giovedì 30 luglio 2020
mercoledì 29 luglio 2020
«Parole ed Immagini» esposizione: visite su prenotazione tutto agosto
L’esposizione della XXIX
edizione del Concorso «Parole ed Immagini» di Mellana di Boves,
allestita nei locali della ex scuola elementare frazionale, è stata ancora
aperta, dopo la premiazione di sabato sera 18 e le visite di domenica 19,
domenica 26, con presenza di visitatori costante. Domenica pomeriggio 26 è
stato momento, anche, di «premiazione» di Lelio Giraudo, bovesano vincitore
della sezione simbolo del Concorso, quella di «Abbinamento Parole ed Immagini»,
assente la sera del 18.L’esposizione resterà ancora allestita nelle prossime
settimane, per tutto agosto, e visitabile SOLO SU PRENOTAZIONE, telefonando al
340.3761714 (mail adriano.toselli@libero.it., http://festeggiamentimellana.blogspot.it/, https://www.facebook.com/comunediboves).
sabato 25 luglio 2020
Prosa segnalata 2020 Alessandra Forlani Bussana Vecchia
Bussana vecchia.
Alice si fermò un istante per
asciugarsi la fronte. Il sole arrabbiato di Ferragosto la riscaldava tutta,
provocandole rivoli di sudore che, colando dalla fronte, scendevano al collo e
giù sulla pelle serica, nella curva fra i seni. Nonostante gli sforzi per
renderla almeno color ambra, anche d’estate la sua pelle riluceva come pallida
porcellana. Alice non era consapevole del proprio fascino e non si era mai
guardata con gli occhi di un uomo, perlomeno non lo aveva più fatto da
moltissimo tempo. A trentadue anni poteva ancora passare tranquillamente per
una ragazzina, con i lunghi capelli ramati e gli occhi grigi dalle sfumature
cangianti. Il fruscio della gonna nera guarnita di sangallo bianco le avvolgeva
le lunghe gambe snelle, fino a sfiorarle le caviglie, accompagnandola ad ogni
suo passo, ad ogni scalino, su verso la cima, nel silenzio quasi irreale di
quella mattinata festiva. Il villaggio arroccato nell’entroterra ligure era
ancora esattamente come lei lo ricordava, come lo aveva visto l’ultima volta,
dieci anni prima. L’ultima volta che aveva visto Louis.
Le case diroccate, abbarbicate sulla
roccia si stagliavano contro il blu del cielo, donandone un’immagine dolce e
struggente al tempo stesso; la giovane donna ferma sull’ultimo scalino sembrava
far parte di un dipinto. I capelli rossi, lunghi e ribelli, nonostante lei
cercasse di domarli costringendoli in due grosse trecce, le incorniciavano gli
occhi grigi con morbidi riccioli che sfuggivano dall’elastico variopinto. La
camicetta bianca di seta indiana, scollata sul davanti, avrebbe inteso lasciar
vedere parte del generoso decolleté se questo non fosse stato quasi del tutto
celato da un monile di turchese a forma di stella, incastonato in una struttura
di ferro brunito. Quella collana era stato l’ultimo dono di Louis ad Alice e
lei non la toglieva mai, neppure quando il lavoro le imponeva di indossare la
maschera della donna in carriera. La stella di Louis faceva parte di lei come
le gambe o le braccia e mai se ne sarebbe separata. Alice stava stringendo il
monile fra le dita, come faceva spesso quando le capitava di ripensare a lui e
sentì che le lacrime, liberatorie, stavano arrivando. Una brezza leggera iniziò
ad accarezzarla mentre il fruscio della veste, unito al tintinnio dei campanelli
appesi alle porte delle case – gli acchiappasogni - creava una musica dolce e
lenta. Quel suono accompagnava Alice nel suo cammino a ritroso nel tempo,
dentro ad un sogno che si dipanava come una matassa di fronte ai suoi occhi,
oltre l’orizzonte. Risentì la voce di Louis, calda e profonda, che le parlava
sempre come se la stesse accarezzando. «Questo paese, è una fenice che risorge
dalle proprie ceneri, fu raso al suolo da un catastrofico terremoto alla fine
del 1800 ed abbandonato per molti anni. Il nuovo villaggio fu ricostruito più a
valle, poi nei primi anni ‘60, un gruppo di artisti ribelli ed arrabbiati,
riscoprì questo borgo, eleggendolo a quartier generale. Fecero tutto in
autonomia: ristrutturando, imbiancando ed arrangiandosi come meglio potevano
per portare acqua e luce. Ora ogni casa diroccata è la dimora di qualcuno di
noi: chi dipinge, chi modella la creta, chi tesse e chi come me, crea monili e
gioielli poveri, ma che arricchiscono la bellezza di chi li sa portare, come
te. Qui ognuno di noi può essere se stesso, sentirsi libero, esprimere la
propria essenza. In questo posto non esistono barriere politiche né religiose,
sono i valori dell’amicizia e della fratellanza che sanciscono tacitamente un
legame fra chi decide di vivere qui, che sia per sempre o per un’ora soltanto».
Louis l’aveva condotta lì per mano, pochi mesi dopo l’inizio della loro
relazione; si erano conosciuti ad un mercatino dell’usato, una sera d’Agosto ed
in pochissimo tempo erano diventati quasi inseparabili. Louis, che l’aveva
stregata come nessun uomo aveva mai fatto prima e nessuno sarebbe riuscito a
fare dopo: alto, dinoccolato con un modo di fare l’amore che l’aveva lasciata
sconvolta dalla felicità. Prima di lui aveva avuto altre storie ma nessuno,
mai, aveva dimostrato tanta sensibilità nei suoi confronti, attento più a lei
che a se stesso.
Con lui era stato subito desiderio,
tanto intenso da farla stare male. Alice non si era vergognata di quella
passione e l’aveva vissuta intensamente; quel giorno, dieci anni dopo la fine
della loro storia, era tornata lì a cercare dentro di sé la conferma che lui se
ne fosse davvero andato, non solo dall’Italia ma anche e soprattutto dal suo
cuore. Il sole aveva lasciato il posto a grigie nuvole che promettevano un
incombente temporale, il tempo in Liguria può cambiare repentinamente e così
una magnifica giornata di sole si trasforma nel teatro in cui la natura mette
in scena gli atti della sua commedia. L’ultimo atto, in genere è un acquazzone
furioso che si esaurisce nel giro di qualche ora, lasciando in regalo un
arcobaleno di rara beltà. I primi goccioloni cominciarono a cadere con un tonfo
sordo iniziale che si trasformò subito in un ticchettio sui tetti di pietra e
di lamiera; improvvisamente il paese che le era parso deserto, si animò di vita
propria.
