sabato 24 giugno 2023

Elisa Marchinetti - Noceto di Parma - Vincitrice sezione prose

 

FREDDO  E’  IL  SELCIATO

I.

Un sibilo tagliente, come una frustata inaspettata, sbeffeggiò l’aria.

Poi un tonfo. 

Un fragore secco e pieno, neanche tanto roboante, uno schiaffo sonoro, inghiottito  nel silenzio serale  e umido del cortiletto interno, seguito da un rimbalzo appena percettibile. E da  una nuvola di polvere che, fine come i capelli del volto a terra,  si sollevò dall’impiantito  e circondò il corpo, quasi a proteggerlo.

Come  uno scudo, dall’infamia e dal peccato. Pure dalla vergogna di un’infanzia tradita e vituperata, stuprata dei giorni a venire, lieti ed innocenti, come gli occhi della bambola che sorridente accanto a quel corpo, dalle membra ormai flaccide e scomposte,  giaceva.  Una  in posizione  prona, con  il peso spostato sul fianco destro, la schiena un poco ricurva, le gambe appena sovrapposte  e  la testa reclinata  leggermente di lato; l’altra supina, con le braccia piegate e ancora protese verso l’alto, come ad indicare lo  spasimo di un abbraccio mancato, l’affetto a lungo cercato e malamente respinto. O, forse,  l’ultimo piano,  il luogo dell’orrore  e del misfatto, l’inferno di una breve  esistenza.

Su entrambe la bocca sembrava  trattenere un tiepido sorriso. Più smorzato quello della piccola, con le labbra semiaperte da cui s’intravedeva una dentatura irregolare; poco più accentuato l’altro, su una boccuccia   di rosso smaccatamente truccata.

Più o meno dello stesso  colore  carminio della pozza densa e torbida  che andava  lentamente formandosi  sotto il capo della bambina e che avanzava inzaccherandole la maglietta, un trionfo  spudorato di toni accesi su sfondo chiaro.

Una chiazza che sembrava più viva  al bagliore tremolante dei tre  lampioni posti agli angoli interni del caseggiato. Il quarto, non funzionante  da tempo, un moncone inerte ed inutile, permeava di mistero  lo spazio ad esso adibito.

Un motivetto allegro, stucchevole nella sua briosità e stridente nella tragicità del momento, un afflato di vitalità al cospetto della morte, lacerava l’etere ed acuiva il senso della disgrazia. Gracchiava un po’ sull’incipit, poi si riprendeva, senza soluzione di continuità, giacchè il contraccolpo ne aveva  rovinato  il meccanismo interno. Proveniva dal giocattolo, rimasto fedele al suo ruolo consolatorio e di compagno d’avventure.

“La bam- bam- bam-bola Dolly si alza tutte le mattine con te, gioca con te, ride con te,dorme con te… La bam- bam- bam-bola Dolly si alza tutte le mattine con te, gioca con te, ride con te,dorme con te…”

Lì, sul freddo selciato, quella previsione di gioia condivisa si era frantumata, inghiottita nel buio che cancella ed intimorisce, nel silenzio che nasconde e tacita, nel mistero della notte  che imprigiona ed allontana. Ma soprattutto, nel disprezzo di chi  quella vita non l’aveva difesa.

Una scarpina rosa, poco più grande di un pugno, era volata a qualche metro di distanza, quasi sotto i balconi interni del caseggiato. Un gatto, magro e spelacchiato, che stazionava   tra gli anfratti dello stabile,  ci si  avvicinò curioso, l’annusò con fare sbrigativo, poi si dileguò svelto, la coda molle tra le zampe.

II.

Di nascondigli l’animale non aveva che un’ampia scelta  nel cortile di quell’edificio a tre piani, a pochi passi dal centro storico. Costruito sul modello delle case di ringhiera  aveva nel corso degli anni cambiato il suo aspetto ed identità, malamente dissimulando con una passata di colore sulla facciata esterna  lo stato d’abbandono in cui versava.

