lunedì 19 settembre 2016

Soddisfazione per il “Parole ed Immagini”



 

 

Domenica pomeriggio 15 luglio, a Mellana di Boves, la ventiseiesima edizione del Concorso nazionale poetico, fotografico, artistico «Parole ed Immagini», ha vissuto la sua premiazione, con presenti, oltre a bovesani, cuneesi e piemontesi, autori dall’Emilia (la piacentina Maria Francesca Giovelli), Toscana (Paolo Ferretti), Liguria (sia fotografi come Pietro Gandolfo che poeti come Pietro Baccino e Giuseppe Ramella), Lazio (con un Massimo Cerina arrivato sin da Latina)...

Anche in questa edizione gli organizzatori non hanno nascosto la soddisfazione per opere, arrivate da ogni parte d’Italia, di ottimo livello, tra cui sottolineano quelle della sezione “simbolo”, di “abbinamento parole ed immagini”, a partire dalle vincitrici:

Nei pacchi di libri (e per i vincitori cesti con anche prodotti locali) vi era, acconto a quanto offerto dai vari sponsor, case editrici (da Primalpe, alla Araba Fenice)  e libreria locali (da “Senza Polvere” a Stella Maris, all’Ippogrifo, al Centro Libri Usati...), oltre che dalla Cassa Rurale bovesana e dall’Alpitour, la più recente pubblicazione del  Circolo, un “Parole ed Immagini Story”, volumetto di sessantaquattro pagine, edito dalla Tipolito Europa, sull’iniziativa (è in vendita nell’edicola bovesana Bisotto di Piazza Italia ed in librerie cuneesi al prezzo di 8 euro). Il curatore Adriano Toselli ha spiegato che non voleva essere una “antologia” (“servirebbero almeno quattrocento pagine, con selezione difficilissima, dopo quasi trenta anni di attività”), quanto un “catalogo”, un “campionario”, una “esposizione ideale” nella quale sono rappresentati tutti i vari generi e stili che hanno partecipato alle varie sezioni, un “punto di arrivo, bilancio, per nuova partenza”... Ne fanno parte corpose introduzioni, poesie e prose, anche di giovani, con sedici pagine centrali fotografiche a colori. “Non si pensi che la scelta fatta sia stata facile... Ci siamo consolando pensando allo spazio meritato da concedere ad altri nel futuro... Finiamo questa ventiseiesima edizione molto più ottimisti di un anno fa sia per questa pubblicazione, che ci ha aiutato come morale, sia per la partecipazione che resta, continua, anche al livello di visitatori, sia per un interesse che sembra coinvolgere anche giovani... Abbiamo la sensazione di sentici meno soli. Certo sempre attenti bisogna essere all’evolversi dei tempi, pronti a qualche cambiamento (e ne abbiamo in progetto parecchi, già alla prossima edizione), come sempre abbiamo cercato di fare, pur restando noi stessi... Forse quando siamo partiti un po’ all’avanguardia eravamo (col discorso di parole ed immagini insieme, prima che esistessero i computer ed internet), se no non saremmo durati tanto... Noi non siamo un evento, anche visto che al momento lo risulta essere anche una bella spaghettata, siamo un progetto culturale condotto con tanto impegno, senza risorse proprio sconfinate sin dall’inizio, portato avanti con serietà evitando la seriosità, rifuggendo, nella tradizione contadina cuneese, il darci le arie... In questi ultimi anni dobbiamo davvero ringraziare la Parrocchia mellanese per il suo sostegno anche concreto, giunto quando è mancato quello di Comune ed altri Enti”.

Le giurie risultavano formate da Valentina Biarese, Giorgio Casiraghi ed Alessandro Giordanetto (con la consulenza, per dialetti e lingue naturali, di Candida Rabbia), per gli “scritti”, da Valentina Biarese, Giampaolo Angius Giorgio Casiraghi e Sergio Carletto per la sezione “simbolo”, di abbinamento “Parole ed Immagini”, da Grazia Bertano, Cornelio Cerato e Giorgio Olivero, coordinati da Beppe Andreis, per le fotografie.

Per la “Poesia e prosa giovane” ha trionfato Luce Santato, di Lendinara (Rovigo), figlia della partecipante, e pluripremiata, Gloria Venturini (preceduta nella vittoria della sezione, anni fa, dalla sorella maggiore). È arrivata prima con la intensa poesia “Unico fra tanti”, che ha preceduto, nell’anonimato, la sempre sua “L’ultimo canto”. La sezione, meno partecipata dei primi anni, vista minor abitudine dei giovani a scrivere, ha vissuto sempre del contributo degli allievi del professore, di origini cuneesi, Maurilio Guercilena, insegnante al Liceo “Novello” di Codogno (Lodi). Gli organizzatori hanno notato, in generale, nelle opere dei giovani certa nota di pessimismo e tristezza.

Consola oceanica presenza di giovani (quasi trecento) alla sezione riservata ai ragazzi in età scolare, non competitiva, “Invito alla scrittura”, con tantissimi “rivoiresi”, ma  non solo loro.

Nella “Poesia a tema libero in italiano” la vittoria è andata “Mani da vecchio” di Pietro Baccino, di Savona, che affronta, con ironia e serenità, il tema dell’invecchiare, lontano da cupi temi di tragedia. Il fatto che l’autore sia arrivato seconda anche nella sezione di “dialetti e lingue naturali”, col suo ligure, un po’ “piemontese”, d’entroterra, testimonia come quando si sa scrivere bene lo si riesca a fare con buoni risultati sia nella lingua nazionale che in quella regionale e locale.