Gruppetti di persone cominciarono a
correre fra i muri spaccati dalle ferite della terra ed a gridare frasi
smozzicate in almeno cinque lingue diverse. “Chissà dove stavano nascoste prima
tutte queste persone” pensò Alice, sentendosi strappare con violenza ai propri
ricordi ed a Louis. Stava correndo anche lei, discendendo veloce la scalinata
che aveva percorso poco prima in senso inverso, quando una mano, sbucata da una
porticina di ferro, seminascosta da un porticato in pietra, l’afferrò
saldamente e la trascinò all’interno. Nella stanza, il fumo denso di un fuoco
che ardeva nel camino le invase le narici, ma un altro odore, tanto più forte
quanto evocativo di un ricordo, la sconvolse.
Non fece in tempo a guardare in viso
la persona cui dovevano appartenere quelle mani e quel profumo; un bacio
urgente, violento, la travolse e si ritrovò stretta fra le braccia di Louis.
La sua barba, ancora più folta di
quanto lei la ricordasse le solleticava le labbra in quel modo dolorosamente
familiare. Improvvise le lacrime irruppero dentro a quell’istante e sulle
labbra di entrambi giunse il sapore salato di un amore mai spento. Dopo, nel
tepore del fuoco che rallegrava il laboratorio dove Louis lavorava alle sue
creazioni, Alice - raggomitolata accanto all’uomo che ancora non riusciva a
guardare senza chiedersi se fosse sogno o realtà - gli parlò: «Louis… sei qui!
Sei sempre stato qui non è vero?» «Si». Il silenzio che seguì alla risposta di
lui fu un istante dilatato mille volte nel tempo di un respiro, fino a quando
lei riuscì a parlare di nuovo: «Ma perché? Non capisco. Io ero venuta qui a
dirti che volevo te, solo te, che avrei lasciato la famiglia, l’Università, che
avrei voluto vivere qui con te. Potevo farlo, potevo scrivere da qui. Tu lo
sapevi vero? E’ per questo che, prima che io potessi metterti a parte dei miei
progetti, mi hai preceduta con la tua mazzata. Mi hai detto che saresti partito
e mi hai lasciata qui a piangere: sono dieci anni che piango lo sai Louis:
dieci anni! Perché? Lo devo sapere ora».
«Perché ti amavo Alice e ti amo
ancora, forse più di allora. Sono orgoglioso della donna che sei diventata e
della vita che ti sei creata. Con me, Stella – così la chiamava nei
momenti di intimità – non avresti avuto alcuna chance. Guardati oggi. Sei una
giornalista importante, a soli trentadue anni, una donna splendida, che scrive
in maniera acuta ed intelligente, che trasmette emozioni ai suoi lettori. Ti
seguo sai? Da sempre. Sono il tuo più grande fan, lo sai questo vero Stella?».
Alice non rispose, stava guardando
in quegli occhi, in quel pozzo profondo del colore degli alberi in autunno,
quando cadono le ultime foglie. Stava sfiorando con le dita la piccola
cicatrice sul viso di lui proprio sullo zigomo sinistro, appena visibile sotto
all’occhio; era un gesto che aveva compiuto spesso, durante i mesi del loro
amore. Le piaceva immensamente, prima di baciarlo, tenere il suo viso stretto
fra le mani, passargli le dita fra i capelli, sulla fronte, sul naso, giocare
con lui per vedere chi dei due reggesse più a lungo lo sguardo dell’altro. Era
venuta a Bussana Vecchia per annegare le proprie lacrime nel mare che si
stagliava all’orizzonte, lassù dall’altipiano dove sorgeva l’antica chiesa;
pensava – perché gli aveva creduto in quella notte di Aprile di dieci anni
prima – che lui fosse lontano, che vivesse ormai in America, magari
guadagnandosi da vivere con le sue creazioni. Invece lui era lì, non si era mai
allontanato da quel paese fantasma dove lei, al contrario, non aveva avuto il
coraggio di tornare per paura di ritrovarsi da sola con i propri rimpianti.
Quante volte aveva pensato che, se avesse insistito, forse lui avrebbe
acconsentito a portarla con sé; aveva immaginato come sarebbe stata la propria
vita al fianco di quell’uomo che amava con tutta se stessa e che – di questo
era certa da sempre – l’adorava a sua volta. Nel corso degli anni aveva avuto
altre piccole storie, ma il cuore non era mai entrato in gioco, quello lei lo
aveva regalato a Louis ed ora, al suo posto, nell’incavo del suo petto, c’era
soltanto il buio, un buco nero privo di sensazioni sensoriali. Le era capitato
di desiderare di sentire il suo profumo, un misto di fragranze muschiate e
tabacco da pipa, ma non era mai riuscita a ricrearlo nella propria mente. Adesso
mentre lo guardava negli occhi, tutti i sensi accesi, in attesa, non le
importava nemmeno di sapere se davvero lui l’amasse ancora. Lei lo voleva con
tutta se stessa e glielo fece capire. Lo baciò con la passione sopita per tanto
tempo, con un’audacia che da ragazza non aveva posseduto mentre gli sussurrava
frasi scomposte, dai suoni disarticolati, in una lingua che entrambi avevano
conosciuto bene in un’altra vita, dieci anni prima. Louis fece all’amore con
lei con una delicatezza insolita, quasi timoroso di rovinare quella pelle di
porcellana, giocherellando con i suoi capelli, che aveva sciolto dall’elastico
e che ora ricadevano ribelli sul petto di Alice. Le aveva sempre detto che
andava pazzo per la sua chioma rossa, sostenendo che non avrebbe dovuto
imbrigliarla; come lei, i suoi capelli dovevano restare liberi, ribelli e
selvaggi, affinché la sua vera natura potesse affiorare completamente. Louis
avrebbe dato qualunque cosa pur di dividere la sua vita con Alice, ma era un
uomo molto intelligente, dotato di una sensibilità particolare, dovuta
probabilmente al suo talento artistico. Sapeva bene che la donna che amava non
avrebbe mai ottenuto il riconoscimento del pubblico con i suoi scritti se si
fosse ritirata a Bussana insieme a lui. Nel giro di un paio d’anni avrebbero
avuto due o tre bambini ed Alice avrebbe tralasciato le sue ambizioni per
dedicarsi a loro, finendo poi per odiare quella vita ed infine lui stesso.
