FREDDO E’ IL
SELCIATO
I.
Un
sibilo tagliente, come una frustata inaspettata, sbeffeggiò l’aria.
Poi
un tonfo.
Un
fragore secco e pieno, neanche tanto roboante, uno schiaffo sonoro,
inghiottito nel silenzio serale e umido del cortiletto interno, seguito da un
rimbalzo appena percettibile. E da una
nuvola di polvere che, fine come i capelli del volto a terra, si sollevò dall’impiantito e circondò il corpo, quasi a proteggerlo.
Come uno scudo, dall’infamia e dal peccato. Pure
dalla vergogna di un’infanzia tradita e vituperata, stuprata dei giorni a
venire, lieti ed innocenti, come gli occhi della bambola che sorridente accanto
a quel corpo, dalle membra ormai flaccide e scomposte, giaceva. Una in
posizione prona, con il peso spostato sul fianco destro, la schiena
un poco ricurva, le gambe appena sovrapposte e la
testa reclinata leggermente di lato;
l’altra supina, con le braccia piegate e ancora protese verso l’alto, come ad
indicare lo spasimo di un abbraccio
mancato, l’affetto a lungo cercato e malamente respinto. O, forse, l’ultimo piano, il luogo dell’orrore e del misfatto, l’inferno di una breve esistenza.
Su
entrambe la bocca sembrava trattenere un
tiepido sorriso. Più smorzato quello della piccola, con le labbra semiaperte da
cui s’intravedeva una dentatura irregolare; poco più accentuato l’altro, su una
boccuccia di rosso smaccatamente truccata.
Più
o meno dello stesso colore carminio della pozza densa e torbida che andava
lentamente formandosi sotto il
capo della bambina e che avanzava inzaccherandole la maglietta, un trionfo spudorato di toni accesi su sfondo chiaro.
Una
chiazza che sembrava più viva al
bagliore tremolante dei tre lampioni
posti agli angoli interni del caseggiato. Il quarto, non funzionante da tempo, un moncone inerte ed inutile, permeava
di mistero lo spazio ad esso adibito.
Un
motivetto allegro, stucchevole nella sua briosità e stridente nella tragicità
del momento, un afflato di vitalità al cospetto della morte, lacerava l’etere
ed acuiva il senso della disgrazia. Gracchiava un po’ sull’incipit, poi si
riprendeva, senza soluzione di continuità, giacchè il contraccolpo ne aveva rovinato
il meccanismo interno. Proveniva dal giocattolo, rimasto fedele al suo
ruolo consolatorio e di compagno d’avventure.
“La bam- bam- bam-bola Dolly si alza
tutte le mattine con te, gioca con te, ride con te,dorme con te… La bam- bam-
bam-bola Dolly si alza tutte le mattine con te, gioca con te, ride con te,dorme
con te…”
Lì,
sul freddo selciato, quella previsione di gioia condivisa si era frantumata,
inghiottita nel buio che cancella ed intimorisce, nel silenzio che nasconde e
tacita, nel mistero della notte che
imprigiona ed allontana. Ma soprattutto, nel disprezzo di chi quella vita non l’aveva difesa.
Una
scarpina rosa, poco più grande di un pugno, era volata a qualche metro di
distanza, quasi sotto i balconi interni del caseggiato. Un gatto, magro e
spelacchiato, che stazionava tra gli anfratti dello stabile, ci si
avvicinò curioso, l’annusò con fare sbrigativo, poi si dileguò svelto,
la coda molle tra le zampe.
II.
Di
nascondigli l’animale non aveva che un’ampia scelta nel cortile di quell’edificio a tre piani, a
pochi passi dal centro storico. Costruito sul modello delle case di ringhiera aveva nel corso degli anni cambiato il suo
aspetto ed identità, malamente dissimulando con una passata di colore sulla
facciata esterna lo stato d’abbandono in
cui versava.