Secondo è arrivato, con “Palcoscenico 2015”, Adalberto Torelli, di Cuneo, partecipante fisso dell’iniziativa, che è andato vicino a bissare il successo di metà anni Novanta con “Palcoscenico”. Gli organizzatori hanno fatto notare, con digressione storica, la differenza tra le due opere: più giocosa e piena di speranze la prima, gonfia di stanchezza la seconda, ambientata in un teatro degradato da tempo ed incuria, senza più la gioia di “offrirsi al pubblico, agli altri”, anche segno di evoluzioni, non positive, dei nostri tempi.

Al terzo posto è arrivata la lirica “Chi mi chiama soldato (ad un fante zappatore, Asiago 1917)” di Maria Francesca Giovelli, da Caorso (Piacenza), altra partecipante abituale, presente, buono, e delicato, spunto per gli organizzatori per ripromettersi lavoro di ricerca sulle vicende ai piedi della Bisalta di un secolo fa, durante la “Prima Guerra Mondiale”.

Per la “ Prosa a tema libero in italiano” si è confermato vincitore un cuneese, Paolo Arnolfo, di Busca, con “Quello che corre”, costruito con l’abituale eleganza e sensibilità.

Ha preceduto  “Come le mele” di Gloria Venturini, da Lendinara (Rovigo), riflessione esistenziale e l’ironico “Un momento tanto atteso” di Ornella Zambelli, da Calolziocorte (Lecco).

Nei “Dialetti e lingue naturali” vi è stato nuovo trionfo del cuneese Antonio Tavella, di Racconigi, impegnato da anni in grande ricerca culturale per aumentare lo spessore poetico del piemontese, riscoprendone termini ormai in disuso, dimenticati. Ha trionfato nelle poesie con “A l’ësfiorì ‘d na reusa”, precedendo “Ra me isura” di Pietro Baccino, le ex aequo “Ra carità” di Elda Rasero, astigiana di Portacomaro e “La puèra” di Giuseppe Ramella imperiese di Caravonica, le segnalate “Poesie” di Nicolina Ros,  pordenonese di San Quirino e “Caleidoscòp” di Giuseppe Mina, bovesano residente ad Ancona. Ha ripetuto il successo nelle prose (“Le conte”) con “Ëd feste da bal”, davanti a “Pidrèn e sò cavalin-a” di Luciano Ravizza, astigiano di Castell’Alfero e “Fiorin e l’amor për soa vigna” del carmagnolese Attilio Rossi (tutti due presenti, per letture, accanto a Guido Musso, lo spinettese studioso Barba Guido).

Tra gli “abbinamenti di parole ed immagini” il lavoro delle bolognesi Anna Maura Alvoni e Lidia Calzolari, articolatissimo, è stato giudicato uno dei migliori mai presentati alla manifestazione, tanto da far invitare le autrici ad esposizione personale per l’anno prossimo. Le ha seguite l’opera di Massimo Cerina da Latina (presente), con la romana Daria De Benedetti, notata particolarmente per il testo, pur con belle immagini rispondenti. Terzo si è classificato l’aostano Nicola Molino, per insieme di lavori giocosi, brillanti, ed ironici. Alessandro Dattola, cuneese di Frabosa Sottana, ha concesso lettura di sua opera segnalata, “Il dissidente”, con testo raffinato e, come suo solito, curata presentazione estetica.

Nelle sezioni fotografiche molti allori ha racconto ancora Pietro Gandolfo, di Chiusanico (Imperia),

Primo nella sezione “Il lavoro dei campi” ( ovvero “Non proprio di soli fagiuoli si vive”), con l’originale “Ulivi – la raccolta”, ma anche segnalato per “La raccolta del fieno”, vincitore della sezione “Vi mostro quello che cucino” (il buono da mangiare anche bello da vedere), con “Panini”, e, per non farsi mancare nulla, secondo nella sezione “Il colore viola”.

La sezione “Magiche luci sul finir del giorno, il crepuscolo” ha visto l’affermazione della cuneese (già messasi in evidenza) Bianca Maria Capanna, con i suoi “Pescatori”. Sempre femminile è stato il successo nella partecipatissima sezione “Il colore viola”, con la fossanese Loredana Berteina (componente del Club Espera di Roccavione). Vero reportage di viaggio del cervaschese Paolo Bussone ha trionfato nella sezione “Le mille ed una notte” (luoghi e cultura del Mondo arabo e mediterraneo).

Si son messi in evidenza il genovese  Nicola Daddi (segnalato, come il bovesano Michele Siciliano, nella sezione “Il lavoro dei campi”, ma anche secondo in quella sul “crepuscolo” e terzo in quella sul “colore viola”), il pisano di Fornacette Paolo Ferretti (terzo sia nella sezione “lavoro dei campi” che in quella del “crepuscolo”), il cuneese Ermanno Agostinetto (secondo nella sezione “lavoro dei campi”, anche lui dell’Espera di Roccavione),  Mattia Bussone, cuneese di Gaiola (secondo nella sezione “Vi mostro quello che cucino”) e Marco Bianchini, di Reggio Emilia (terzo nella stessa sezione, con deliziosa “natura morta”, utile anche alla promozione dei prodotti del suo territorio).

La giuria ha evidenziato il buon livello medio con quasi tutte le opere ammesse all’esposizione. Molti partecipanti, e premiati, del Cuneese facevano parte del Club Espera di Roccavione. Per l’anno prossimo gli organizzatori già hanno anticipato due sezioni: “Autoritratto artistico” e “Il colore arancio”.

La cerimonia è stata terminata con lettura di Vittore Giraudo, di Cuneo,  premio speciale ancora per la sezione satira.

