L’appartamento
- Che cosa ti ha detto di preciso?
- Chi?
- Sai benissimo di chi sto parlando.
- Vuoi dire Alzi?
- Sì, lui. A chi pensavi mi stessi riferendo, lavoriamo
per lui, no?
Perché poi questo nomignolo? Perché tutta questa
confidenza?
- Lui ha voluto così.
Mi ha detto di cominciare dalle cose più piccole,
quelle sparse per casa.
- Va bene. Quindi tutto come al solito. Io
comincio da qui, tu dal fondo.
Il verdetto era stato inequivocabile. Non c’era spazio per speranze se non un minuscolo appiglio a cui aggrapparsi per disperazione.
Il medico era stato tassativo, gli esami clinici, le valutazioni, i test non lasciavano spazio nemmeno a una lieve forma di ottimismo.
All’inizio sembravano piccoli incidenti, in fondo poteva trattarsi benissimo di disturbi legati all’età, invece erano segnali da non sottovalutare.
Un oggetto, che sembrava dovesse essere lì in un posto preciso, invece non c’era.
Diventava introvabile.
Sicuro era sicuro, qualcuno lo doveva avere spostato a sua insaputa o addirittura rubato, anzi era proprio così.
Lo facevano apposta per dispetto, per confonderlo.
Chi, chi poteva mai far sparire cose di poco valore, dopo tutto?
Chiaramente loro, i figli, i parenti e quelli che passavano per casa e nemmeno sapeva bene chi fossero.
Come sarebbe a dire chi fossero? Erano i suoi amici, quelli con cui andava in montagna, in bicicletta, a camminare, usciva a cena quando era ancora viva mamma.
A lui, comunque, non la si raccontava giusta.
Non era ancora rimbambito del tutto e in ogni caso occorreva far saltar fuori quello che non si trovava.
Beh, talvolta le cose ricomparivano, ma in posti impensabili.
Chi era stato? Non certo lui.
- Adesso cosa si fa?
- Sei entrato nello studio? Raramente ho visto
così tanti libri, dischi, documenti.
- È
la stanza più ricca di cose.
- Chissà chi era, cosa faceva questo tizio.
- E che ci importa. Per noi uno vale l’altro.
- Allora d’accordo. Cominciamo dallo studio.
Erano stati avvisati.
L’unica cosa normale in una situazione che di normale non aveva nulla, era che le cose dovessero evolvere in quel modo, chi prima, chi dopo, ma si trattava solo di tempo, ciascuno il proprio.
Le parole svanivano, i concetti che ne avevano un disperato bisogno ne uscivano claudicanti, incomprensibili.
La rabbia montava insieme alla sensazione di non venire capiti, di essere trattati con pietosa condiscendenza.
Parti intere di libri mandate a memoria si sgretolavano.
Poteva bastare ritrovarli e rileggere le parole dimenticate, ma le parole dimenticate diventarono frasi, periodi interi.
Dove si trovavano quei libri?
Ancora una volta, qualcuno si era dato da fare per spostarli, farli scomparire.
Eppure, erano stati ordinati tutti, classificati in modo da poterli recuperare senza fatica.
Maledetti loro e i cialtroni che li avevano spostati, camuffati, nascosti chissà dove!
- Con lo studio abbiamo finito. Un lavoraccio, non
è vero?
- Che ne diresti se passassimo al salotto?
- Prima prendiamoci una pausa.
- Hai ragione. Stiamo lavorando come dei muli.
- Se andiamo avanti così avremo bisogno di un aiuto,
i casi ormai sono tanti, troppi.
Il peggio doveva ancora arrivare, faceva timidamente capolino tra alti e bassi dove gli alti erano sempre meno alti e i bassi lo erano ancora di più.
Tra i due picchi in costante peggioramento trovavano spazi striminziti pianori di assestamento che illudevano di un temporaneo miglioramento, ma era solo una pausa di riflessione della malattia che preludeva a un nuovo scalino in discesa.
Il carattere si incupiva, rabbia e indifferenza si alternavano velocemente.
Iniziavano ad affiorare i sintomi più temuti, il dialogo veniva meno.
Volti noti e una volta fonte di gioia, ora incutevano ansie e paure.
Accolti con un’espressione interrogativa, a volta inebetita, col tempo gli amici si dileguarono in modo elegante come se il non venire progressivamente più riconosciuti li autorizzasse a farsi da parte e scomparire, un po’ per pudore e un po’ per comprensibili timori nel non sapere come affrontare una situazione insolita e sconvolgente.
Si diluirono col tempo anche le telefonate di interessamento che il padre non riusciva più a gestire nemmeno con frasi semplici.
Il livello confusionale aveva raggiunto vette inimmaginabili che rendevano difficile ogni relazione.
Stessa sorte toccò ai figli, agli eventi recenti, agli oggetti.
Crescevano reciproche la rabbia, la diffidenza, il tormento e la depressione.
- La cucina, accidenti.
- Questa è sempre la più difficile.
- Già, tanti ammennicoli, stoviglie, elettrodomestici
ingombranti, la mobilia…
- Non come l’ultima volta.
- Di che parli?
- Ti sei per caso ammalato anche tu? Non ricordi?
- Ah, se ti riferisci al pensile lasciato attaccato
al muro…
- Sì proprio a quello. Il solo vederlo ha fornito dolorosissimi
appigli ai pochi brandelli di memoria rimasti, che a loro volta hanno
richiamato antichi ricordi e riacceso speranze vane.
Non sembrava esserci fine alla discesa agli inferi.
