sabato 24 giugno 2023

Alberto S. Morra - Torino - Secondo classificato sezione prose

 

IL SERGENTE FERRERO

 

     - … e lei è venuto a rompermi i coglioni per una fesseria del genere? Ma si rende conto in che stato siamo? Se non riusciamo a fare un contrattacco furioso, finiamo per perdere la guerra e lei spreca il suo tempo con due cazzoni che cercano di scappare? Si ricordi quello che ha detto il generalissimo Cadorna: pugno di ferro! Se molliamo sulla disciplina, qui salta tutto. Da dove arrivano quei due?

     - Uno è di Napoli e l’altro siciliano.

     - Figuriamoci! Quelli sono più africani che italiani! Sono solo carne da cannone. Li faccia fucilare, così almeno serviranno da esempio. E adesso se ne vada, capitano, ché ho cose importanti da fare.

     - Comandi, signor colonnello.

     Il capitano sbatté i tacchi e uscì. Prima di partire per la trincea, dove comandava una compagnia, volle passare a salutare Alfredo, un vecchio amico che faceva parte del comando di reggimento. Fu un incontro molto cordiale, ma per alcune parole un po’ ambigue provò un senso di disagio che lo turbò parecchio. In sostanza l’amico gli aveva fatto capire che lo tenevano sotto osservazione per via di alcuni comportamenti che erano stati giudicati non proprio conformi alle norme di rigida disciplina che il comando pretendeva da tutti gli ufficiali, prima ancora che dalla truppa. Doveva stare attento a non sgarrare, perché al fronte, data la situazione precaria dopo anni di combattimenti, si giudicava e si condannava con molta, troppa facilità e lui correva il rischio di essere imprigionato e forse fucilato anche solo per un sospetto. Il capitano si rese conto che il fatto di aver chiesto al colonnello un atto di liberalità, oltre a suscitare il suo comportamento sgarbato, aveva forse aggravato la sua situazione.

     Ripartì dunque in preda a un’inquietudine che il lungo viaggio contribuì ad acuire. Era un pomeriggio freddo e piovoso e, anche cavalcando di buona lena, avrebbe impiegato almeno tre ore per ritornare alla sua postazione. Durante il tragitto continuò inevitabilmente a pensare a quel frettoloso colloquio con il colonnello. In realtà, il capitano voleva fargli presente che quei due erano solo un aspetto del profondo disagio di cui soffrivano le truppe. La vita nelle trincee era diventata insopportabile, soprattutto ora che stava tornando l’inverno e che, dopo anni d’inutili combattimenti, non s’intravedeva neppure lontanamente una possibile fine. Sembrava che quelli del comando non lo volessero capire ed erano solo capaci a dire di essere severi, usare il pugno di ferro, come se dovessimo essere noi ad ammazzare i nostri soldati. No, il capitano non riusciva a diventare crudele come gli comandavano. Nella vita civile si era abituato ad altri valori che però, a dire il vero, ora gli apparivano lontanissimi e anche un po’ falsi. Forse la vita reale era questa, quella combattuta corpo a corpo contro altri uomini, senza pietà e con la sola speranza di una vittoria all’apparenza indiscutibile, ma in realtà sporcata, sfregiata dal rimorso del male fatto non solo agli altri, sconosciuti, ma anche a sé stessi.

     Arrivò che era già notte e, dopo aver mangiato quel poco cibo disgustoso che permetteva la trincea, dopo molte esitazioni, chiamò il sergente Ferrero e gli impartì l’ordine di fucilazione. Il sergente Ferrero era un ragazzotto piemontese molto disciplinato e affidabile; non lo si sentiva mai lamentarsi e pareva davvero fedele a quella retorica ottusa e infantile, retaggio dei tempi risorgimentali; rigidissimo sulla disciplina, ma altrettanto solerte nel sostenere e aiutare i commilitoni. Per usare un ossimoro, lo si poteva definire un umanissimo sergente di ferro. Il capitano ormai lo conosceva bene e temeva che non avrebbe ubbidito senza sollevare qualche perplessità e, infatti, si accorse che il sergente indugiava sugli attenti, come se avesse avuto qualcosa da dire, ma non osasse.

     - Che c’è, Ferrero? Non hai capito?

     - Sì, signor capitano, ho capito benissimo.

     - E allora?