Non son mancati i ringraziamenti ai volontari che, con il loro lavoro, senza ombra di rimborso spese, hanno permesso tutto: Giampaolo Angius, Dario Colmo, Marina Grasso, Lelia Marizza, Ettore Ramero…

 

Foto di Beppe Andreis


 CS

martedì 13 settembre 2016

Prose di Paolo Arnolfo


QUELLO CHE CORRE

 

Sono io, quello che corre. Se uno è nato per correre, correrà: che gli piaccia o no. Potrà anche smettere di farlo per qualche anno. Anche molti anni, se sarà costante e determinato. È evidente, però, che prima o poi ricomincerà a sentire quel sacro impulso, quell’impellente necessità. E non saprà resistere, nossignore.

Adesso, per esempio. Adesso lo sento nelle gambe, nei piedi: hanno voglia di macinare asfalto. Il petto mi sta chiedendo disperatamente di potersi gonfiare ritmicamente, gli occhi hanno voglia di guardare verso l’orizzonte, guidando i passi in quella direzione nell’eterno gioco di chi rincorre un obiettivo pur senza poterlo raggiungere.

Non mi succedeva da tanto tempo. Mi ero illuso che quel demone, perché di demone si tratta, non sarebbe tornato. Quanto tempo sarà passato? Molto, davvero. Troppo perché la mia mente, annebbiata da quel richiamo, possa ricomporsi e restituirmi un dato certo; potrebbe essere un anno, ma potrebbero essere dieci: in questo momento non ha alcuna importanza. Non devo prendere in giro me stesso: in questi ultimi giorni ho avvertito il sentore che il desiderio irresistibile di infilare le scarpe da corsa sarebbe tornato a breve. Altrimenti non avrei aperto e richiuso quel cassetto almeno una decina di volte. Un cassetto, nell’armadio della stanza da letto, che non ho mai saputo chiudere in modo definitivo. Per quanto io abbia cercato di credere che non avrei mai più corso, non mi sono mai sbarazzato del suo contenuto: eppure sarebbe stata la cosa più logica. Negli altri ambiti della mia vita sono sempre stato molto deciso nelle mie scelte. “Irrevocabile” per me non è soltanto una parola, ma un’ideale. Non ho mai accettato compromessi, non ho mai rinegoziato una scelta che ritenessi giusta. Sono rimasto un politico locale, un pesce piccolo: eppure mi sarebbe bastato rimangiarmi qualche parola data per ascendere al gotha della politica nazionale. La strada era spianata da qualcuno più in alto di me, ma avrei dovuto rinnegare, revocare, tradire: il prezzo era troppo alto. E in amore? Sempre al fianco della mia moglie adorata; anche quando un nuovo e folgorante amore, una donna che mi aveva letteralmente rapito il cuore, aveva fatto di tutto per convincermi a rimangiare la parola data davanti all’altare. Ma io ho una sola parola e la mia vita lo ha sempre testimoniato: è per questo motivo che mia moglie ha accettato il mio pentimento e perdonato quella scappatella, per la verità consumata soltanto col cuore. Rimanere con lei nonostante quel turbamento fu la scelta giusta. Ne sono certo ora, guardandola dormire nel letto accanto a me. Non potrei desiderare una compagna migliore per la mia vita. Ho scelto bene e sono stato irrevocabile, come per ogni altra cosa. Tranne quel cassetto, il cui contenuto non è mai stato gettato via. Una parte di me ha sempre saputo che un giorno l’avrei riaperto, e non solo per scrutare malinconicamente quei tesori dei bei tempi andati. Lì dentro ci sono le scarpe da corsa: semplici, il modello base di una nota catena di negozi sportivi. Non sono mai stato un professionista, pur avendo disputato qualche gara coi colori della polisportiva del mio paesello: proprio per questo, non ho mai preteso di avere l’attrezzatura sportiva più costosa e performante. Infatti, anche gli altri tesori contenuti lì dentro hanno un valore commerciale prossimo allo zero: vecchie magliette da due soldi, poco traspiranti e per nulla griffate; pantaloncini con le stesse caratteristiche.

Manca poco al momento in cui infilerò quegli indumenti che ormai hanno dimenticato la forma del mio corpo: in ogni caso, non la riconoscerebbero. Gli anni passati nell’inattività hanno fatto scempio dei muscoli torniti delle mie gambe e dalla gradevole larghezza delle mie spalle, regalandomi invece una discreta abbondanza nel girovita. Non importa, sono molto lontani i tempi in cui ho corso per dare dignità e prestanza al mio corpo. Quella fu soltanto la prima fase, l’approccio: l’unico momento in cui correre non era una passione ma una gravosa necessità. Una fase durata pochissimo, per fortuna.

Scendo dal letto nel cuore della notte, mentre mia moglie sta dormendo. Non mi piace fare le cose senza la sua approvazione, ma so che non capirebbe. So che c’è qualcosa di morboso e insano nel mio desiderio di correre: per questo lo farò di notte, senza che nessuno sappia, senza che nessuno veda. Mi sono addormentato dicendomi: “Se riuscirai a svegliarti nel cuore della notte, allora lo farai”. Era un tentativo di autoboicottarmi: ho un sonno pesante e regolare. Eppure, proprio come i bambini si svegliano a ore impossibili il mattino di Natale, ansiosi di spacchettare i loro doni, i miei occhi si sono aperti alle tre in punto.

