluttuosi, a solleticare la vivida
curiosità e le poesie a far vibrare le corde della
sensibilità, a dar voce e conforto alle
loro inquietudini.
“Ho
scoperto questo poeta. Ascolta:
Ognuno
ha una favola dentro, che non
riesce
a leggere da solo. Ha bisogno di
qualcuno
che, con la meraviglia e l’incanto
negli
occhi, la legga e gliela racconti.*
…
le declamò a fior di labbra un giorno, mentre lei ad occhi chiusi ascoltava
assorta.
Una
bolla, la biblioteca, in cui spazio e
tempo non esistevano più, annullati dal
fondersi di anima e corpo in un comune sentire, in un percorso
sensoriale e conoscitivo in cui i due si
scoprirono complici ed amanti, esuli e soli, distanti, ma uniti. E liberi di
sognare, finalmente.
Passarono
gli anni. Nel paese che lentamente si andava spopolando, di lavoro per lei ce
ne era sempre meno. Lo trovò in città, presso una ditta che confezionava abiti
maschili. Il salario, appena sufficiente a coprire le spese di un
appartamentino al terzo piano di un edificio che era stato sistemato alla
bell’e meglio dalle ferite della guerra, lo rimpinguava con qualche rammendo ai
vicini.
Da
mattina a pomeriggio inoltrato la schiena curva sulla stoffa e le orecchie
otturate dallo sferragliare della macchina da cucire. Ed i piedi a macinare
kilometri sui pedali. La sera, dopo cena, la vedeva di nuovo china e con l’ago
in mano. Ogni tanto alzava lo sguardo, al di là del vetro, e lasciava che lui
la venisse a trovare, con la sua voce
calda ed i modi premurosi. Bastava che
le stesse accanto con le sue letture bisbigliate o anche solo in silenzio. Le
bastava lui per coricarsi con il sorriso sulle labbra ed avere la spinta per
alzarsi la mattina seguente. Anche quando rimase sola, molti anni dopo, lui perennemente
il suo lume, il suo faro, il suo sostegno.
Pietro,
imbrigliato negli affari di famiglia e nell’assistenza all’anziana madre,
ancorato moralmente a quel legame di sangue
che è marchio indelebile di un’appartenenza, un imperativo morale, non
se l’era sentito di cambiar vita. Non ne aveva avuto il coraggio, come pure di sposarsi, d’altronde. E Luisa aveva ancora una volta compreso, capito. Perché di accettare il
volere altrui aveva esperienza. Eccome.
Qualche
telefonata, qualche fine settimana a gioire del tempo insieme, a viversi
come desideravano, raccontandosi libri, leggendo
poesie, perdendosi nei ricordi, sorseggiando un te. Di più, a loro non occorreva, là dove la fisicità
dell’assenza era superata dalla solidità
di un rapporto unico e speciale.
Con
lentezza richiuse la porta, evitando il pesante e sordo sbatacchiare dei
cardini, poi scese i gradini con passo sicuro, senza nemmeno appoggiarsi al
mantello delle scale.
Schiacciò
il pulsante a lato del portone d’ingresso e si ritrovò in strada. Sola e persa,
come la città deserta e fredda che la colse nel suo ventre buio e profondo.
Sembrava
non avere esitazioni nel suo incedere. Si indirizzò verso i portici, come ad
inseguire un’idea, a rispettare un appuntamento, trascinando a fatica, ma con
passo cadenzato, i piedi gonfi dentro ciabatte imbottite. Ogni tanto si copriva
la gola arricciando i lembi della camicia da notte la cui trasparenza, alla
luce dei neon, denudava gambe diafane ed
appesantite.
La
scorsero due agenti di polizia, nel loro serale controllo tra le vie del
centro.
“ Signora, come si chiama?”
“
Signora, dove abita?”
Silenzio.
Li
guardava senza vederli, un corpo inanimato, alla deriva da sé.
Insistettero
con garbo:“ Ci scusi, ma dove sta andando?”
Un
altro click e questa volta una molla
interiore scattò, un’apertura nel vuoto
stagnante della mente, nell’oscurità in
cui lo sguardo smarrito galleggiava.
Gli occhi spenti ed acquosi sembrarono
rianimarsi.
“Pietro
mi aspetta in biblioteca”, rispose finalmente Luisa indirizzando ai due un
tenero sorriso.
*Pablo
Neruda
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