Ora era un bazar a cielo aperto che ospitava scatoloni ammassati alle pareti, elettrodomestici guasti impilati uno sull’altro, assi di legno e biciclette prive di cerchioni. E lenzuola e teli colorati tesi sui ballatoi  ai piani superiori a separare spazi angusti e angoli d’intimità, più che a unire gli occupanti sotto la  bandiera della  pluralità e della convivenza, pur nella precarietà della situazione. Un’umanità variegata, un’accozzaglia di etnie e idiomi, un bestiario di odori  pungenti e  suoni articolati che sulla sorda e cieca indifferenza faceva leva per la propria quotidiana sopravvivenza.  Perché, in fondo, per buona parte di loro  di quello si trattava: un trascinare lento e faticoso i giorni, tra tribolazioni ed affanni,  perennemente  in bilico tra le insidie del presente e le scarse prospettive del futuro e con il fiato della paura dell’altro sempre appiccicato addosso. Quella sensazione viscida che s’insinua sotto pelle, scardina  e mina le  deboli certezze e le  riveste di subdola insicurezza.

Così che  ognuno, con fredda apatia  e calcolata insensibilità, nella difesa della propria incolumità, disdegnava le questioni altrui, e volutamente schivava ogni possibile miccia, tenendosi  rispettosamente e cautamente  alla larga da qualsiasi scaramuccia condominiale o lite familiare.

E allora  agli occhi che vedono pur nel rapido batter di ciglia, alle orecchie che odono pur nell’attutita  assenza di suoni, alle narici che fiutano impercettibili sentori  tra i miasmi giornalieri nulla era concesso, se non il muro dell’omertoso  silenzio.

“ Chiuso l’uscio di casa, chiuso il mondo fuori ”, recitava puntuale Santiago ai suoi figli la sera, dopo aver dato tre giri di chiave.

Non soddisfatto, lo bloccava  con un catenaccio, arrugginito e scrostato in più punti,   che lui stesso aveva acquistato e montato. Poi, ad estrema difesa, ci  spingeva contro  una cassapanca.

“Così è meglio”, aggiungeva, facendo loro l’occhiolino. E, talvolta, per stemperare il momento, li invitava con un ampio gesto della mano  a sedercisi sopra.

La moglie, che  in disparte ne scrutava le mosse, chinava complice  il capo. Il volto teso, dai tratti induriti precocemente, parlava per lei. Di sacrifici e di rinunce continue, di sogni infranti e di labili prospettive cui aggrapparsi da quando in tutta fretta avevano lasciato l’Honduras ed iniziato un nuovo capitolo di vita in Italia.

Qualche lavoretto saltuario per lei ed impieghi sempre illegali e al limite della sicurezza per lui il terreno incerto e friabile su cui avevano costruito giorno per giorno il loro orizzonte familiare. Con  la  promessa di un’assunzione regolare a tener viva la tremula fiammella della speranza.

III.

La convivenza in quel caseggiato sin da subito si era dimostrata difficile.

Le liti continue, di giorno e di notte,  i traffici illeciti di alcuni  immigrati clandestini e le  retate improvvise della polizia avevano spinto Santiago e la sua famiglia a limitare i rapporti con i condomini.

“Un cenno di saluto, leggero mi raccomando, e sguardo basso”, la litania  che l’uomo, con tono greve e  deciso,  recitava puntualmente ogni mattina. Un  monito dal tono militaresco  che non lasciava spazio a repliche, né a richieste di spiegazioni.

“Sì, papi”,  recitavano all’unisono i piccoli, schierati in ordine d’altezza davanti a lui. Con il pollice della mano destra alzato ed una strizzatina d’occhi, più o meno riuscita, a suggellare  la loro promessa.

Muta e impassibile, invece,  la figlia quindicenne. Non un battito di ciglia, tanto meno un cenno d’assenso.  Gli occhi scuri e volitivi reggevano impettiti e fieri lo sguardo paterno. Due spilli acuminati che ribollivano di sano fermento adolescenziale, di quel  gusto per la sfida che sapeva di  contrasti e battibecchi, di   prolungati silenzi  e repentine  riappacificazioni. Ma, soprattutto, di spasmi di  agognata libertà  tra  obblighi ed imposizioni.

