sabato 10 agosto 2013

Foto vincitrici di Paolo Ferretti



Salvatore D’Aprano, italiano trapiantato in Canada, vincitore nel 2009

“Bestie da soma“

Trasciniamo
il nostro pesante fardello
nel sinuoso dedalo della vita
come l’umile bue che,
intento a dissodare i campi,
sopporta l’oneroso giogo
e la schioccante frusta
con servilità.
Siamo bestie da soma.
Siamo le eterne vittime
in questa società di avvoltoi,
fragili e inermi pesciolini
che cercano di sopravvivere
in un oceano infestato da squali.
Solamente
quando saremo divenuti larve,
non più atti a servire
i nostri despoti “ Padroni,”
forse soltanto allora
avremo diritto
alla giusta ricompensa
e al meritato riposo
sotto una più sopportabile,
equa e lieve croce.


“ Bêtes De Somme “

Nous traînons
notre lourd fardeau
dans le sinueux dédale de la vie
comme l’humble boeuf qui,
pendant qu’il défriche les champs,
supporte l’impitoyable joug
et le douloureux fouet
avec servilité.
Nous sommes des bêtes de somme.
Des éternelles victimes
dans cette société de vautours;
des petits poissons qui cherchent
a survivre dans un océan
infesté de requins.
Seulement quand nous serons
devenus larves, inaptes à servir
nos despots  “Seigneurs”
peut-être aurons-nous droit
à la juste récompense
et au convoité repos
sous une plus supportable,
impartiale et légère croix.

“Beasts of  burden”

We drag our heavy bundle
in the tortuous path of life
as the humble ox who,
intends to harrow the fields,
bears the onerous yoke
and the painful whip
with servility.
We are beasts of burden.
We are the eternal victims
in this society of vultures,
unarmed little fish
who try to survive
in an ocean infested by sharks.
Only when we become larvae,
no more able to serve
our despot “ Masters,”
maybe then we’ll find
the just reward
and the coveted rest
under an endurable, impartial
and burdenless cross.

Prosa di Stefano Borghi, pluripremiato negli ultimi anni a Mellana

Sangue del mio sangue.


La strada sembrava non finire mai. Claudia guidava contratta, ma non aveva fretta di arrivare.
Procedeva lentamente, guardando sovente il paesaggio; cercava di godersi l’atmosfera primaverile.
Le strade, scarsamente trafficate in quella parte di campagna, invitavano a rilassarsi.
Ci provò, senza riuscirci.

Improvvisamente svoltò, seguendo le indicazioni che conducevano al centro del paese, accelerando decisa.
“E’ ora di andare” disse tra sé.

Quando giunse davanti all’ospedale fermò la macchina, ma non scese; rimase qualche minuto ad osservare il vuoto. Dopo riavviò il motore, inserì la marcia e ripartì.
La vettura uscì dal parcheggio e si allontanò veloce.

Claudia tornò a vagare, senza una meta ben precisa, per le strade del paese dove aveva abitato.
Era tanto che non tornava lì: fece un rapido calcolo, dieci anni almeno.
Girò per le vie; una volta il paese era un piccolo centro prevalentemente agricolo, molte case con cortile, tante fattorie, abitazioni singole disseminate qua e là, come funghi su di un immenso prato.
A vederlo ora non sembrava nemmeno lo stesso paese.
Nuovi negozi, nuova piazza, monumenti e case ristrutturate, nuove strade.
Claudia pensò che così era più bello.
“Siamo cambiati in meglio, entrambi.”
Era ora di andare; intendeva fare quella visita ed era inutile rimandare oltre.
Ma prima decise di passare dalla casa dove aveva abitato.

Imboccata la via, le sue mani cominciarono a sudare; il nervosismo, che sembrava essersi diluito nell’atmosfera rilassata che la circondava, tornò ad impossessarsi di lei.
Si arrestò davanti all’abitazione; non era cambiata molto, da allora.
Dall’altro lato della strada non c’era più il negozio di frutta e verdura, ma un fioraio, che con un’esplosione di colori allietava il grigio del marciapiede.
Fece un sorriso nervoso. “Mio padre odiava i fiori; odiava tante cose, lui.”
Osservò la finestra dove un tempo c’era stata la sua camera.
Era ora di tornare all’ospedale.
Suo padre stava morendo.