Quest’idea gli faceva male al solo pensiero. Ad occhi chiusi poteva immaginare
due bimbette con le lentiggini e le trecce rosse giocare a settimana
sull’acciottolato del paese, proprio fuori dal negozio di gelati gestito da
Ingrid, la sua amica svedese. Il cioccolato avrebbe imbrattato i vestitini
celesti delle bimbe, lasciando uno sbaffo sulle loro labbra. Le piccole, ilari,
sarebbero allora corse in casa gridando: «Papà! Guarda, ci sono cresciuti i
baffi… come te!».
Louis la strinse più forte nel suo
abbraccio, lasciando aderire il suo corpo a quello di lei in maniera totale.
Alice era lì, nonostante lui l’avesse scacciata dalla sua vita per regalarle il
futuro che meritava e a cui sarebbe stata pronta a rinunciare per amore suo.
Aveva letto tutto quanto era stato pubblicato - da e su di lei - e le critiche
- a volte positive, altre meno - sulle sue opere. Quando aveva saputo che si
trovava in Africa per un reportage sulla situazione delle donne affette dal
virus dell’AIDS aveva temuto per l’ incolumità di lei. Ogni giorno si collegava
attraverso Internet a tutte le fonti che avrebbero potuto fornirgli notizie e
fotografie; ne aveva a centinaia: tutte immagini di Alice, alcune – le più
belle – erano poste all’interno di cornici di ferro battuto che Louis aveva
creato appositamente per esaltare la bellezza del soggetto. Lavorava e lei era
là con lui, lo guardava di sottecchi e gli sorrideva. Alice non aveva mai
saputo che, ogni scatto che la stampa le tributava ed ogni obbiettivo a cui lei
sorrideva, erano in realtà un regalo che stava inviando a Louis, per farlo
sentire un po’ meno solo. Anche lui aveva avuto tante storie durante quel
decennio, alcune durature. Mary, una ragazza irlandese che dipingeva magnifici
arazzi, aveva vissuto con lui per due anni ma infine se n’era andata perché non
sopportava di avere accanto un uomo che, nel guardarla vedeva in realtà
un’altra donna. In quel periodo aveva una mezza storia con Ingrid, la svedese
che aveva in gestione la bio-gelateria; bella e statuaria, si era trasferita in
paese l’estate precedente con la sorella la quale però aveva lasciato tutto dopo
soli due mesi, accortasi che quella vita non faceva per lei. Louis ed Ingrid
passavano parecchio tempo insieme, pranzavano sotto al pergolato davanti al
laboratorio di lui e disputavano lunghe discussioni filosofiche, davanti al
mare, sotto ad un cielo denso di stelle. Spesso quelle serate si concludevano a
letto, ma entrambi erano consapevoli di come si trattasse soltanto di compagnia
reciproca, non d’amore. Quando Louis aveva visto Alice salire la scalinata che
conduce alla chiesa, si trovava appunto insieme ad Ingrid; stavano bevendo un
bicchierino di sherry, chiacchierando delle opportunità per gli artisti di
vendere qualcosa in quella giornata di Ferragosto. La mano che reggeva il
bicchiere gli era rimasta sollevata a mezz’aria ed il suo viso aveva assunto
un’espressione di stupore prima e di gioia intensa, subito dopo. Dalla luce che
era comparsa nei suoi occhi, Ingrid capì immediatamente – anche se ne poteva
scorgere soltanto la schiena ed i capelli – che quella donna era Alice. La
donna dei sogni di Louis, quella che lo faceva sorridere nel sonno, mentre lei
stava sveglia al suo fianco, desiderando d’essere amata così da qualcuno.
Come due naufraghi dopo la tempesta,
una sola anima in due corpi distinti, si assopirono abbracciati, davanti al
camino. Fu infine Alice ad aprire gli occhi e per un istante si chiese dove
fosse finita. Sentiva intorno a sé l’odore acre di un fuoco spento e nelle ossa
una sensazione di torpore piacevole, che saliva fino ai muscoli ed alle
terminazioni nervose. Si voltò ed incontrò il viso di Louis, che l’abbracciava
nel sonno e – di nuovo - credette di sognare. Lui stava ancora dormendo e
l’espressione del volto contrastava con quella che di solito amava dare agli
altri di se stesso; pareva un bambino riaddormentatosi dopo il primo pasto del
mattino, avvolto e cullato dalla calda sicurezza dell’abbraccio materno. Alice
si ravvivò i capelli, sistemò la gonna, che sembrava ormai uno straccetto
spiegazzato, mentre lo sguardo vagava per la stanza ad ammirare gli
innumerevoli lavori di lui, muti testimoni del fatto che il suo talento non si
era spento ma era andato in crescendo negli anni. Con movimenti lenti e fluidi
Alice si tolse il monile dal collo e posò con delicatezza la stella sul palmo
aperto della mano di Louis, attenta a non svegliarlo. Prese un bigliettino, uno
di quelli fatti con carta riciclata, che i clienti utilizzavano per
accompagnare i regali che acquistavano nella Bottega del Capo e vi
scrisse: “Tienimela tu, abbine cura come ho fatto io per tutto questo tempo,
tornerò a riprendermela e quando lo farò, sarà per non ripartire più. A presto
amore e grazie. Ho capito soltanto adesso quello che hai fatto per me, credendo
di fare solo quel che era giusto. Non sono sicura che tu abbia avuto ragione
sai? Ci hai derubati entrambi di un’infinità di attimi preziosi che non abbiamo
vissuto, ma se io ora non andassi via per continuare quello che ho cominciato
tutto questo sarebbe stato inutile non è così amore mio? L’ho capito, anche se
fa male lasciarti, oggi più di allora. Vado ad incastrare le ultime tessere del
mosaico della mia vita ed a farlo incorniciare. Poi tornerò qui, lo appenderemo
sopra il muro del tuo camino e trascorreremo il resto delle nostre vite a
contemplarlo. Avrò avuto il mio successo: TE”. Poche parole erano
state pronunciate: i baci, la pelle, le mani e gli occhi si erano detti tutto,
senza bisogno di aggiungere nulla. Era ora di tornare, un ricordo meraviglioso
si era aggiunto all’agenda della sua vita. Alice sapeva che l’avrebbe portato
dentro, come un prezioso cibo di cui ci si nutre per non morire, dentro al
cuore, fino alla prossima volta in cui, come sempre e per sempre, la forza del
loro amore sarebbe esplosa ancora e ancora, per ritrovarli uniti, tremanti e
felici, insieme davanti ad un tramonto a strapiombo sul mare, nella magia dei
suoni e dei colori di Bussana Vecchia.