Ora
era un bazar a cielo aperto che ospitava scatoloni ammassati alle pareti,
elettrodomestici guasti impilati uno sull’altro, assi di legno e biciclette prive
di cerchioni. E lenzuola e teli colorati tesi sui ballatoi ai piani superiori a separare spazi angusti e
angoli d’intimità, più che a unire gli occupanti sotto la bandiera della pluralità e della convivenza, pur nella
precarietà della situazione. Un’umanità variegata, un’accozzaglia di etnie e
idiomi, un bestiario di odori pungenti e
suoni articolati che sulla sorda e cieca
indifferenza faceva leva per la propria quotidiana sopravvivenza. Perché, in fondo, per buona parte di loro di quello si trattava: un trascinare lento e
faticoso i giorni, tra tribolazioni ed affanni, perennemente
in bilico tra le insidie del presente e le scarse prospettive del futuro
e con il fiato della paura dell’altro sempre appiccicato addosso. Quella
sensazione viscida che s’insinua sotto pelle, scardina e mina le deboli certezze e le riveste di subdola insicurezza.
Così
che ognuno, con fredda apatia e calcolata insensibilità, nella difesa della
propria incolumità, disdegnava le questioni altrui, e volutamente schivava ogni
possibile miccia, tenendosi
rispettosamente e cautamente alla
larga da qualsiasi scaramuccia condominiale o lite familiare.
E
allora agli occhi che vedono pur nel
rapido batter di ciglia, alle orecchie che odono pur nell’attutita assenza di suoni, alle narici che fiutano
impercettibili sentori tra i miasmi
giornalieri nulla era concesso, se non il muro dell’omertoso silenzio.
“
Chiuso l’uscio di casa, chiuso il mondo fuori ”, recitava puntuale Santiago ai
suoi figli la sera, dopo aver dato tre giri di chiave.
Non
soddisfatto, lo bloccava con un
catenaccio, arrugginito e scrostato in più punti, che lui
stesso aveva acquistato e montato. Poi, ad estrema difesa, ci spingeva contro una cassapanca.
“Così
è meglio”, aggiungeva, facendo loro l’occhiolino. E, talvolta, per stemperare
il momento, li invitava con un ampio gesto della mano a sedercisi sopra.
La
moglie, che in disparte ne scrutava le
mosse, chinava complice il capo. Il
volto teso, dai tratti induriti precocemente, parlava per lei. Di sacrifici e
di rinunce continue, di sogni infranti e di labili prospettive cui aggrapparsi
da quando in tutta fretta avevano lasciato l’Honduras ed iniziato un nuovo
capitolo di vita in Italia.
Qualche
lavoretto saltuario per lei ed impieghi sempre illegali e al limite della
sicurezza per lui il terreno incerto e friabile su cui avevano costruito giorno
per giorno il loro orizzonte familiare. Con la
promessa di un’assunzione regolare a tener viva la tremula fiammella
della speranza.
III.
La
convivenza in quel caseggiato sin da subito si era dimostrata difficile.
Le
liti continue, di giorno e di notte, i
traffici illeciti di alcuni immigrati
clandestini e le retate improvvise della
polizia avevano spinto Santiago e la sua famiglia a limitare i rapporti con i
condomini.
“Un
cenno di saluto, leggero mi raccomando, e sguardo basso”, la litania che l’uomo, con tono greve e deciso,
recitava puntualmente ogni mattina. Un monito dal tono militaresco che non lasciava spazio a repliche, né a
richieste di spiegazioni.
“Sì,
papi”, recitavano all’unisono i piccoli,
schierati in ordine d’altezza davanti a lui. Con il pollice della mano destra
alzato ed una strizzatina d’occhi, più o meno riuscita, a suggellare la loro promessa.
Muta
e impassibile, invece, la figlia
quindicenne. Non un battito di ciglia, tanto meno un cenno d’assenso. Gli occhi scuri e volitivi reggevano impettiti
e fieri lo sguardo paterno. Due spilli acuminati che ribollivano di sano
fermento adolescenziale, di quel gusto
per la sfida che sapeva di contrasti e
battibecchi, di prolungati silenzi e repentine
riappacificazioni. Ma, soprattutto, di spasmi di agognata libertà tra
obblighi ed imposizioni.