La ragazzina era seduta al centro del letto, intenta a ritagliare una serie di fogli colorati. Era molto brava, aveva scoperto di avere una passione per gli origami.
La madre di una sua compagna di classe le aveva insegnato alcuni trucchi e lei, con una discreta capacità manuale, riusciva a fare cose deliziose.
Al suo fianco, un romanzo rosa, che aveva appena finito di leggere; il cuore era ancora pieno di sensazioni e immagini d’amore.
Da quei fogli colorati voleva ritagliare la scritta “Ti amo”; l’avrebbe poi incollata sul suo diario, vicino alla foto di Marco, adorato compagno di scuola.
Suo padre si presentò sulla soglia della camera, con un’aria trasandata e una faccia scura che non prometteva niente di buono.
“Che cosa stai facendo?”
“Origami” rispose lei, spaventata dal tono della voce.
Il padre, con un falso sorriso, prese il libro che stava accanto a sua figlia, sfiorandole volutamente una gamba.
“Vediamo cosa leggi.”
Guardò la copertina, soffermandosi qualche istante, poi lo aprì e si mise a leggere qualche riga; infine lo chiuse, restando qualche secondo a fissarla in silenzio.

A Claudia quei secondi sembrarono eterni.
Improvvisamente il padre, con violenza inaudita, scagliò il libro contro il muro, urlando come un ossesso.
“Quante volte ti devo dire che non devi leggere questa roba? Tu devi studiare, studiare! Hai capito?”
Il padre puntava minaccioso il dito contro Claudia, che si era ritirata verso la testiera del letto, cercando di farsi più piccola possibile.
Avrebbe voluto sparire, o essere invisibile, ma quella non era una storia presa da un libro, era la realtà.
Il padre si avvicinò, minaccioso. Con un gesto veloce e improvviso strappò i fogli colorati che ancora Claudia stringeva tra le mani.
“Guarda cosa stai facendo! Pezzi di carta, stupidi pezzi di carta colorata, fiori di carta, libri insulsi… non sai fare altro!”
Claudia tentò di giustificarsi, ma lui non glielo permise.
“Stai zitta! Ti ho vista sai, ti ho vista mentre passeggiavi con quel tuo amichetto; vi siete anche dati un bacio, per strada! Sei una puttana! Una puttanella da due soldi, che fa di tutto per screditarmi; si fa vedere in giro con i ragazzi, lei; ma adesso t’insegno io, sai…”
L’uomo cercò di afferrare la ragazza per una gamba; Claudia si difese scalciando, non voleva subire le attenzioni morbose di suo padre ancora una volta. Che la picchiasse, anche con la cinghia, ma sentirsi toccare ovunque no, questa volta no..

La reazione di Claudia fece imbestialire ancor di più l’uomo, che andò a chiudere a chiave la porta della camera.
“Adesso ci penso io a te” disse, con fare minaccioso.
Claudia cominciò ad urlare e a chiamare sua madre; ma, come per altre volte, non sarebbe venuto nessuno in suo aiuto.
“Ti prego papà, no! Ti prego, non ho fatto niente, niente..”
L’uomo era già sul letto e l’aveva raggiunta; Claudia fu colpita da un violento schiaffo, poi da un altro, e un altro ancora…La violenza fu tale che la ragazza cadde dal letto, battendo la testa.
Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi; si raggomitolò su se stessa, confusa e impaurita e l’uomo le fu di nuovo addosso, con una serie di calci che la fecero urlare.

Non avrebbe raccontato che era caduta dalle scale. No, questa volta no..

Il padre l’afferrò saldamente e l’alzò di peso, ributtandola sul letto; si mise a cavalcioni sopra di lei, tenendole ferme le mani.
Claudia chiuse gli occhi; sentiva la puzza di sudore di suo padre, il suo alito che sapeva d’alcool.
Sentì le labbra di lui cercare le sue, indugiare sul suo collo, sui capelli.
Il respiro di suo padre si era fatto più rumoroso e pesante.
Claudia provò ribrezzo, sentì che stava per vomitare.

Urlò.
Urlò la propria disperazione, la rabbia, la frustrazione.
Urlò la propria paura.
Tentò di scacciarla, con un solo grido, allontanarla dai propri polmoni, dalle viscere, dalla mente.


Il padre la colpì di nuovo violentemente, una, due, più volte, annullandone ogni reazione.
Riducendola ad una bambola di pezza singhiozzante.

Claudia sentiva in bocca il sapore metallico del sangue.
Poi sentì le mani forti e ruvide di lui, che cominciavano a toccarla.
Non poteva far nulla per impedirglielo; strinse ancora più forte gli occhi.