Quale grande emozione sto provando nell’indossare il mio completo verde, il mio preferito di quei bei tempi andati: quello che meglio si abbina alle mie scarpe, che tornano a cingere i miei piedi con la stessa precisione di un tempo. Con fare furtivo, abbandono la stanza. Prima di uscire di casa, colto da un moto di buon senso in mezzo a tutta quella bramosia assurda e irrefrenabile, lascio un biglietto per mia moglie sul tavolo. Si spaventerebbe a morte se si svegliasse e non mi trovasse a casa.

E poi semplicemente corro, come se non avessi mai smesso di farlo. In un primo momento i piedi si ribellano al peso eccessivo del mio corpo, comunicandomi il loro disappunto con qualche blanda fitta. Anche le gambe fanno fatica a riprendere il ritmo. Non torneranno più a correre come lo facevano anni fa, ma non si sono scordate come si fa. Chi è nato per correre, semplicemente corre.

Penso a questo mentre mi avvio verso una salita leggera ma prolungata. Non ho nemmeno dovuto meditare sulla strada da prendere: i miei piedi hanno scelto per me quella che hanno percorso migliaia di volte. Quella che prendevo quando avevo poco tempo: sei o sette chilometri, non ricordo bene, in gran parte asfaltati ma con un gradevole pezzo di sterrato. Una salita morbida, poi una cinquantina di metri con una pendenza decisamente più accentuata a cui segue una graduale discesa che mi riporterà a casa. Se ce la farò a percorrere tutta la strada. Ma certo che ce la farò.

Il cuore riprende regolarità, almeno mi pare. Il respiro fa lo stesso. Sto andando pianissimo: ci sarebbe di che vergognarsi, ma sono tanto fuori allenamento da perdonarmelo. E poi stanotte la velocità non conta: l’unica cosa che ha importanza è che sono di nuovo io… quello che corre.

Sono nato per correre ma fino all’età di 35 anni non l’ho capito. A quell’età muovevo i primi passi della mia carriera politica investendovi ogni mia energia: restava poco tempo per i passi ben più “fisici” che mi avrebbero impedito di arrivare a pesare cento chili. Fino a qualche anno prima, ai tempi dell’Università, avevo rallentato l’incedere dell’obesità facendo qualche esercizio fisico ogni giorno. Finita la scuola mi ero sposato, ero entrato nel partito ed ero ingrassato strepitosamente. Fino ai cento. Fino alla svolta.

Poco prima di uscire per la prima goffa e claudicante corsa, avevo guardato mia moglie giocare con nostro figlio, che allora aveva due anni. Da tempo meditavo su quante cose non avrei potuto fare con lui se non avessi rimesso sotto controllo il mio peso; la cosa che più mi feriva, però, era che un giorno avrebbe potuto essere in imbarazzo per la mia mole. Non avevo giustificazioni valide, come malattie del metabolismo o chissà cos’altro: ero soltanto pigro e sedentario, sin da quando ero bambino. Avrei sconfitto quelle cattive abitudini correndo: sarei stato irrevocabile anche in quella decisione. Quella prima volta fu disastrosa: cinque minuti di sudore e dolori, quel cenno di saluto scambiato con un vicino di casa che aveva faticato vistosamente a non ridere davanti allo spettacolo del ciccione del quartiere che con la grazia di una valanga arrancava su quella stradina. Ma non mi arresi: mi ritagliai ogni giorno almeno mezz’ora da dedicare a quell’attività. La volontà era più forte della vergogna e i risultati più forti delle difficoltà: i cento diventarono abbastanza presto novanta, poi i novanta divennero ottanta.

In questo momento le difficoltà non mancano: le energie scivolano via. Ma io bado al risultato: la mente è di nuovo lucida, affilata. Non ha più paura di nulla e ripercorre con serenità pagine della mia storia che ho evitato per troppo tempo. Rivive tanti anni di corse quasi quotidiane e ripensa a un corpo, il mio, che era diventato perfetto ai miei occhi. E perfetta era tutta la mia vita: certo, è facile dirlo col senno di poi; allora avrei trovato sicuramente qualche ambito in cui vedere margini di miglioramento. Ma ero felice, e non lo nascondevo certamente a me stesso. Mio figlio a quindici anni si mise a correre, senza che gliel’avessi mai suggerito: l’esempio è più forte delle parole. Vedeva partire suo papà arrabbiato per qualche problema col partito o teso per le elezioni imminenti; qualche ora dopo lo vedeva tornare a casa rilassato e sorridente. Correva da solo, il mio ragazzo: capitava che uscissimo insieme di casa ed allora lui aspettava che io partissi. Se andavo a destra, lui si incamminava verso sinistra, e viceversa. Era squisitamente adolescente in questo: sapeva che non poteva tenere il mio ritmo, reso invidiabile da più di dieci anni di allenamenti, e per questo evitava accuratamente il confronto. Per i suoi diciassette anni, proprio nel giorno del suo compleanno, lui si regalò una lunga corsa di un’ora al mio fianco, senza dire una parola: semplicemente, partì con me e tenne il mio passo. Confesso che non forzai per niente l’andatura: avere il mio ragazzo al mio fianco era stupendo e non volevo certo umiliarlo.

Da quel giorno corremmo sempre più spesso insieme, e le mie precauzioni presto diventarono inutili. Lui, come è giusto che sia nell’avvicendarsi delle generazioni, non mi prestò altrettanta cortesia: godette silenziosamente quando forte dei suoi vent’anni diventò più veloce e resistente di me. Mi aspettava in cima a ogni salita, invertiva il senso di marcia dopo ogni allungo, perché potessimo ricongiungerci. Il nostro rapporto era solido e quelle corse insieme, per cui ci ritagliavamo un paio d’ore ogni weekend anche quando lui iniziò l’Università, erano il nostro spazio di confronto unico e speciale. Sua madre ce lo invidiava, ma non si unì mai a noi nonostante i miei ripetuti inviti: la corsa è una vocazione, non la si può imporre né insegnare.