Poesia LN 2020 segnalazione Vaira
N’àngel a l’avìa dime.
N’àngel a l’avìa dime
ch’i dovìa esse contenta
Përchè ch’ i l’avrìa
catà ʼn gran bel citin,
ma cò ch’i sarìa
stàita na mare diferenta
con gròsse
sodisfassion e ʼn pò tròpi sagrin,
che tante vòlte i
l’avrìa dovù scapé via
con Ti e tò pare, col
meno ʼmportant,
che, bon òm, a sarìa
cariasse sta stran-a famija
tant a l’è ver che
peui a l’avrìo fin-a falo sant.
A l’avìa dime ch’it
sarìe mai barda-te da spos,
coma che tute le fomne
a seugno për sò fieul,
ch’i l’avrìa vardate rabasté la cros
e che për Ti l’avrìa
portà ʼl deul.
Ma a Ti, che a tuti it
l’has daje na man,
che a tuti it l’has
faje dël bin,
ch’it l’has moltipicà
ij pèss e ij pan
e trasformà l’eva ʼn
vin,
a Ti che, an seguitand
con costa lista,
ij sòp it l’has torna faje marcé,
che ai bòrgno it l’has
daje la vista
e col mòrt ëd Betania
it l’has butalo ʼn pè,
a Ti, un miràcol për
mama at costava pròpi tant?
A sarìa bastate vorèj
calé giù e vnime visin,
vnì via con mi ch’i
j’era lì dacant,
a sarìa bastate bogé
ʼl dil mamlin
për pasié ij nòstri
torment,
për buté fin a col
dolor,
ma Ti it podìè pa fè
diferent…
eh nò, Tì mè fieul, it ses Nosgnor;
però mi adess, it lo
sas ch’i son sincera,
se na fomna, për tant
ch’a sia stàita grama,
për sò cit, am manda
na preghiera
i la giuto volenté
përché cò chila, prima ʼd tut, a l’é na mama.
Un angelo mi aveva
detto
Un angelo mi aveva detto che dovevo essere contenta
perché avrei partorito un gran bel bambino,
ma anche che sarei stata una madre diversa
con grandi soddisfazioni e un po’ troppe preoccupazioni,
che tante volte sarei dovuta fuggire
con Te e tuo padre, quello meno importante,
che, pover uomo, si sarebbe sobbarcato questa strana
famiglia
tant è vero che poi lo avrebbero perfino fatto santo.
Mi aveva detto che non ti saresti mai vestito da sposo
come tutte le donne sognano per il proprio figlio,
che ti avrei visto trascinare la croce
e che per Te avrei portato il lutto.
Ma a Te, che a tutti hai dato una mano,
che a tutti hai fatto del bene,
che hai moltiplicato i pesci e i pani
e trasformato l’acqua in vino,
a Te che , continuando con questa lista,
gli zoppi li hai fatti tornare a camminare,
che ai ciechi hai ridato la vista
e quel morto di Betania lo hai rimesso in piedi,
a Te, un miracolo per tua mamma costava proprio tanto?
Ti sarebbe bastato voler scendere e venirmi vicino,
venir via con me che ero lì accanto,
ti sarebbe bastato muovere il dito mignolo
per alleviare i nostri tormenti,
per porre fine a quel dolore,
ma Tu non potevi fare diversamente…
eh no, Tu mio figlio, sei Nostro Signore;
però io adesso, lo sai che sono sincera,
se una donna, per quanto sia stata cattiva,
per il suo piccolino, mi manda una preghiera
io l’aiuto volentieri perché anche lei, prima di tutto, è
una mamma.
Satira secondo classificato Vaira
Sensa nòm.
Trantesinch
ani a j’ero’nt
ij pat
question
che apress a l’han canbiame ’l contrat
a-i
na van dj’àutri doi … për rivé a tranteset,
ma a
va bin, as soporto…a vorrà dì ch’ i-jё spet,
ma
’ntramentre ch’i slargo ʼl mant ëstradal
dòp vintetre mèis am riva ʼl pach ëd Natal.
Cambiand-me
le regole, parèj ’d san-a pianta
a
spero che adess a-i na basto quaranta.
Tranquil
però am diso, ch’at na gionto pì gnun,
e ʼn
efet l’ann apress… a-i na van quarantun,
ch’a
sarìo ’ncor pòchi, a fan cèrti coj,
e ’l
ministro am na ’mplaca quaranta pì doi
an
disend al TG ch’i ven-ma tròp vej
e
s-ciopeisso ʼn pò ’d pì a sarìa fin-a mej
peuj, për èssi sicur ëd ciapè tuti a rèis
minca
tre sman-e a la slonga d’ un mèis,
ma
l’Italia a l’é fòrta e a peuss fé ’d sacrifissi
j’ovrié
da la bòita a van peuj ëd longh a l’ospissi
ch’a
sarìa ’n cit oberge, ma fé bin
atension…
e sercoma ʼd capisse
la
paròla pension …
manch pì lì as peul nen disse !
Sensa nòm.
Trentacinque
anni erano nei patti
questione
che dopo mi han cambiato il contratto
ce
ne vogliono altri due ... per arrivare a trentasette,
ma
va bene, si sopportano... vorrà dire che li aspetto,
ma
mentre io stendo il manto stradale
dopo
ventitre mesi mi arriva il pacco di Natale.
Cambiandomi
le regole, così, di sana pianta
si
spera che adesso ne bastino quaranta.
Tranquillo
però, che non ne aggiungon nessuno
e in
effetti l’anno dopo ... ce ne van quarantuno,
che
sarebbero ancor pochi, sostengono quelli
e il
ministro ne mette quaranta più due
dicendo
al TG che diventiamo troppo vecchi
e
schiattassimo di più sarebbe perfin meglio
poi,
per essere certo di includere tutti quanti
ogni
tre settimane l’allunga di un mese,
ma
l’Italia è forte e può far sacrifici
gli
operai dalla ditta van poi subito all’ ospizio
che
sarebbe un piccolo albergo, ma fate attenzione
e
cerchiamo di capirci
la
parola pensione ...
neanche
più lì si può dire !
Prosa seconda (LN) 2020 Vaira
Lorens e Rensino dla mùsica .