“Brava bambina, lascia fare a me, ci penso io…”

Cominciò ad aprirle la camicetta, bottone dopo bottone, con una lentezza insopportabile.
“Toccami, masturbati e vattene via” pensò tra i singhiozzi Claudia. “Fai quello che vuoi e vai via,
ma fai in fretta.”

Ma quella volta non andò così. L’uomo non si fermò; le sue mani scesero fino ad infilarsi tra le gambe della figlia; lei le sentì infilarsi tra gli slip, premere. Le sue dita entrarono in lei. Poi lui si mise sopra, continuando a ripetere: “Ci penso io, ci penso io..”
Sentì la cerniera dei pantaloni di lui aprirsi con un rumore secco.
Lo sentì strofinarsi sul suo ventre e poi scendere più in giù; si sentì aprire, violare.
Claudia ebbe solo la forza di urlare un ultimo no, prima di perdere i sensi.


La macchina rallentò.
Claudia entrò nel parcheggio dell’ospedale.
Non era sicura che avesse un senso essere lì. Fare quello che stava per fare.
Erano dieci anni che non vedeva suo padre e nemmeno sua madre, silenziosa, consenziente presenza di ordinari giorni di violenza.
Non l’aveva denunciato per quello che le aveva fatto.
La madre e i parenti più stretti lo avevano impedito. Troppo rumore, troppe chiacchiere.
Un disonore così grande non sarebbe stato possibile da sopportare.
Ma si erano accorti che la ragazza non avrebbe retto, non sarebbe riuscita a nascondere una verità troppo grande per lei.
Si sarebbe confidata con qualche compagno, con qualche insegnante impiccione.
Sarebbero stati guai.
Decisero d’allontanarla.


Degli zii, che abitavano lontano dal paese, si erano presi cura di lei, l’avevano aiutata, difesa, coccolata.
Le avevano fornito insegnanti di sostegno per recuperare un apprendimento scolastico deficitario.
Le avevano pagato le sedute dallo psicologo.
L’avevano protetta, aiutata a costruirsi un futuro; adesso lei era una donna.
La parola fine a quella storia, se mai ci fosse stata, l’avrebbe dovuta scrivere da sola.


In tutti quegli anni non aveva mai avuto il coraggio di affrontare suo padre, nemmeno per telefono.
Il solo pensiero la faceva stare male, non era ancora guarita.
Ma ora suo padre stava per morire: il cancro se lo stava portando via, ed era stato lui a chiedere della figlia, a desiderare un ultimo incontro.
Lo aveva detto a tutti i parenti che erano andati a trovarlo.
“Cercate Claudia, ditele che la voglio vedere, devo chiederle perdono.”

Si erano mossi tutti, per quell’incontro.
Anche il parroco del paese aveva fatto la sua parte.
Claudia aveva pensato amaramente che quando era stata lei ad aver bisogno d’aiuto nessuno aveva fatto nulla.

Mentre saliva le scale il cuore prese a battere più forte; l’odore del disinfettante sostituiva quello del vino, l’odore di suo padre.
Sudava.
Un piano, un altro…

La mano di suo padre sotto la sua gonna.
“Vieni bambina mia, ci penso io…”
Nemmeno fosse Dio.

La porta si aprì su di un corridoio ampio e lucido.

“Puttanella, sei solo una puttanella!”

Sua madre e alcuni parenti aspettavano fuori dalla porta; nel vederla, si girarono tutti verso di lei.
Qualcuno abbozzò un sorriso.

“Adesso t’insegno io, come si fa..”
In bocca il sapore del sangue.

Per un attimo rallentò il passo e prese a guardarli; sua madre le si fece incontro.

“Mamma, aiuto! Mamma!”
Mamma non veniva mai …

Sua madre le fu di fronte, aprì le braccia.
Claudia si fermò ad un passo, quel tanto che bastò per evitare il contatto.
Sua madre non si perse d’animo e, con un sorriso che sembrava qualcosa di simile alla gratitudine, disse: “Grazie di essere qui; ti aspetta, sono i suoi ultimi giorni. So che per te è difficile, ma è pur sempre tuo padre.”

“Adesso t’insegno io, come si fa..”

Claudia passò oltre, dirigendosi decisa verso la porta della camera; i parenti si fecero di lato per farla passare
Pochi passi ancora.

Lo sentì dentro di lei, muoversi con violenza, un dolore caldo e liquido e la sua voce soddisfatta.