Ne è passato di tempo da quei giorni felici. Io adesso sono arrivato alla salita più impegnativa ed ho paura di non farcela. Allo stesso modo in cui per anni e anni non sono riuscito a ripercorrere coi miei pensieri fino in fondo l’ultimo allenamento con mio figlio.

Una giornata tiepida di primavera, un cielo sereno. La rivedo nella mia testa: per anni mi sono impedito di ritornarci, ma non ho dimenticato un solo dettaglio. Lui, mio figlio, è in splendida forma, ha compiuto da poco ventisei anni e ha un’energia che ormai io, alla soglia dei sessanta, posso solo invidiare. Eppure quel giorno corriamo insieme: lo facciamo sempre meno spesso, per me è sempre più dura. Percorre tutta una salita, poi ridiscende trotterellando mentre io arranco per raggiungere la cima. Mi fermo e appoggio le mani sulle mie ginocchia, ansimando: una gran brutta salita, e poi non ci sono più abituato dato che ultimamente corro solo più in piano. Lo guardo venire su a tutta velocità e poi avviene tutto nella frazione di un secondo. Quando ormai è a pochi metri da me vedo il suo sguardo irrigidirsi, come terrorizzato. Apre la bocca in un’orribile espressione di smarrimento e mentre cade il suo sguardo penetra nei miei occhi. Riesco a fare uno scatto verso di lui e afferrarlo prima che finisca a terra. Chiamo forte il suo nome, ma lui si limita a rantolare versi incomprensibili. Sollevo il suo viso e c’è ancora quell’espressione incredula e stranita. Poi tossisce più e più volte, ed ogni volta mi investe con un fiotto di sangue. Ora ha perso i sensi. Vorrei aver dimenticato anche solo qualche dettaglio in tutti questi anni, ma non è così! Ricordo la corsa a casa: i cellulari ancora non sono molto diffusi. Quella volta supero le mie possibilità, raggiungo la massima velocità della mia vita (la pagherò non riuscendo quasi a camminare il giorno successivo). Poi la chiamata al 118, la corsa in ambulanza, con mio figlio che nel frattempo ha ripreso i sensi. I giorni in ospedale, nella terribile attesa di saperne di più.

La mia salita odierna è finita, e sono ancora in piedi. Sono in cima. Anche nella mia memoria, il ricordo più doloroso è alle spalle: è quella caduta, quel sangue sul mio volto, quello sguardo vitreo. Eppure, come allora, il peggio viene dopo, quando la salita è finita.

Il dottore convoca me e mia moglie in una stanza appartata, e con tutta la delicatezza di cui è capace fa calare sulle nostre spalle una diagnosi che è come un macigno. Bastano il tono di voce del medico e il suo sguardo per capire che non c’è scampo.

Poi mio figlio muore, qualche mese dopo. Ed io non ho più corso, mai, nemmeno cento metri, nemmeno per prendere un treno. Forse avevo paura di rivedere nella mia mente quello sguardo, di risentire sulla mia pelle quegli schizzi di sangue. Fino ad oggi.

Ed in effetti è andata esattamente così: ho ripercorso quel dolore. Ma questo mi ha dato forza anziché togliermene. Mi rendo conto che in questi ultimi vent’anni non ho fatto che scappare da un ricordo e invece avrei dovuto affrontarlo. Sì, esatto, chi voglio prendere in giro? So benissimo quanto tempo è passato da quell’ultima corsa: l’anzianità non ha portato via un solo grammo della mia lucidità. Sono passati vent’anni, e tra pochi giorni ne compirò ottanta. Gli ultimi venti li ho passati a piangere. Gli ultimi venti, non ho mai detto a mia moglie che la amo. Gli ultimi venti, non ho mai sorriso.

Eppure adesso i miei passi si sono fatti più leggeri: non sento più gli acciacchi dell’età, che han fatto sì che questa breve corsetta diventasse un’odissea. D’un tratto, sto correndo qualche metro sopra all’asfalto, come se stessi volando: voltandomi indietro vedo il mio corpo a terra, riverso sul ciglio della strada. Un infarto? Sento una pacca sulla spalla: qualcuno si è affiancato a me. E’ mio figlio. Vorrei fermarmi ma lui non si ferma: gli prendo dietro. “Hai visto, papà. Noi pensiamo sempre di avere il controllo sulle nostre vite, di essere noi ‘quelli che corrono’. Ma la verità è che tu non sei quello che corre, non del tutto. E nemmeno io. È la vita. È lei quella che corre, noi arranchiamo come cani dietro il coniglio. E un bel giorno, chi prima chi dopo, dobbiamo lasciare che il coniglio se ne vada e fermarci dove siamo. Ma fino ad allora, non possiamo mollare. Sono vent’anni che sei fermo, papà: troppi per uno nato per correre. Ora devi riprendere”. Provo ad obiettare che pare tardi per questi discorsi, dato che sono morto anche io. Ma non è vero.

Infatti, apro gli occhi in un letto d’ospedale. E no, non era un infarto, era solo un malore. Lei è lì al mio fianco, con lo sguardo preoccupato: esigerà delle spiegazioni e se non vorrò metterci di mezzo angeli e apparizioni di nostro figlio, dovrò tenermi sul vago. A ottant’anni i miei giorni da corridore sono finiti: quando tornerò a casa, svuoterò quel cassetto. Ma la vita stessa è una corsa, più impegnativa e importante di qualsiasi altra: ha ragione mio figlio, devo tornare a correrla. Ed allora faccio il primo passo: stringo la mano di mia moglie, e prima che possa rimproverarmi o chiedermi qualsiasi cosa, le sussurro con un filo di voce che la amo.