     - Vede, signor capitano, Esposito e Consalvo sono… sì è vero che hanno cercato di scappare, ma è perché non ce la fanno più. Consalvo è siciliano e, a dire il vero, è un po’ gnucco, praticamente non conosce neanche l’italiano e fa fatica a capire e a farsi capire. Ha sempre lavorato la terra e il suo mondo è fatto di cose minuscole; venire qua è stato per lui un fatto sconvolgente e non riesce a capire quello che sta succedendo, se lo fucilassimo non ne comprenderebbe neanche il senso. Esposito è di Napoli, non è uno stupido, ha persino la licenza elementare e sa adattarsi; è anche uno che se può aiuta i compagni, non è un fetente da mettere in riga… il fatto è che è disperato; si figuri che si è sposato qualche giorno prima di partire per il fronte e adesso sua moglie aspetta un bambino… sa, sei mesi fa è stata l’unica volta che in due anni è andato in licenza… e non si è imboscato al sole della sua città, ma è tornato in questo inferno … Non so neppure io dire il perché, ma fra Esposito e me è nata un’amicizia profonda, come non ho neanche al mio paese. Lei lo sa bene, nelle situazioni tremende in cui viviamo le amicizie diventano molto forti… a dire il vero anche le inimicizie. Non voglio esagerare, ma Esposito lo considero quasi un fratello. Come faccio a…

     - Dove sono adesso?

     - In quel piccolo capanno che serve da prigione.

     - E da lì possono scappare?

     - Beh, è una sistemazione precaria, ma ho dato disposizione che ci sia sempre un soldato di guardia, giorno e notte.

     - E se questo soldato si dovesse assentare perché comandato di fare qualche altra cosa urgente, quei due potrebbero scappare?

     - Credo di sì, Esposito è uno sveglio. Ma poi la responsabilità della fuga di chi sarebbe?

     - Di chi ha organizzato male il servizio.

     - Cioè, sarei io?

     - Potresti. Ma si potrebbero trovare delle attenuanti. Siamo in guerra e non si può fare tutto bene.

     - E quindi correrei il rischio di essere fucilato?

     - In linea teorica potrebbe succedere anche questo, ma non si può dire con certezza… anzi direi di no; al fronte succedono tante cose strane. Ma adesso basta, Ferrero, ti ho dato un ordine. Esegui.

     - Comandi, signor capitano.

     Il sergente uscì dal gabbiotto che fungeva da comando e si allontanò lungo la trincea. Si diresse al capanno e parlò con il soldato presente.

     - È tutto a posto?

     - Sì, sergente. Chi viene a sostituirmi?

     - L’ho detto a Michele.

     - Oh, quello lì! È sempre in ritardo; digli di darsi una mossa, ché questa notte fa un freddo becco.

     - Sì, fa freddo… ma pensa a quelli che stanno lì dentro da due giorni e non hanno neppure una stufetta.

     - Ma loro se la sono cercata e poi tanto domani devono morire.

     - Già, devono morire…

     Nel pronunciare queste ultime parole il sergente provò un senso di sgomento come se fosse lui il condannato ed esitò qualche istante prima di avviarsi verso la baracca che fungeva da piccola camerata. Lì dentro vi era una stufa sempre accesa che rendeva più sopportabile quel clima freddo e umido e consentiva anche di dormire qualche ora. Si gettò sulla branda vestito come il solito e si raggomitolò sotto le pesanti coperte da campo. Non riuscì ad addormentarsi e passò tutta la notte a pensare al da farsi.

     “Ma come faccio a farlo crepare? Sono due anni che viviamo fianco a fianco come fratelli dividendo tutto e gli devo anche la vita perché quando sono rimasto intrappolato fuori della trincea, è venuto lui a prendermi e portarmi indietro. Non sapevo cosa dirgli per ringraziarlo e lui a sorridere e dirmi quelle parole, guaglio’, è la vita, guardiamo avanti ché presto si torna a casa, e invece lui a casa non ci torna perché io devo ammazzarlo… ma dove cazzo sono capitato? Cos’è questo schifo che mi fanno fare, qui al freddo con quei crucchi là di fronte che anche loro devono morire per far contento Cecco Beppe… ma siamo tutti impazziti? Io vorrei solo stare al mio paese e vivere tranquillo… forse Marta mi sta ancora aspettando… e invece devo accoppare uno che mi vuole bene… sì, potrei farlo scappare… ma poi anch’io dovrei morire… figuriamoci se il capitano farebbe qualcosa per aiutarmi… ‘sti ufficiali sono solo capaci a dare ordini, ma poi con la truppa incazzata ce la dobbiamo sfangare noi… no, non posso rinunciare a Marta, è l’unica e vera speranza della mia vita… Esposito, perché hai fatto ‘sta cazzata? Mi ero accorto che non ce la facevi più, ma insomma sapevi cosa rischiavi… e tuo figlio che deve ancora nascere? Se esco da questo inferno, potrei andare a trovarlo, ma come farei a dirgli sono io che ho ammazzato tuo padre, il suo miglior amico della trincea… siamo solo più delle bestie… Marta, dove sei?... ma se lo faccio scappare, forse si riesce a tenere tutto nascosto… in fin dei conti il capitano non è uno stronzo come gli altri ufficiali e magari… ma no, no, a parole siamo tutti capaci a far promesse, ma poi quando ci si trova davanti al pericolo, diventiamo tutti dei cagasotto, anche il capitano… Marta! Marta!... ho paura…”