La porta si aprì; suo padre girò la testa e subito s’illuminò di uno stanco sorriso.
Claudia per qualche istante faticò a riconoscere in quell’uomo suo padre.
Un volto scavato e pallido, capelli radi e bianchi; solo lo sguardo sembrava lo stesso.
Penetrante e inquisitore.
Claudia fece fatica a sostenerlo.

“Claudia, ragazza mia, fatti vedere! Vieni, siediti qui, vicino a me. Quanto ho sperato di rivederti!”
Una mano ossuta sbucò dal lenzuolo tendendosi verso di lei. Dopo un attimo d’esitazione Claudia la prese. Sentì un tremito al contatto, ma non seppe dire chi era dei due a tremare.
Si sedette, accanto a quello che era stato il suo incubo, la figura con cui aveva lottato per tante notti e che di tanto in tanto tornava a visitare i suoi sogni.

Eccolo lì, il fantasma delle sue notti.
Poche ossa, malconce, tenute insieme da una pelle giallognola.

Non faceva paura.
Eppure era lo stesso uomo che aveva violato la sua intimità, lasciando ferite così profonde da sembrare squarci, abissi infiniti.
Era colui che aveva preso più di quanto fosse immaginabile prendere.
Le sue mani erano andate così in profondità da violentare la sua stessa anima.

Ma non faceva paura.
Quell’uomo che non aveva più chiamato padre, ma mostro, parlava.
Stava parlando con lei.

Il mostro non faceva paura.
Chiedeva della sua vita, dei suoi studi, dei suoi giorni. Ma con quale diritto?
Claudia si trovò a rispondere e, ad un certo punto, le venne da ridere; sembrava un gioco, uno stupido e inutile gioco.

“Adesso devo andare” disse improvvisamente.
“Claudia…senti, io non sono bravo con le parole, ma…insomma, morirei più contento se tu potessi darmi il tuo perdono.”
Ci fu un attimo di silenzio; poi suo padre riprese:
“Perdonami, Claudia, perdonami per il male che ti ha fatto questo tuo vecchio padre... Puoi farlo per me?”

Claudia lo fissò in silenzio, senza abbassare lo sguardo; fu lui a distogliere il suo.
“Ti ho portato una cosa” disse, mettendo le mani nella borsetta.
Il padre osservò incuriosito e sorpreso.
Nelle mani di Claudia vi erano dei fogli di carta colorata.
“Ti ricordi?” disse la donna, con un sorriso ironico, “i miei origami.”
“Certo, quegli stupidi aggeggi di carta; non dirmi che li fai ancora, allora facevi tanti fiori.”

Claudia aggiustò quello che sembrava solo un mucchietto di carta colorata, lo avvicinò al viso di suo padre.
Era un fiore, dai grandi petali; sopra ad essi c’erano delle lettere.
Suo padre si sforzò di leggere: le lettere componevano una parola, anzi due.
“Ti odio”

Il padre guardò sua figlia, sbigottito.
“Cosa significa questo? Forse non vuoi darmi il tuo perdono? Eppure ti sto implorando di farlo.”

“Quante volte sono stata io ad implorare te?” chiese Claudia, dirigendosi verso l’uscita.
“Dove vai? Aspetta, non puoi andartene così, non puoi farmi questo!”

Claudia si fermò; calma, si voltò verso suo padre.
“Certo che posso papà; del resto, sono sangue del tuo sangue.”
Senza aggiungere altro uscì.
La porta alle sue spalle si chiuse.
Per sempre.

mercoledì 7 agosto 2013

Opera vincitrice di Virna Brunetto

Testo di Greta Fusari

Sezione A :  Tema libero.