Un’ultima lunga arrampicata

L’ho già fatto una volta qualche anno fa, ma all’ultimo mi ero tirato indietro. Quel campione di solidarietà ed empatia del mio vecchio amico mi aveva detto, pur addolcendo la pillola coi suoi proverbiali giri di parole, che forse quello che volevo era soltanto un po’ di attenzione. Bel modo di cercare le luci della ribalta, tentare il suicidio in piena notte senza nessuno in giro, e parlarne solo con lui. Bell’amico. E non è nemmeno il peggiore.

Comunque, l’arrampicata allora era stata molto più breve. Era un semplice parapetto, di un ponte che deve essere del 1700 o qualcosa del genere. È a un chilometro e mezzo da casa mia, ci sono passato sopra non so quante volte durante le mie lunghe corse, o nelle mie eterne passeggiata malinconiche, con un disco hip-hop nel lettore cd. Quella notte mi faceva un po’ meno paura. Perché, lo ammetto, in generale quel ponte mi ha sempre terrorizzato. Ne ero attratto e ci passavo sopra frequentemente, ma quando poi ero a metà percorso e guardavo il fiume, laggiù, lontano e impetuoso, il mio cuore aveva sempre un sobbalzo. Prima di quella notte non ero mai stato un ragazzo incline a pensieri suicidi: di tanto in tanto la mente cadeva lì, ma non frequentemente e non concretamente. Certo, sapevo che se mai avessi preso una decisione del genere, quello sarebbe stato il posto: era il cuore a dirmelo. Così, quella sera, sfidando una paura arcaica e immotivata che mi attanagliava sin da quando ero bambino, mi ero agilmente arrampicato sul parapetto e avevo guardato giù per un tempo che sembrava infinito. In realtà, credo non fossero passati più di cinque spaventosi minuti. Non ero desideroso di attenzioni o belle parole: volevo semplicemente farla finita. Ma non ne avevo avuto il coraggio. E dire che di buoni motivi ne avevo tanti, ma si hanno sempre anche mille ottime ragioni per vivere. Non avevo versato una singola lacrima in quel frangente, e questa cosa, ripensandoci, mi ha sempre meravigliato. So di essere un ragazzone alto un metro e novanta e di essere abbondantemente sopra i cento chili (vedere per credere, neanche un filo di grasso: ossa grosse e muscoli perfetti), tuttavia al di là di queste apparenze da guerriero sono sempre stato propenso alle lacrime. Ho pianto per i film Disney e per qualsiasi film in cui fossero richieste lacrime, e non parliamo poi di quando finivano le mie storie d’amore, sciogliendosi come neve al sole. Ho singhiozzato senza pudore a qualsiasi funerale, anche a quello di parenti lontani di cui a malapena ricordavo il volto. Mi sono commosso alle lauree dei miei amici e ai loro matrimoni. Ma non avevo nemmeno gli occhi lucidi quella notte in cui ho guardato la mia vita scorrere trenta metri più in basso, nella forma di un fiume impetuoso. Non tiravo su col naso mentre nella mia mente vorticavano tutti i motivi che mi avevano spinto lassù. Nessuno singhiozzo, nemmeno di quelli tanto deboli da essere impercettibili, mentre la vertigine mi dava un gran giramento di testa che per poco non mi faceva scivolare giù anche senza la mia precisa volontà. Dopo quel tempo infinito o infinitesimo, non so di preciso, ero tornato coi piedi per terra, in senso fisico e metaforico. Con un agile balzo ero tornato sul ponte, poi di corsa a casa. Passando accanto a casa dei miei, avevo pensato al dispiacere che avrei dato loro, valutando poi che non mi importava praticamente nulla di questo. Ero rimasto al mondo perché, a differenza di tanti altri disperati, avevo ancora una missione da compiere. Un compito da portare a termine, prima di levare le tende. Non l’avrei data vinta a tutti quelli che mi avevano ostacolato.

Ora però è diverso. Ora la missione è compiuta, anche se sarebbe forse più corretto dire che la sto compiendo. L’arrampicata è più lunga, più spettacolare di quella compiuta in una notte ormai lontana. Sembrano ore che salgo, piolo dopo piolo: anche questa volta però è l’emozione che sta distorcendo il tempo, allungandolo a dismisura. Non sono che pochi secondi, non sono che cinque o sei pioli della scala di metallo. C’è tanta gente, questa volta. Se mi tirassi indietro all’ultimo, questa volta il mio amico avrebbe tutte le ragioni per dire che l’ho fatto per attirare l’attenzione. Li guardo dall’alto in basso, mi urlano di non farlo. Le loro facce sono sconvolte, ma anche molto divertite, è inutile che lo neghino. La gente vive per il momento, per assistere a qualcosa di epico e indimenticabile, qualcosa la cui vista non lascerà indifferenti, qualcosa che cambierà la giornata. Dietro al loro “Non farlo!” si nasconde un pressante “Fallo! Buttati!”: è impossibile da nascondere, troppo evidente e tutto sommato giustificabile. Non li ascolto, comunque: non è più tempo di tirarsi indietro, ora tutto è compiuto.