Vint o trant’ani fa’ o magara a peul
esse ch’a fusso quaranta, i lo seu pì nen, ma tant a l’é pa important, ant un
paisòt ëd montagna, pròpi ʼnt ël cheur ëd la Val Susa, a-i era na famija ʼd bërgé
ch’a vivìa dël pòch che col mesté a podìa garantije, tutun ij sò component a l’avìo
la fortun-a d’esse sèmper tuti alégher. Mai na sola vòlta che da cola ca a
fussa sentisse ʼn braj o dël rabel ma pitòst tanti grign e dzortut tanta bela mùsica.
Eh già tuti ij component ëd cola famija a j’ero bon a soné almeno në strument e
chi ch’a sonava nen, coma la mama e la nòna, përché ch’a l’avìo sèmper le man
ampegnà ʼnt ij travaj ëd cusin-a, a compagnava j’àutri ʼn cantand con na vos
motobin anciarmanta. Squasi tuti j’abitant ëd cola cita borgà prima o apress a
j’ero pijasse ʼl piasì ëd passé dnans a la ca dij “Tòmatis”, col-lì a l’era ël
cognòm ëd cola gent bele che tuti a-j ciameisso con lë stranòm ëd “coj ëd la mùsica”,
për fërmesse a scoté na canson o quàich bela sonada. Në stranòm pì giust che
col-lì a podìo nen trovej-lo: nono Censin a contava che già ij sò vej a sonavo,
chi la fisa, chi ël clarin o bele mach la tòla dl’euli coma s’a fussa stàita ʼn
tamborn e la passion për la mùsica a l’era sèmper tramandasse da pare ʼn fieul bele
che, belavans, gnun a fussa mai andàit a scòla për amprende a lesla da bin. Ij
Tòmatis a j’ero, coma ch’as dis: sonador a orija, gent con le nòte ʼnt ël sangh
e va a savèj lòn ch’a sarìo podù dventé magara ʼn frequentand ël conservatòri.
Col-lì a l’era l’ùnich ringret ëd “Gino dla mùsica”: nen avèj ij sòld për mandé
ël fieul Lorens ant na vera scòla ʼnté che ij magìster a fusso bon a valorisé
al màssim le capacità dël giovo. Lorens già a dodes ani a l’era bon a soné pì
bin che tuti ij sò famijar; da qualsëssìa strument ch’a-j pasèissa për le man
chiel a riessìa a fé seurte na bela melodìa che però, an fasend tut a stim, a
sarìa mai pì stàit bon a arpete. Na dumìnica matin, un-a dle tante dumìniche
tute istesse, la famija Tòmatis al complet a l’era ʼndàita a mëssa granda nopà
che a cola ëd ses e mesa, përché col di a-i era la trigèsima ʼd n’avzin ëd ca e
Lorens a l’avìa promëttuje ch’a l’avrìa sonaje chiel ël violin quand ch’a fussa
stàita soa ora che, për maleur, a l’era rivà tròp an pressa. Fin-a don Egidio,
ch’a conossìa bin col fiolin, a l’era stàit ambajà da le nòte ʼd sò “requiem” e
donca a l’era sentisse ʼn dover ëd
presenteje monsù Ceruti, magìster ant la scòla ëd mùsica a Turin. Lë
strument ch’a sonava Rensino, coma ch’a lo ciamava soa mare, a l’era pòch pì che
ʼn tòch ëd bòsch, ma con tut lòn ant soe man a smijava un ëd coj violin da
vàire milion ëd lire; chi sà lòn ch’a sarìa stàit bon a fé con ij mej atrass
dël mesté? Pròpi cola a l’era stàita la domanda che ël magìster Ceruti a l’era
fasse dòp d’avèj sentì la mùsica dël giovo parochian ëd don Egidio. La decision
d’andé a ca dij Tòmatis a l’era stàita direta: se ij sò a l’avèisso përmëttuj-lo,
monsù Ceruti a sarìa portasse col fieul a Turin e a l’avrìa pagaje jë studi ʼd
soa sacòcia, sèmper che Rensino a fussa dispòst a ʼntrapijé la difìcila cariera
dël musicista.
«Tanti a l’han ël don ëd soné bin a
orija, ma pòchi a riesso a dventé famos e apress ëd tanta fatiga as treuvo a fé
un mesté diferent da col ch’a sognavo. Mi i son la preuva ʼd lòn ch’iv diso».
Cole paròle pronunsià dal Ceruti a smijavo
pì na mnassa che n’avis, ma la mama ʼd Rensino a l’era tanto sicura dl’abilità ʼd
sò fieul, chila ʼncor pì che ʼl pare, da convinci la masnà a aceté cola propòsta,
un colp ëd fortun-a ch’a l’avrìa poduje deurbe le pòrte ʼd na cariera
strepitosa da costruì pòch për vòlta, belavans, lontan da l’amor e da l’armonìa
ʼd cola ca.
Armonìa a l’era pròpi la paròla che da col
di a sarìa passà mila vòlte ʼnt la ment ëd Lorens Tòmatis. Ij professor dël
conserva-tòri a l’avìo sùbit capì che col fieulin a l’era ʼn fenòmeno, tant ant
ël soné che ʼnt ël compon-e, ma fé ʼmprende al pì cit dij Tòmatis le regole dla
mùsica, cola seria, da euvre lìriche për capisse, a l’era stàita n’imprèisa nen
da pòch da già che soa veuja ʼd dësdesse, d’anventé ʼn sël moment dij motiv
tuti sò, a l’era sèmper lì a l’avàit, pronta a dé fòra e felo scapé da le
precise righe dël pentagrama. Pian pianin però Rensino dla mùsica, mersì ai
primi risultà angagiant, a le prime bon-e riussìe, a l’era dobiasse a le régole
ʼd fer dël conservatòri e a vinteut ani ʼd col rascon ch’a corìa për le rochere
con ij sabò ant ij pé sonand ël violin për le fèje, a-i era pì nen restaje
gnente; a sò pòst “Lorenzo Tomatis”
gran composidor a ʼncaminava a fesse conòsse fòra dij confin nassionaj, prima
ʼn Fransa, peui an Almagna, Àustria e fin-a dëdlà dl’océan, an América. La
famija ëd “coj ëd la mùsica” a l’era pien-a d’orgheuj e con l’agiut ëd col
fieul, giumai famos, a l’era trasferisse ʼnt na bela cassinòta ʼn pianura ʼnté
che minca tant quàich giornalista a anadsìa a troveje për fesse conté da la
mama la stòria ëd col “requiem” ch’a l’avìa fàit ancaminé ij boneur dij
Tòmatis.