IL LABIRINTO COME METAFORA DELLA VITA
“Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini ; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine.”
Questa definizione di Jorge Luis Borges rende molto bene l’idea di labirinto. Per quanto possa essere un’opera architettonica grandiosa, il labirinto è creato senza alcuno scopo. Le sue scale non portano a niente; le sue stanze non hanno una porta d’uscita; i suoi corridoi sono infiniti. L’unico scopo è quello di confondere l’uomo che disgraziatamente vi capita dentro. Nella letteratura vi sono moltissimi esempi di labirinti, a partire da quello più noto e leggendario di Dedalo, costruito per rinchiudervi lo spaventoso Minotauro, fino ad arrivare a quello più recente di Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, costituito dalla biblioteca del convento in cui si svolge tutta la vicenda.
Il fatto che il labirinto sia descritto, la maggior parte delle volte, come un edificio o comunque un luogo fisicamente molto complesso, non significa che non possano esistere altri labirinti, forse ancora più pericolosi, che non hanno muri o pareti, che apparentemente sembrano luoghi liberi ma che in realtà, per una forza misteriosa, sono comunque in grado di renderci prigionieri. Sono questi i labirinti della mente, che compongono la complessità della psiche umana. Prendendo una strada sbagliata, l’uomo può veramente arrivare a perdere se stesso, a non rendersi conto di essere in un labirinto, a disperarsi e a provare con vani tentativi a dare un senso a quello che sta vivendo. E così il labirinto può diventare anche una metafora della vita. Quante persone si sono perse nel labirinto della loro vita perché non sono riuscite a darle uno scopo? Le difficoltà molte volte rendono l’esistenza proprio come un labirinto dal quale è difficile uscire: a noi non è concesso, come a Dedalo e ad Icaro, un paio di ali di cera per volare oltre i problemi e le cattive situazioni. Se davvero avessimo questa grazia allora sarebbe tutto più semplice, perché dall’alto la via che conduce fuori dal labirinto è più chiara e luminosa. Ma non bisogna dimenticare che Dedalo ha dovuto costruirsi da solo le sue ali. Allo stesso modo anche noi dobbiamo trovare  la nostra personale via d’uscita, la nostra soluzione. “Fuori da Pentesilea esiste un fuori ? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi ad uscirne?” (Italo Calvino, “Le città invisibili”). Certo che esiste un fuori, ed è rappresentato da quello scopo che noi diamo alla nostra vita. Se, riprendendo la frase di Borges, “Il labirinto è un’architettura senza scopo”, allora l’unico modo per uscirne, per non perdersi e trovare un fine per cui valga la pena sopportare il labirinto stesso, è perseverare nella ricerca e nell’adempimento di tale fine.
Come i marinai nel guardare le stelle trovano la giusta rotta per tornare a casa, allo stesso modo il nostro scopo ci guiderà e ci indicherà il percorso esatto per uscire da quel  labirinto che è dentro di noi ed essere finalmente liberi.

Opere di Pietro Baccino - Savona

Miliu                                                                                      Emilio

L’otŕéŕi, matexdì, sto a ŕa tóŕa                                            L’altro ieri, martedì, seduto a tavola
cun j’ögi azeixi e i gumj ben ciantoi,                                 con gli occhi accesi e i gomiti bene appoggiati,
u’m cuntova deŕ fen šteis ant’i pŕoi                                    mi raccontava del fieno steso nei prati
cun paŕóle dlicoie d’ina fóŕa                                               con parole delicate di una favola

e pöi d’u taj deŕ bóš-c, dŕa caŕbunéŕa                               e poi del taglio del bosco, della carbonaia
ans’ ŕa ciaza tŕa i fói, ch’a bŕüxa ciàn.                               nello spiazzo tra i faggi, che brucia lenta.
Mi a šcutova e a štŕenżiva ŕa só man                                Io ascoltavo e stringevo la sua mano
per dije: ‘Vorda, a l’sö, a ŕ’è štóŕia véŕa!’                         per dirgli: ‘Guarda, lo so, è una storia vera!’

U m’diva deŕ giurnò ch’u sciuscia in vent              Mi diceva dei giorni in cui soffia un vento
maladetu, ch’u pórta via i capéi,                                        maledetto, che porta via i cappelli,
u š-cianca rame e föje e anche j’öxéi                               strappa rami e foglie, e anche gli uccelli
i xloŕga ŕ’ciüme e u só cantè u se n’sent.              gonfian le piume e il loro canto non si sente.

E ans’j’ögi u i cumpaŕiva ŕa ruśò                                       E sugli occhi si formava la rugiada
s’u diva a meża vux dŕa só famija,                        se diceva a mezza voce della sua famiglia,
e u dumandova: ‘Peŕchè u Sgnù u me n’pija                    e chiedeva: ‘Perché il Signore non mi prende,
ovŕa che pŕópi sul a son reštò?’.                                       ora che proprio solo son rimasto?’

L’ova šquoxi zent’agni, mé cüxîn                                       Aveva quasi cent’anni, mio cugino,
e a l’veg ancuŕa ch’u  s’n’an štova atent                           e lo vedo ancora che se ne stava attento
ai méi versci an dialèt, l’era cuntent,                                 ai miei versi in dialetto, era contento,
e püŕa a ŕ’éŕa l’ürtima matîn.                                              eppure era l’ultima mattina.