Il parallelo con quella notte lontana è ovvio, troppo scontato per non pensarci. Che senso ha avuto tirare avanti per quasi altri dieci anni? Che senso hanno avuto le sofferenze, le difficoltà, i sacrifici? Avrebbe potuto finire tutto quando avevo vent’anni, ed ero soltanto un ragazzino emotivamente instabile e con qualche disagio di troppo. Forse la vita intera è una scalata, una lunga arrampicata prima di cadere. Ed allora mi viene da pensare che avrebbe fatto meno male, cadere dieci anni fa: sarei caduto da meno in alto. Ora farà male, perché c’è un’intera vita alle mie spalle: giorni che diventano mesi, spesi tra un lavoro estenuante e gli allenamenti. Mesi che diventano anni, senza raggiungere il successo nello sport a cui ho dedicato la parte più sincera e bella della mia vita. Anni che si sommano l’uno all’altro, fuggendo disperatamente dalla commiserazione nascosta negli occhi di chi un giorno mi era stato accanto: la famiglia, le ex, gli amici. Tutti tanto ipocriti da nascondere i loro squallidi “Te l’avevo detto!” dietro una parvenza di incoraggiamento e sostegno. Qualcuno tanto indelicato da offrire un supporto economico, ben sapendo le ristrettezze a cui mi conduce questa vita. Teneteveli i vostri soldini, tenetevele le vostre vite tutte uguali. Voi ve lo sognate, un volo così: ve lo sognate ogni notte, mentre state abbracciati ad un partner che non siete affatto sicuri di amare. Sognate di volare ogni mattina, quando vi alzate e sfrecciate verso un ufficio che siete sicurissimi di detestare. Volate col cuore, qualche volta, ma il vostro corpo è inchiodato a terra da mutui da pagare, o affitti, o rate. Sapete qual è la cosa divertente? Che alla fine ci cadete pure voi, dalla scala. Vi fa troppa paura per scalarla fino alle sue vette più inaccessibili, così vi accontentate di volare basso. Ma salite inesorabilmente lo stesso. Un giorno poi cadrete pure voi, perché non si può restare per sempre sulla scala. Morirete, insomma: morirete anche voi che per paura non avete mai veramente vissuto. Mai sognato, mai volato.

Ora io sto per volare, invece: volerà il mio cuore, voleranno i miei sogni, il mio corpo. Non sentirò nemmeno lo schianto. Ho fatto bene a non buttarmi dieci anni fa. È stata una scalata tortuosa, e se quel giorno avessi fatto un solo passo in più nel vuoto, mi sarei risparmiato tante fatiche. Ma ora non potrei vedere le vostre facce mentre mi guardate salire, andare in alto, dove voi non potreste mai. Sono felice di essere qui adesso. A voi non resta che guardare, rimpiangere quelle brutte cose che mi avete detto, disperarvi per avermi provocato dicendo che non l’avrei mai fatto.

Manca poco e sarò in cima: lascio che ogni volta che il mio piede si solleva stancamente, per poi appoggiarsi sul piolo più in alto, la mia mente corra verso qualcuno di voi. Qualcuno che ho amato, qualcuno che non ha creduto in me.

Il primo piolo mi porta alla mamma e al papà. Che volevano solo il meglio per me, che avevano fatto sacrifici per farmi studiare. Vedevano di cattivo occhio la mia passione per lo sport. Impazzivano di rabbia quando, in città, trovavo qualche palestra che mi faceva lavorare coi pesi nonostante io fossi troppo giovane. Il loro cuore fu spezzato quando mi iscrissi a quell’università scadente, anche se i miei risultati scolastici mi avrebbero consentito di accedere alle migliori. Spiegateglielo, ai miei vecchi, che quelle migliori non mi avrebbero permesso di inseguire il mio sogno. Ed allora mi avevano detto che non avrei più visto un centesimo, da loro. Avevamo litigato duramente in quell’occasione e per un bel po’ non ci siamo più rivolti la parola, poi negli ultimi anni ci siamo riavvicinati: il sangue è sangue, quando chiama ci puoi fare poco. Mai, però, che mi abbiano detto “Bravo” per i miei risultati: per loro sto solo sprecando una vita. Perfino adesso, che sono così vicino al mio zenit, loro mi vorrebbero avvocato.

Salgo ancora un gradino, e il mio più sincero dito medio va proprio a lui, all’avvocato di famiglia, mio fratello. Quello buono dei due, quello che non ha spezzato il cuore dei genitori. Quello che ha percorso i binari che loro avevano tracciato per noi. Poco importa che a lui quel lavoro non piaccia: si è sempre sentito superiore a me. Assaporo quest’altitudine, perché lui qui non ci sarà mai.

Penso al mio migliore amico, il “sensibile”. Gli amici dovrebbero sostenersi a vicenda, ma lui non l’ha mai fatto. È stato più deciso dei miei genitori nel criticarmi al momento dell’iscrizione all’università. A differenza dei miei genitori, era nel palazzetto la sera del mio esordio, e faceva il tifo per me. Ma non credeva in me fino in fondo, continuava a pensare che la mia vita fosse un unico, gigantesco errore. Ed io questo non lo perdonerò mai.

Sono quasi in cima, e penso alla mia donna. Puoi averne tante, nella vita. E col mio sport, il mio lavoro, insomma quel che faccio… puoi averne anche una diversa ogni sera. Ma credo che in fin dei conti si ami una volta sola, ed io ho amato lei. Quando ha accettato la mia corte, il mio esordio era ormai un passato lontano. Ero già, per così dire, affermato. Insomma, sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che sarei tornato tardi la sera, quasi tutte le sere. Sapeva che sarei stato in giro, spesso molto lontano, e che in molte sere non sarei tornato affatto. Sapeva che, quando l’avessi fatto, sarei stato stanco, ferito, troppo esausto per fare l’amore con lei. Lo sapeva e l’aveva accettato, ci aveva fatto i conti per due anni, i più belli della mia vita. Ma una volta ero tornato da uno dei miei viaggi più lunghi, un mese passato in Giappone, e la casa era semplicemente vuota. C’era una lunga lettera di scuse, che lessi una volta soltanto e poi distrussi, sapendo che non farlo avrebbe voluto dire averci a che fare per una vita intera. Se ora sono qui, è anche e soprattutto per urlarlo in faccia a te, “donna della mia vita”: avresti voluto una vita normale, un marito impiegato, un padre affettuoso per bambini comuni. È tutto più che legittimo, vecchio amore mio, ma se vuoi una vita normale come puoi scegliere un uomo che sa volare?