Lorens, con ël passé dj’ani a l’era
dventà sèmper pì arnomà, ma cola fama nopà che deje ʼd sodisfassion a smijava
squasi ch’a-j peisèissa coma na pera da mulin. Soa mùsica a l’era përfeta, ma
sò sguard a l’era përdù ʼnt ël veuid coma se soné a fussa mach pì un travaj.
Fin-a ʼl pùblich as na rendìa cont confondend però la tristëssa dël magìster con
la bòria tant da stranòmielo “ël sofìstich”. Për boneur ant col ambient esse
simpàtich o nen ess-lo a fà tut istess, lòn ch’a conta a l’è la bravura dël
musicista e Lorens a l’era un dij mej al mond. Ij sò consert a lo portavo
daspërtut, ma squasi mai ʼnt ël leu che chiel a l’avìa pì car: nòstr Piemont,
peui ʼn bel di na litra a l’avìa ʼnvitalo a partessipé coma òspite d’onor al
consert ëd mesost pròpi ʼnt soe bele montagne dla Val ëd Susa. Lorens a
l’avìa acetà lʼanvit sensa penseje doe
vòlte e a l’era sùbit partì con l’areoplan. Ant la stra da l’areopòrt ëd Casele
a sò vej pais, vàire arcòrd a j’ero tornaje ʼnt la ment: Don Egidio, j’amis
dj’elemetar, fin-a ij nòm ëd le fèje ch’a portava ʼn pastura da cit e dzortut
na melodìa, cola ch’a sonava për soa mama quand che chila a l’era ʼd cativ imor.
La vitura fità a Turin a l’era fërmasse ai pé dël senté ch’a portava a la ca ʼd
“coj ëd la mùsica” e donca Lorens a l’era ancaminasse ʼd bon pass con la goj ëd
torna vëdde ij pòst ëd soa infansia e ʼl sagrin ëd nen fé basta lest për
artorné për sin-a. An lontanansa, forsi per la sugestion d’esse ambelelì, a-jë
smijava ëd sente na mùsica ma a l’era convint dë sbaliesse da già che cola cita
borgà a l’era stàita bandonà da tanti ani. Cola mùsica, nopà, a minca pass as
fasìa sèmper pì fòrta fin-a a quand che, pròpi dnans a la bàita dij “Tòmatis”
Lorens a l’avìa arconossù la canson ch’a piasìa tant a soa mare.
« Chi ch’a-i è ? » a l’avìa crijà
« Ehi musicant fate vëdde, coma fas-to
a conòsse col motiv ?»
Ant col moment un fiolin con la caviera
bionda, le braje curte e ij sòcu ant ij pé, a l’era surtì da dré da la bàita
con un vej violin an man e a l’avìa risponduje:
« I son mi ch’i son-o »
« Ma col violin i lo conòsso, a l’é ʼl
mè ʼd quand ch’i j’era gagno e ti, ti it jë smije tanto a… »
« Nò a l’è pa ch’i smija a Rensino dla
mùsica… i son pròpi chiel»
Lorens
a capìa pì gnente e ʼn bërbotand a seguitava a dì:
«
A l’é nen possìbil, mi i son Rensino dla mùsica, ma i son andàit via tanti ani fa’.
Ti it ses precis a mi quand’ ch’i j’era cit, it ses mè
sòsia ».
« Nò mè car, a l’é fàcil chërde d’avèj
un dobi, na rassa ʼd binel, ma mi i son pa lòn-lì »
« E chi ses-to alora ? »
« I son Ti… Rensino dla mùsica o mej, i
son lòn che ʼd ti a l’ha mai lassà costi pòst, la part pì importanta, cola ch’it
ses nen portate apress përché ch’a l’é pa lassasse dësreisé da sì ».
« L’anima? »
« It peule ciameme coma ch’at ësmija, i
son lòn ch’at mancava ʼnt tuti costi ani passà lontan da toe montagne; noi i
soma doi ma ʼdcò un sol ch’a peuss torna sentisse complet, a basta mach capì
lòn ch’it veule fé».
N’atim ëd riflession peui, con un gest
decis, Lorens a l’avìa pijà da ʼnt la borsa jë spartì dël consert ëd l’indoman
e l’avìa s-ciancaje ʼnt tanti tòch lassand che ʼl vent a-jë spatarèissa an cel e
an col moment vardand ël fiolin, ch’a smijava svanì ʼnt j’ombre dla sèira, a
l’avìa dije:
« Am piasirìa ambrassete ma a l’é impossìbil
nen vèra? »
e l’àutr con un fil ëd vos: « A fà pa
bzògn d’ambrasesse da sol, adess da doi i soma torna un… un musicant che doman
a dovrà fé conòsse al mond anter la canson pì bela, cola ch’a sonava për soa
mama».
Ëd corsa, col ël cheur gonfi ʼd
contentëssa, l’òm a l’era artornà a val për fesse consigné ij manifest dël
consert e cambieje, a man, ël nòm dlʼòspite d’onor: pì nen “Lorenzo Tomatis” ma finalment, torna…
“Rensino dla mùsica”.
Lorenzo e Renzino della musica .
Venti
o trent’anni fa o magari può darsi che fossero quaranta non lo sò più, ma tanto
non è importante, in un paesino della Val Susa, c’era una famiglia di pastori
che viveva del poco che quel lavoro poteva garnatirle, tuttavia i suoi
componenti avevano la fortuna di essere sempre tutti allegri. Mai una sola
volta che da quella casa si fosse sentito un grido od uno strepito, ma
piuttosto tante risate e soprattutto una gran bella musica. Eh già, tutti i
componenti di quella famiglia erano in grado di suonare almeno uno strumento e
chi non suonava, come la mamma e la nonna, che avevano sempre le mani impegnate
nei lavori di cucina, accompagnava gli altri cantando con voce suadente. Quasi
tutti gli abitanti di quella piccola borgata prima o poi si erano deliziati passando
davanti alla casa dei “Tomatis”, quello era il loro cognome
nonostante tutti li chiamassero semplicemente “quelli della musica”, per
fermarsi ad ascoltare una canzone o qualche bella suonata. Un soprannome più
indicato non avrebbero potuto trovarglielo: nonno Vincenzo raccontava che già i
suoi avi suonavano, chi la fisarmonica, chi il clarinetto od anche solo la
latta dell’ olio a mò di tamburo e la passione per la musica si era sempre
tramandata da padre in figlio, nonostante nessuno fosse mai andato a scuola per
imparare a leggerla correttamente. I Tomatis erano una famiglia di suonatori ad
orecchio, gente con le note nel sangue e chissà cosa sarebbero potuti diventare
magari frequentando il conservatorio.