Non venire riconosciuti dal proprio padre acuiva un sentimento di reciproca estraneità trasformando la vicinanza in un’esperienza mortificante e dolorosa.
Gli occhi avevano perso la vivacità di un tempo e attraverso la vacuità di sguardi spenti sembrava assente anche ogni forma di pensiero e senza dialogo diveniva impossibile anche ogni forma di relazione.
Si sentiva il peso della mancanza di un confronto dialettico, le diatribe continue su ogni argomento avevano lasciato malinconicamente spazio a silenzi che non si sapeva come riempire, se non con banali frasi di circostanza.
Ormai i tempi erano quelli del padre, lenti, ripetitivi quasi ossessivi.
Venivano a mancare i piccoli piaceri di una volta, i sapori della buona cucina, gli aromi che provenivano dalle pietanze, i colori.
Mangiare insieme, seppure nelle poche occasioni che le vite indaffarate permettevano ancora, un tempo era una gioia.
Ora non più. Il cibo si era trasformato in una mera, svogliata necessità.
Le piccole cose che davano un po’ di sapore alla vita non c’erano più.
- Ora tocca alla camera da letto.
- Hai visto che mobili?
- Roba fine!
- Tutti in massello di noce.
- Un po’ scuro ma caldo, solido.
- Magari appartenevano ai genitori, ai nonni, ai
bisnonni.
- E le lenzuola? In lino finissimo. Non se ne
vedono più in giro di così belle.
- Già, ormai siamo degli esperti, con tutto quello
che ci tocca vedere.
Anche nel deserto più inospitale l’aridità, la calura più soffocante non riescono a cancellare segnali di vita e l’acqua preziosa si concentra in piccole oasi dove diventa possibile il miracolo di una sopravvivenza improbabile.
Così era per quello che sembrava vivere ancora dopo l’ecatombe, la furia devastatrice che aveva privato una persona di buona parte dei ricordi e con essi dell’identità.
Gli affetti, le emozioni erano ancora possibili, anche se incarnati da chi poco o nulla ricordava l’uomo, il padre che era stato.
Ai figli la malattia disvelò aspetti fino ad allora sconosciuti, l’intensità di un bacio, di un abbraccio che si erano rassegnati a non ricevere più, pensandoli compensati da altre attenzioni e messi a tacere da un’educazione antica che tingeva di vergogna e riservatezza i segni più fisici dell’affetto.
Ne rimasero attoniti, quasi storditi, come se il tappo di una bottiglia sottoposto a forti pressioni fosse saltato all’improvviso liberando emozioni represse e prigioniere da tanto tempo, scambiate erroneamente per intollerabili debolezze.
- Dai che abbiamo quasi finito. Ci restano ancora
bagno e ripostiglio
- Preferirei prima il bagno.
Un canone della malattia già scritto prevedeva anche questo: un padre pudico, riservato, attento ai dettagli, pulitissimo, che perdeva ogni attenzione di sé.
Mai e poi mai avrebbe tollerato di essere assistito nei suoi bisogni elementari, di dividere il bagno con altri che non fossero sua moglie.
Oggi non si vergognava di nulla, non capiva la differenza tra igiene e sporcizia.
Lui che non sopportava la barba più lunga di un giorno e mai era stato visto discinto e trascurato e giammai senza la veste da camera al massimo dell’intimità familiare, ora non si curava di vagare per casa in mutande, scapigliato, ispido e qualche volta sporco.
Dipendeva in tutto da altri e la gravità del suo stato era sottolineata dalla noncuranza, dalla trascuratezza, dalla assoluta assenza con cui si lasciava accudire da mani estranee.
- Siamo arrivati alla fine.
- Fortunatamente non ci sono cantine e solai da
svuotare.
- Sì, ma anche con i ripostigli non si scherza.
- Ricordi e cianfrusaglie accumulate alla rinfusa
lungo tutta una vita.
- Dai, diamoci da fare, altrimenti non finiamo
più.
Prima che avesse il sopravvento l’annichilimento totale, che la persona, o ciò che di lei era rimasto, si piegasse definitivamente sotto il peso di un’azione distruttiva che corrodeva mente e corpo, parevano essersi conservati quasi intatti i ricordi più antichi, mentre quelli più recenti sublimavano velocemente.
Come se nella mente ormai compromessa, qualcuno avesse fatto un ordine strano nel ripostiglio dei ricordi e con questa operazione di pulizia, spostando gli oggetti più recenti in vista, avesse dato spazio a quelli più remoti facendoli riaffiorare da un passato dimenticato mescolando però le scatole in modo caotico e casuale.
Poi rapido, calò un nuovo buio.
- Fatto tutto?
- Ho preso anche le ultime cose. Cose
insignificanti, del resto.
- Hai fatto bene. Ma scusa, quello perché è ancora
là?
- Era impossibile staccarlo. Avremmo dovuto
sventrare i muri.
- Speriamo bene, se è come dici, lasciamolo pure al
suo posto.
- Ricordati di chiudere. Ti aspetto giù, ma sbrigati,
abbiamo altro lavoro da fare!
La casa era ormai vuota, non rimaneva più nulla.
I muri conservavano ancora i segni, le impronte sbiadite di storie vissute.
Al minimo rumore, le pareti restituivano tristemente un’eco sorda.
Faceva ancora mostra di sé un camino in pietra col focolare che richiamava il calore della vita in comune, degli affetti, delle emozioni, di amori ancora possibili.
Lo sgombero era terminato.
Il viaggio finito.
La condanna a morte, in una prigione dorata, eseguita.
Dati autore:
Giuseppe Raineri
Data di nascita: 7.2.1959
Residenza: Bergamo
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