Come quello di non salutare il vicino di casa, diventato il chiodo fisso del padre.

Quel giovane  tunisino dai riccioli voluttuosi  e sempre luccicanti di gel, la barba incolta, ma non troppo trascurata, e  gli occhi  cobalto venati di pietruzze giallognole,  che anziché guardare, penetravano senza lasciare scampo.

“ Ha lo sguardo  di un serpente velenoso, quello”, sibilava Santiago a denti stretti e con la  mascella serrata.

“Lui  si  chiama   H a m i d”, papà, sillabava piccata la ragazza, mentre una farfalla le  si alzava in volo nello stomaco e un cenno di sorriso, una virgola appena accennata, le illuminava il volto.

A quel  nome i  rimandi esplodevano in tutta la  loro intensità. Lui,  che  sulla porta di casa, la fissava con la sigaretta tra le dita e lo sguardo trasognato ed ammiccante, perso  tra le volute di  fumo,  lui e la sua  bocca sensuale ed invitante capace di farle sciogliere qualsiasi riserva, lui e la sua voce roca, ma avvolgente, in grado di rapirla anche con un semplice saluto. Lui e la galanteria con cui accennava alla sua pur tiepida, virginale  femminilità.

Ma a Santiago nulla di quell’uomo piaceva. L’ozio accidioso  in cui si perdeva da mattina a sera, la combriccola di tipi sinistri che riceveva a casa, i traffici non del tutto limpidi che gestiva  al cellulare e quegli sguardi  furtivi e lascivi che lanciava alla figlia.

Ma erano, soprattutto,  i  modi arroganti e violenti che riservava alla compagna e alla figlioletta  che lo mettevano in allarme.

IV.

Più di una volta alle minacce di lui e alle urla di lei erano seguite botte e lanci d’oggetti. Una sinfonia di toni acuti e  tonfi improvvisi  che si mischiava al pianto incessante e lamentoso della piccola e che raggiungeva il climax con la petulante canzoncina della sua bambola.

“Falle smettere, altrimenti ci penso io”, schiumava di rabbia Hamid, con le vene del collo ingrossate e le pupille dilatate, mentre un filo di bava gli colava lungo il mento, imperlandogli il pizzetto.

I bambini non gli erano mai piaciuti. Troppo ingombranti e snervanti, con le  loro continue  richieste di cure e attenzioni. Non era da lui perdere tempo prezioso con una mocciosa  sempre impiastricciata di pappina e col naso imbrattato di muco. Non era per lui sottrarre tempo ai suoi affari per sdraiarsi a terra ed inventare giochi  e moine, quando la madre era al lavoro.

“ Portala al nido o con te !”, ringhiava, allungandole in tutt’uno la piccola e il giocattolo, quasi un pacco indesiderato, non appena la donna, sfinita  dopo ore a lavare piatti in una trattoria,  varcava la porta.

“ Potessi…”, sussurrava  a denti stretti e capo chino, mentre gli occhi, seppur spenti, rifulgevano alla visione e al contatto con la figlia.

Di più non aggiungeva. A difesa sua e della piccola.

 Le volte che aveva osato replicare, srotolandogli la difficile situazione economica in cui versavano,  ancora pulsavano come lucide memorie  di rabbiose reazioni, verbali e fisiche. Uno sfoggio di improperi e volgari epiteti  che culminavano  quasi sempre  con una gragnuola di schiaffi e pugni, a sancire la sua maschile, mascolina, presunta superiorità.  Le bastava far  scorrere le dita sulla pelle ispessita delle cicatrici  o coprire con un velo di fard gli ultimi  lividi per riconoscere sul suo corpo il cimitero delle sue sconfitte. E l’abisso in cui stava lentamente precipitando.