Quello era il solo rimpianto di “Gino della musica”: non avere i denari
per mandare il figlio Lorenzo in una vera scuola ove i maestri fossero in grado
di valorizzare al massimo le doti del ragazzo. Lorenzo già a dodici anni era in
grado di suonare meglio di tutti i suoi familiari; da qualunque strumento gli
passasse tra le mani lui riusciva a far uscire una bella melodia che però, inventandola
al momento, non sarebbe mai più riuscito a riprodurre. Una domenica mattina,
una delle tante domeniche tutte uguali, i Tomatis si erano recati alla messa più importante, anziché a quella
abituale delle sei e mezza, perché quel giorno si celebrava la trigesima di un
loro vicino di casa al quale Lorenzo aveva promesso che sarebbe stato lui a
suonare il violino quando fosse arrivata la sua ultima ora che, sfortunatamente
era giunta davvero troppo presto. Perfino Don Egidio, che conosceva bene quel
ragazzo, era rimasto affascinato dalle note del suo “Requiem” sentendosi in
dovere perciò di presentargli il signor Cerutti, maestro in una scuola di
musica a Torino. Lo strumento suonato da Renzino, come lo chiamava la sua
mamma, era poco più di un pezzo di legno, ma ciò nonostante nelle sue mani
pareva uno di quei violini da svariati milioni di lire: chissà cosa sarebbe
stato in grado di fare con i migliori attrezzi del mestiere? Proprio quella era stata la domanda che il
maestro Cerutti si era posto, dopo aver ascoltato la musica del giovane
parrocchiano di Don Egidio. La decisione di andare alla casa dei Tomatis era
stata immediata: se i genitori glielo avessero permesso, il signor Cerutti si
sarebbe portato quel ragazzo a Torino e gli avrebbe pagato gli studi di tasca
sua, sempre che Renzino fosse disposto ad intraprendere la difficile carriera
del musicista.
« Molti hanno il dono di suonare bene
ad orecchio, ma pochi riescono a diventare famosi e dopo aver fatto tanta
fatica si trovano a dover fare un mestiere diverso da quello che sognavano. Io
sono la prova di ciò che vi dico ».
Quelle parole pronunciate dal Cerutti
parevano più una minaccia che un avvertimento, ma la mamma di Renzino era tanto
sicura dell’ abilità di suo figlio, lei ancor più del padre, da convincere il
piccolo ad accettare quella proposta, un colpo di fortuna che gli avrebbe
potuto aprire le porte di una carriera strepitosa da costruire poco per volta,
purtroppo, lontano dall’ amore e dalla armonia di quella casa. Armonia era
proprio la parola che da quel giorno sarebbe passata mille volte nella mente di
Lorenzo Tomatis. I professori del conservatorio avevano subito capito che quel
ragazzino era un fenomeno, tanto nel suonare quanto nel comporre, ma fare
apprendere al più piccolo dei Tomatis le regole della musica, quella seria, da
opere liriche per capirci, era stata un’ impresa non da poco visto che la sua
voglia di rilassarsi, di inventare sul momento dei motivio tutti suoi, era
sempre in agguato, pronta a venir fuori e farlo deviare dalle precise righe del
pentagramma. Pian pianino, però Renzino della musica, grazie ai primi
incoraggianti risultati, si era piegato alle ferree regole del conservatorio e
a ventotto anni di quel bambino che correva per le pietraie con gli zoccoli ai
piedi suonando il violino alle pecore, non era rimasto nulla; al suo posto “Lorenzo Tomatis” gran compositore
iniziava a farsi conoscere fuori dai confini nazionali, prima in Francia, poi
in Germania, Austria e perfino oltre oceano, in America. La famiglia di “quelli
della musica” era piena di orgoglio e con l’aiuto di quel figlio, ormai famoso,
si era trasferita in una bella cascina in pianura dove ogni tanto qualche
giornalista andava a farsi raccontare dalla mamma la storia di quel “Requiem”
che aveva dato origine alla fortuna dei Tomatis.
Lorenzo, col passare degli anni era
diventato sempre più rinomato, ma quella fama anziché dargli soddisfazioni gli
pesava come un macigno. La sua musica era perfetta, ma il suo sguardo era perso
nel vuoto come se suonare fosse solo più un lavoro. Anche il pubblico se ne
rendeva conto confondendo però la tristezza del maestro con la boria tanto da
soprannominarlo “il presuntuoso”. Per fortuna in quell’ ambiente essere
simpatici o non esserlo è la stessa cosa, ciò che conta è la bravura del musicista e Lorenzo era uno
dei migliori al mondo. I suoi concerti lo portavano ovunque, ma quasi mai nel
luogo che lui amava di più: il nostro bel Piemonte, poi un giorno ricevette una
lettera che lo invitava a prendere parte come ospite d’onore al concerto di
ferragosto, proprio sulle sue belle montagne della Val di Susa. Lorenzo aveva
accettato l’invito senza pensarci due volte ed era subito partito con l’aereo.
Nella strada tra l’aereoporto di Caselle ed il suo vecchio paese, quanti
ricordi gli erano tornati alla mente: Don Egidio, gli amici delle elementari,
perfino i nomi delle pecore che portava al pascolo e soprattutto una melodia,
quella che suonava per sua madre quando lei era di cattivo umore. La vettura
noleggiata a Torino si era arrestata ai piedi del sentiero che portava alla vecchia
casa di “quelli della musica” e quindi Lorenzo si era incamminato di buon passo
con il desiderio di vedere nuovamente i luoghi della sua infanzia e la
preoccupazione di tardare per la cena.
In lontananza, forse per la suggestione di trovarsi lì, gli pareva di
sentire una musica, ma era convinto di sbagliarsi poiché quella borgata era
stata abbandonata da anni. Qualla musica, invece, ad ogni passo si faceva
sempre più forte fino a quando, proprio di fronte all’ abitazione dei “Tomatis”
lorenzo riconobbe la canzone che tanto piaceva a sua madre.
« Chi c’è? » aveva gridato
« Ehi musicista fatti vedere, come fai
a conoscere quel motivo? »
In quel momento un ragazzino con i
capelli biondi, i pantaloni corti e gli zoccoli ai piedi, era uscito da dietro
alla baita con un vecchio violino in mano e gli aveva risposto:
« Sono io che suono »
« Ma quel violino io lo conosco, è il
mio di quando ero piccolo e tu, tu assomigli tanto a… »
« No, non è vero che assomiglio a
Renzino della musica… sono lui »
« Non è possibile, io sono Renzino
della musica, ma sono andato via tanto tempo fa. Tu sei uguale a me quando ero
piccolo, sei il mio sosia ».