Il mio ultimo pensiero va a quel ragazzo che si allenava con me in palestra. Io sono qui, sul tetto del mondo, mentre lui non ha mai sfondato. Ha dovuto arrendersi ad un ruolo manageriale, lasciando il ring a chi aveva più talento di lui. Nonostante ciò, non ha mai smesso di guardarmi con sufficienza, ricordandomi ad ogni occasione utile che lui combatteva sul serio, mentre io lo facevo per finta.

Vorrei che ascoltassero tutti quella bella canzone di Bruce Springsteen, che parla del mio lavoro e soprattutto parla di me. Che racconta i sacrifici che fai per salire su quel ring, il dolore di una vita votata alla malinconia, ad un eterno viaggiare, senza vederti riconosciuto il titolo di sportivo, senza poter chiamare un posto “casa”. Una vita alla mercè di chi vorrebbe sempre qualcosa di più da te: il tuo sangue, l’umiliazione del tuo corpo, le ferite.

Sono un wrestler.

Ciò che faccio ogni sera sul ring non è finto: è predeterminato. Quando salgo sul ring, so già se vincerò o perderò. Questo fa la differenza per chi non ha mai provato questa vita. Quello che nessuno pensa, quello che nessuno sa, è che io mi faccio male davvero. A nulla vale che il tuo avversario non voglia davvero farti male, se dovrà scaraventarti a terra da altezze vertiginose. Se dovrà fracassarti una sedia sulla schiena. Se dovrà lanciarti fuori da un ring. Ogni volta che salgo su un ring, poi ne esco con qualcosa in meno. Lo regalo al mio pubblico, che è lì per divertirsi, per staccare il cervello per un paio d’ore. Non ho potuto avere una vita comune, ma ho avuto l’applauso della gente, che è come una droga: assaggialo, e non potrai più farne a meno. Non ho avuto il supporto dei miei, e nemmeno quello dei miei amici: non hanno mai creduto che sarei andato lontano. E forse nei loro cuori albergava la convinzione che, se anche ci fossi andato, non sarei stato altro che il pagliaccio più importante del circo. Non ho potuto avere una famiglia felice, perché dovevo viaggiare quasi ogni giorno in ogni angolo dell’America, per cercare quell’applauso, quell’espressione stupita che si dipinge negli occhi di chi guarda le mie follie più estreme.

Ho salito la scala che parte da una palestra di una scuola, dove ti esibisci davanti a trenta persone, e arriva all’incontro principale dello spettacolo più importante dell’anno, e del mondo. Alla faccia di chi non credeva in me, alla faccia di quel ragazzino che a vent’anni aveva paura di intraprendere quella carriera, e tergiversava su un ponte con tanti brutti pensieri in testa, rischiando di cadere giù.

Quella volta non avrei volato: sarei semplicemente caduto. Ora invece guardo laggiù: non c’è un fiume, ma un ring. Un avversario disteso a terra, che aspetta l’impatto e non farà nulla per evitarlo. È il campione del mondo, e tra pochi attimi lo sarò io. Un ultimo sguardo, un ultimo attimo di terrore, misto ad emozione e gioia. Il pubblico urla di non farlo, hanno paura, la scala è troppo alta.

No, non lo è. Non morirò, non sentirò quasi lo schianto. Perché vivo per l’applauso, vivo per dimostrare di essere il più forte, vivo per sbattere in faccia i miei successi a chi non ha mai creduto in me. Questa scala è altissima. Ma non troppo. Non se chi la sale è capace di volare.



Opere di Luce Santato


Unico fra tanti

 

Tra tutti, sei stato unico.

L’unico che mi ascoltava

quando parlavo di scarpe e vestiti,

e quando tutto andava male

tu ci davi una svolta,

quando non studiavo

mi davi ripetizioni.

Ricordi quando eravamo solo io e te

contro il mondo intero?

E quando ero triste, diventavi un supereroe,

mi proteggevi pure da un fiore.

Ora te ne sei andato,

 ma sappi che avremmo conquistato il mondo

io e te

assieme.

 

 

 

 

L'ultimo canto

 

Il primo bicchiere è per la sete;
il secondo, per la gioia,
il terzo, per il piacere;
il quarto, per la follia.
(Apuleio)

 

Ho affogato un dispiacere,

perdendo di vista la realtà.

 

Un lampo negli occhi,

due fanali accesi,

altri occhi infuocati,

bruciavano dentro,

come la rabbia,

            poi il buio,

            come un dolore

            insopportabile.

 

La vita mi è schiantata addosso.

 

Ho speso male il mio giorno,

                                               oggi.

Un oggi privo di domani,

una primavera perduta,

senza più colori d'estate,

fragranze d'autunno

            e tramonti d'inverno.

 

Nello sconforto di un momento,

in un attimo di disperazione,

una bottiglia cade vuota

nel vuoto di un corpo lacerato.

 

Un istante per perdere la vita,

un grido soffocato,

il mio ultimo canto.