Eppure l’Hamid che lei aveva conosciuto era diverso.

Tenero e complice e al contempo scanzonato e malandrino, con quelle ombreggiature  a metà fra l’enigmatico ed il  guascone  che tanto le piacevano in un uomo, e l’abilità di sapersela cavare, sempre e ovunque, con ampio sfoggio di  sfrontatezza e spavalderia.

 Ma anche sagace, con quelle battute  spiritose accompagnate da una  risata argentina con cui, talvolta, sottolineava  la sua ingenuità  ed inadeguatezza. E passionale, eccome, capace di farle toccare i vertici del piacere come nessuno mai prima.

“ E’ torbido come il fango”,  sentenziò suo padre la prima volta che lo vide.

“ E…”. Avrebbe voluto aggiungere che  non era l’uomo adatto per lei, ma la figlia gli aveva già girato le spalle.

“ Sei il solito razzista!”

Dietro un ostinato e prolungato mutismo si trincerò, invece, sua madre per nascondere  il proprio disappunto e il disonore, bruciante come carne viva appena scottata.

Ora quei campanelli d’allarme non colti bussavano alla sua fragile, frantumata identità e le tamburellavano la coscienza.

V.

Da giorni Hamid era irascibile e scontroso. Si muoveva frenetico e sospettoso, una belva esausta ed accerchiata, lo sguardo incupito e gli occhi, iniettati di sangue, saettanti e sfuggenti. Due braci infuocati, bordati da aloni violacei, che spiccavano  sul  volto sempre più smunto ed emaciato.

Il corpo, attraversato da un tremolio costante,sembrava non trovar  pace in nessuna posizione. Le mani lunghe ed ossute ghermivano una  canna dopo l’altra e la bocca, avida e corrucciata,  ne aspirava famelica l’aroma. Un colpo di tosse, violento e tenace, di tanto in tanto, gli scuoteva il torace  e lo costringeva a piegarsi in due.

E insieme al fumo, acre e pungente,  sputava fuori anche l’anima intossicata.

Il telefono aveva improvvisamente smesso di suonare e il  silenzio degli affari persi lo aveva gettato in uno stato  di profonda  inquietudine.  Tutta colpa di quella  partita di marijuana tagliata male che insiemi ai suoi complici, fatti della stessa ingordigia che nutre il male,  aveva spacciato e delle soffiate giunte alle orecchie della polizia.

Come braccato e in preda ai propri fantasmi correva al ballatoio,  gettava  un rapido sguardo  all’entrata  dello stabile da dietro un pilastro, poi rientrava, spalle  chiuse a riccio, la testa bassa, e le mani nervose sui tasti del cellulare.

Che l’aria si fosse fatta elettrica e pesante, satura di negatività, Santiago l’aveva percepito. Dal tramestio incessante di Hamid, dalle continue e accese discussioni con la compagna e dal pianto convulso della piccola, un lamento di paura che s’accordava agli acuti degli adulti. Persino i sospiri  attraversavano le pareti divisorie degli appartamenti, fragili come carta velina.

“ Scendo in farmacia per comprare la tachipirina. Starò fuori poco”, aggiunse  la donna senza distogliere  lo sguardo dalla figlia che,  con le gote in fiamme, frignava sul divano. Tra le braccia la bambola continuava, imperterrita ed ignara, a gracchiare.   

Bastò quel tempo. Il tempo del blackout, di un corto circuito, perché il buio dell’anima in cui  si agitavano i suoi demoni lo inghiottisse, perché il baratro dell’ incoscienza lo risucchiasse,perché la vita sfociasse nel suo contrario.

Un gesto rapido e deciso, uno scatto felino, la liberazione da un’ossessione E d’improvviso fu silenzio.

Repentino e dissonante, quanto ingombrante e perturbante, un’assenza di rumori che deflagrò in un sospetto.

Gli era parso d’aver udito qualcosa. Santiago trattenne il respiro, poi si sporse dal balconcino e là, sul freddo selciato, lasciò gli occhi.

 

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