Come
quello di non salutare il vicino di casa, diventato il chiodo fisso del padre.
Quel
giovane tunisino dai riccioli
voluttuosi e sempre luccicanti di gel, la
barba incolta, ma non troppo trascurata, e
gli occhi cobalto venati di
pietruzze giallognole, che anziché
guardare, penetravano senza lasciare scampo.
“
Ha lo sguardo di un serpente velenoso,
quello”, sibilava Santiago a denti stretti e con la mascella serrata.
“Lui
si chiama H a m i d”, papà, sillabava piccata la
ragazza, mentre una farfalla le si
alzava in volo nello stomaco e un cenno di sorriso, una virgola appena
accennata, le illuminava il volto.
A
quel nome i rimandi esplodevano in tutta la loro intensità. Lui, che sulla porta di casa, la fissava con la
sigaretta tra le dita e lo sguardo trasognato ed ammiccante, perso tra le volute di fumo,
lui e la sua bocca sensuale ed
invitante capace di farle sciogliere qualsiasi riserva, lui e la sua voce roca,
ma avvolgente, in grado di rapirla anche con un semplice saluto. Lui e la
galanteria con cui accennava alla sua pur tiepida, virginale femminilità.
Ma
a Santiago nulla di quell’uomo piaceva. L’ozio accidioso in cui si perdeva da mattina a sera, la
combriccola di tipi sinistri che riceveva a casa, i traffici non del tutto limpidi
che gestiva al cellulare e quegli
sguardi furtivi e lascivi che lanciava
alla figlia.
Ma
erano, soprattutto, i modi arroganti e violenti che riservava alla
compagna e alla figlioletta che lo
mettevano in allarme.
IV.
Più
di una volta alle minacce di lui e alle urla di lei erano seguite botte e lanci
d’oggetti. Una sinfonia di toni acuti e tonfi improvvisi che si mischiava al pianto incessante e
lamentoso della piccola e che raggiungeva il climax con la petulante canzoncina
della sua bambola.
“Falle
smettere, altrimenti ci penso io”, schiumava di rabbia Hamid, con le vene del
collo ingrossate e le pupille dilatate, mentre un filo di bava gli colava lungo
il mento, imperlandogli il pizzetto.
I
bambini non gli erano mai piaciuti. Troppo ingombranti e snervanti, con le loro continue
richieste di cure e attenzioni. Non era da lui perdere tempo prezioso
con una mocciosa sempre impiastricciata
di pappina e col naso imbrattato di muco. Non era per lui sottrarre tempo ai
suoi affari per sdraiarsi a terra ed inventare giochi e moine, quando la madre era al lavoro.
“
Portala al nido o con te !”, ringhiava, allungandole in tutt’uno la piccola e
il giocattolo, quasi un pacco indesiderato, non appena la donna, sfinita dopo ore a lavare piatti in una trattoria, varcava la porta.
“
Potessi…”, sussurrava a denti stretti e
capo chino, mentre gli occhi, seppur spenti, rifulgevano alla visione e al
contatto con la figlia.
Di
più non aggiungeva. A difesa sua e della piccola.
Le volte che aveva osato replicare,
srotolandogli la difficile situazione economica in cui versavano, ancora pulsavano come lucide memorie di rabbiose reazioni, verbali e fisiche. Uno
sfoggio di improperi e volgari epiteti che culminavano quasi sempre
con una gragnuola di schiaffi e pugni, a sancire la sua maschile,
mascolina, presunta superiorità. Le
bastava far scorrere le dita sulla pelle
ispessita delle cicatrici o coprire con
un velo di fard gli ultimi lividi per
riconoscere sul suo corpo il cimitero delle sue sconfitte. E l’abisso in cui
stava lentamente precipitando.
Eppure
l’Hamid che lei aveva conosciuto era diverso.