     Anche il capitano passò una notte agitata, con continui risvegli, perché continuava a pensare alle parole di Alfredo che per quanto fossero state dette come per caso apparivano invece un preciso atto d’accusa nei suoi confronti; sarebbe bastato un nonnulla per addebitare a lui, e non invece al comando, il fallimento di qualche operazione azzardata. Verso le sei, si alzò, bevve un poco di quello schifoso caffè della trincea e si diresse verso il capanno. Dietro di esso avevano ricavato, sotto a un terrapieno, un piccolo spiazzo dedicato alle fucilazioni; da quando il capitano comandava quella compagnia, era stata eseguita una sola esecuzione, nei confronti di un bastardo che aveva più volte rubato agli altri soldati tutto quello che poteva. Il capitano si nascose e rimase in attesa delle sei e trenta, ora stabilita per le esecuzioni; voleva vedere cosa avrebbe fatto il sergente. L’ora convenuta passò, ma non sopraggiunse nessuno; il soldato di guardia continuava stancamente ad andare su e giù per non sentire troppo il freddo. Il capitano fu assalito da una forte agitazione. Cosa aveva deciso Ferrero? Il sergente, così puntuale e disciplinato, era solo in ritardo o li aveva lasciati scappare? In questo caso sarebbe poi toccato a lui trovare il modo di salvarlo, ma ci sarebbe riuscito? E, soprattutto, se la sarebbe sentita di giustificarlo di fronte ai superiori, a rischio di incappare lui stesso in qualche punizione estrema? Dove stava il suo coraggio, il rispetto verso sé stesso che aveva sempre pensato essere il suo vero motivo di orgoglio? Se la sentiva di correre il rischio di barattare la sua vita con quella di Ferrero e dei due soldati? Ma poi pensò che anche loro tre sarebbero morti comunque e allora si chiese se fosse proprio il caso di fare l’eroe…

     Dopo una decina di minuti, arrivò il sergente seguito da tre uomini armati di fucile e da altri due con le mani libere. Ferrero diede alcuni ordini secchi con molta rapidità, come se volesse svolgere il più in fretta possibile l’ordine ricevuto, senza dar spazio a possibili dubbi. I tre armati si disposero con un ginocchio a terra, di fronte al terrapieno, mentre gli altri due entrarono nel capanno e uscirono spingendo i due condannati che portarono davanti ai fucilieri; il soldato di guardia si era fermato a osservare la scena con curiosità, quasi fosse per lui uno spasso assistere a un avvenimento così inconsueto. Il capitano notò che il sergente non rivolse mai lo sguardo verso i condannati, ma in tutta fretta sputò gli ordini al plotone di esecuzione. Solo quando fu tutto pronto, al capitano parve che Ferrero fosse colto da un interminabile istante di esitazione.

     Consalvo aveva un’espressione quasi intontita come se non fosse ancora riuscito a capire quello che stava per succedere. Esposito piangeva.

     Il crepitio dei fucili. I corpi che si afflosciano.

     Una morte violenta… inutile.    

 

     Dopo questo episodio, il comportamento del sergente Ferrero cambiò; divenne scontroso, sempre più chiuso in sé stesso e si arrischiò anche in alcune temerarie e pericolose azioni di combattimento durante le quali morirono diversi soldati di entrambi gli eserciti; per una di queste ottenne una medaglia al valore.

     Ma infine la guerra terminò e nell’ultimo giorno prima del ritorno a casa il sergente, che ormai era diventato solo più il “signor Ferrero”, dovette recarsi a Belluno in uno dei punti di raccolta truppe. Esaurì velocemente tutte le pratiche relative al suo servizio e nell’attesa della partenza dell’ultimo treno verso il suo paese, fece quattro passi attraverso la cittadina. Giunse nei pressi di un ponte sul fiume ma non lo oltrepassò, si fermò al suo inizio. Fu preso da una fortissima voglia di gridare, sì proprio urlare tutto il suo orrore per quegli amarissimi anni della sua vita, ma si trattenne e frugò invece nello zaino; ne trasse fuori la medaglia e la guardò a lungo rigirandola fra le dita e pensò alle sofferenze patite e inflitte agli altri, pensò a Esposito, pensò a Marta… pensò a tutti quelle atrocità che l’avrebbero perseguitato per sempre… continuava a guardare la medaglia con crescente rancore… poi la gettò nel Piave.     

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