Ancö u j’è ŕ’ füneŕol a San Maté,                                        Oggi c’è il funerale a San Matteo,
ŕa géxa deŕ paiś, cun tanta gent                                        la chiesa del paese, con tanta gente
ch’a pŕéga e a cianż, e anche mi a sent                           che prega e piange, e anch’io sento
che ’n bŕov’óm l’è muntò sü, fin’a u zé.                              che un brav’uomo è salito fino al cielo.

E ŕa fióca ch’a coŕa cian cianîn,                                         E la neve che scende piano piano,
gianca cuverta scioca, lenzö lgé,                                      bianca coperta soffice, lenzuolo leggero,
a s’pósa suvŕ aŕ fŕašche e an s’u sentè                            si posa sulle frasche e sul sentiero
e u m’po ch’a vöja xmurtè in pó u sagŕîn.              e  mi pare che voglia spegnere un po' il dolore



Quando l’aura soave
                                                              d’inizio primavera
                                                               muove le foglie nuove del ciliegio
                                                               lievi come una  piuma
                                                               e suona la campana nella bruma
                                                               di un fioco mezzodì,
                                                              ti parlo come fossi sempre qui
                                                              per dirti ancora, madre ormai lontana,
                                                              tutto il bene che allora ti volevo
                                                               e ancor ti voglio. Parmi
                                                              che la membranza rechi sulle ali
                                                               dei tanti anni bruciati
                                                               quella tua bella voce,
                                                               madre, che giaci sotto la tua croce.
                                                               Credo proprio che mai
                                                               per me ci sarà un giorno
                                                               senza le tue parole,
                                                               quelle che ancora sento                            
                                                               nella mente e nel cuore
                                                              quando sogno di stringer la tua mano.
                                                              E tutti i dì si posa nel mattino
                                                              l’usignolo su un ramo qui vicino
                                                              e canta una canzone proprio a te
                                                               tutta in levare e scendere, che culla
                                                               il cuore triste e alimenta un poco,
                                                               quando se n’è partito,
                                                              quella brace che resta dopo il fuoco.


 

sabato 3 agosto 2013

Poesie vincitrici a Mellana di Boves

Disse ti amo

Disse ti amo
mentre mani separavano mani
e lei diveniva figura lontana
irraggiungibile

Disse ti amo
rivolgendosi al cuore coperto
da un camice a righe e un numero
che cancellava la dignità e il nome

Disse ti amo
e lo videro sorridere
come uno sciocco
anche quando le gambe furono così esili
da non riuscire a reggere
neppure l’anima

Disse ti amo
nelle notti rannicchiate di ossa contro ossa
mentre il pensiero solcava il filo spinato
a cercare il conforto delle stelle

Disse ti amo anche quando come fumo
passò dal camino
nuvola libera, sognò di diventare pioggia,
cadere sul volto di lei
a riempirle gli occhi
a lavare il dolore

Stefano Borghi
Cornaredo, Milano



Alle cinque della sera

Ed io muoio ogni giorno alle cinque della sera
deriso, cieco, sospinto e calunniato
chino nella sabbia sconsacrata di una arena
tra le risa degli astanti
arreso all’infinita lacrima del sogno
ad un vuoto tra le spine, ad un urlo straziato di giovenca
vedo solo buio sopra i fioriti davanzali
e timidi ventagli, e donne con camicie fresche di bucato
colori forti ed una chitarra sospinta tra gli scanni

tutto si piega, si asciuga sotto il sole
il sangue ed il flamenco
gli embrici curvati sulla fragile arenaria
quando il pelo lucente è trafitto dal pugnale
ed un uomo armeggia tra le mie ossa chiare
spegne le tempie, la mia vita
discende tra le tibie, buca il mio ventre
come falco lanciato sulla preda
c’è un odore sommesso di letame, il lezzo scuro della morte
mentre io lentamente dondolo, barcollo
mi capovolgo senza vita in un bemolle lento
le zampe in aria, a danza ferma, nell’arpeggio dei cedri che si alza.
È polvere la morte, è sangue che zampilla, ogni giorno striscia sul grano lieve
e mi trafigge il cuore, ancora ed ancora
ogni volta alle cinque della sera.
In un cerimoniale lento, che si ripete all’infinito.

Tiziana Monari
Prato