Tenero
e complice e al contempo scanzonato e malandrino, con quelle ombreggiature a metà fra l’enigmatico ed il guascone che tanto le piacevano in un uomo, e l’abilità
di sapersela cavare, sempre e ovunque, con ampio sfoggio di sfrontatezza e spavalderia.
Ma anche sagace, con quelle battute spiritose accompagnate da una risata argentina con cui, talvolta,
sottolineava la sua ingenuità ed inadeguatezza. E passionale, eccome,
capace di farle toccare i vertici del piacere come nessuno mai prima.
“
E’ torbido come il fango”, sentenziò suo
padre la prima volta che lo vide.
“
E…”. Avrebbe voluto aggiungere che non
era l’uomo adatto per lei, ma la figlia gli aveva già girato le spalle.
“
Sei il solito razzista!”
Dietro
un ostinato e prolungato mutismo si trincerò, invece, sua madre per
nascondere il proprio disappunto e il
disonore, bruciante come carne viva appena scottata.
Ora
quei campanelli d’allarme non colti bussavano alla sua fragile, frantumata identità
e le tamburellavano la coscienza.
V.
Da
giorni Hamid era irascibile e scontroso. Si muoveva frenetico e sospettoso, una
belva esausta ed accerchiata, lo sguardo incupito e gli occhi, iniettati di
sangue, saettanti e sfuggenti. Due braci infuocati, bordati da aloni violacei,
che spiccavano sul volto sempre più smunto ed emaciato.
Il
corpo, attraversato da un tremolio costante,sembrava non trovar pace in nessuna posizione. Le mani lunghe ed ossute
ghermivano una canna dopo l’altra e la
bocca, avida e corrucciata, ne aspirava famelica
l’aroma. Un colpo di tosse, violento e tenace, di tanto in tanto, gli scuoteva
il torace e lo costringeva a piegarsi in
due.
E
insieme al fumo, acre e pungente, sputava fuori anche l’anima intossicata.
Il
telefono aveva improvvisamente smesso di suonare e il silenzio degli affari persi lo aveva gettato
in uno stato di profonda inquietudine.
Tutta colpa di quella partita di
marijuana tagliata male che insiemi ai suoi complici, fatti della stessa ingordigia
che nutre il male, aveva spacciato e
delle soffiate giunte alle orecchie della polizia.
Come
braccato e in preda ai propri fantasmi correva al ballatoio, gettava
un rapido sguardo
all’entrata dello stabile da
dietro un pilastro, poi rientrava, spalle chiuse a riccio, la testa bassa, e le mani
nervose sui tasti del cellulare.
Che
l’aria si fosse fatta elettrica e pesante, satura di negatività, Santiago l’aveva
percepito. Dal tramestio incessante di Hamid, dalle continue e accese discussioni
con la compagna e dal pianto convulso della piccola, un lamento di paura che
s’accordava agli acuti degli adulti. Persino i sospiri attraversavano le pareti divisorie degli
appartamenti, fragili come carta velina.
“
Scendo in farmacia per comprare la tachipirina. Starò fuori poco”, aggiunse la donna senza distogliere lo sguardo dalla figlia che, con le gote in fiamme, frignava sul divano.
Tra le braccia la bambola continuava, imperterrita ed ignara, a gracchiare.
Bastò
quel tempo. Il tempo del blackout, di un corto circuito, perché il buio
dell’anima in cui si agitavano i suoi
demoni lo inghiottisse, perché il baratro dell’ incoscienza lo
risucchiasse,perché la vita sfociasse nel suo contrario.
Un
gesto rapido e deciso, uno scatto felino, la liberazione da un’ossessione E d’improvviso
fu silenzio.
Repentino
e dissonante, quanto ingombrante e perturbante, un’assenza di rumori che deflagrò
in un sospetto.
Gli
era parso d’aver udito qualcosa. Santiago trattenne il respiro, poi si sporse
dal balconcino e là, sul freddo selciato, lasciò gli occhi.
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