« No mio caro, è facile credere di
avere un doppione, una razza di gemello, ma io non sono quello’individuo ».
« E chi sei allora? »
« Sono Te… Renzino della musica, o
meglio, sono ciò che di te non ha mai lasciato questi posti, la parte più
importante, quella che non ti sei portato dietro perché non si è lasciata
sradicare da qui ».
« L’anima? »
« Puoi chiamarmi come credi, sono ciò
che ti mancava in tutti questi anni passati lontano dalle tue montagne; noi
siamo due ma anche uno solo che può nuovamente sentirsi completo, basta solo
capire cosa vuoi fare ».
Un attimo di riflessione poi, con un
gesto deciso, Lorenzo aveva preso la borsa con gli spartiti del concerto
dell’indomani e li aveva strappati in tanti pezzi lasciandoli trasportare in
cielo dal vento ed in quello stesso momento, guardando il ragazzino che pareva
svanire nelle ombre della sera gli aveva detto:
« Mi piacerebbe abbracciarti, ma non è
possibile vero ?»
e l’altro con un filo di voce: « Non
occorre abbracciarsi da soli, ora da due siamo nuovamente uno… un musicante che
domani dovrà fare conoscere al mondo intero la canzone più bella, quella che
suonava per la sua mamma ».
Di corsa con il cuore gonfio di gioia, l’uomo era
tornato a valle per farsi consegnare i manifesti del concerto e cambiare, a mano,
il nome dell’ ospite d’onore: non più “Lorenzo Tomatis” ma finalmente
di nuovo…
“ Renzino della musica”
Prosa premiata 2020 (LN) Vaira
Scarpon bleu.
Vintesinch ëd Novèmber dël 2019. Ancheuj a l’é la
giornà che ʼn bon-a part dël mond as fan ëd manifestassion contra chi ch’a
maltrata e patela le fomne; nò speté na minuta, i son nen ëspiegame bin: contra
j’om ch’a fan ëd violensa a le fomne, përché a më smija ʼd capì
che s’a fusso quàich madame, madamin o magara
dle tòte a carchess-je ʼn tra ʼd lor, lòn-lì a farìa nen ësgiaj a gnun.
Mi i son ël prim a condané costi comportament përché patlé na fomna a l’é na
ròba pròpi da viliach e bele che ʼnt mia vita i sia trovame vàire vòlte ʼnt
situassion anté ch’i l’avrìa avù tant pì car avèj da discute con n’òm, magara
fin-a për desse doe scopass e peui rangé sùbit la question a la mòda dij mas-cc,
dnans a ʼn cichèt, i son mai solament përmëttume d’aussé la vos con na fumela. Mai
na vòlta manch ant tuti coj ani ch’i l’heu travajà ʼnt n’asienda ʼndoa ch’a-i
ero tranteut fomne e mach mi sol òm. Quajdun a rijerà da sota ai barbis ma i
peuss assicureve ch’a-i era pròpi gnente da sté alégher, feve cont che l’adressa
a l’era an via 8 ëd mars, pròpi coma ʼl di dla festa dle fomne e che mie
coleghe a j’ero tute feministe sfegatà. Mach a caté le mimose për tute i l’heu
arzigà d’andé a rabel vàire vòlte e dòp ëd des ani passà ʼn mes a cole
farinele, che ʼn sël travaj a l’han famne peui pròpi ʼd tuti ij
color, a l’é già tant s’i son ëstàit bon a nen cambié sponda sercand-me ʼn
moros con ël barbaròt. Comsëssìa giornà come coste a son motobin ʼmportante,
quand ch’i sentoma a dì chʼa l’é capitaje quaicòs ëd brut a na fomna ʼl prim
pensé a l’é che la midema ròba a podrìa capiteje a na nostra seur, a na fija o
përché nò fin-a a na mama e alora ʼl sentiment a sarìa col ëd calé ʼn piassa
con un lignòt e fé giustissia da nojàutri, ma a servirìa a gnente d’àutr se nen
a fene arzighé la galera. L’ùnica ròba giusta da fé a l’è cola ʼd sensibilisé
tuti an manera che cost problema da doman a ven-a nen butà ʼnt ël canton ëd la
dësmentia e, për giuté la memòria, ij promotor ëd costa giornà a l’han decidù
ʼd pijé a model l’ideja ʼd n’artista messican-a “Elina
Chauvet” ch’a l’ha ʼnventà costa forma ʼd protesta: buté fòra ʼd ca dle
scarpe da fomna piturà ëd ross. Minca pàira dë scarpe a veul significhé na
fomna maltratà e ʼl ross a deuv arcordé ʼl color dël sangh ëd cole pòvre dòne.
Fin-a sì i soma tuti d’acòrdi e ògnidun a podrìa
conté na stòria bruta ch’a l’ha lesù ʼn sël giornal o sentì magara a la radio,
sèmper naturalment a rësguard ëd violense o bele mach ëd maltratament patì da
dle fomne për man dij sò òm o moros. Lòn che bin pòche përsone a sarìo ʼn gré
ʼd conté a son tute cole vicende ʼnté che a seufre a son nen le fomne ma
l’àutra metà dël cel, cola che tuti as penso ch’a sià la part pì fòrta dla
cobia. Eh già… pròpi parèj, a smija nen possìbil ma sossì a capita motobin pì
da soens ëd vàire ch’i soma dispòst a chërde, però gnun a lo dis, magara përchè
ch’a l’han onta ʼd felo savèj, pròpi coma che na volta a capitava për le fomne.
J’òm a l’han tut da amprende da le fomne che, për mè cont, a son lor cole fòrte,
nen noi; pì fòrte e ʼdcò pì svice tant a l’é ver che ch’i ch’as buta a rusé
“legalment” con na fomna a l’ha bin bin pòche speranse ʼd vagné contut ch’a peussa
avèj tute le rason dël mond. Un moment fa’ i l’heu mansionà la data dl’eut ëd
mars, ël di dla mimosa, ebin i son squasi sicur che gnun a sà che da pì o meno
vint ani a-i é ʼdcò la giornà dj’òm ch’a dròca al disneuv ëd novèmber. A l’è na
festa pòch sentìa, fàita squasi sicurament për fejë ʼl vers a cola dle fomne;
nopà as treuva nen un di ch’a sià ʼl corispondent mascolin dël 25 ëd novèmber.
Vardand an sla ragnà as treuva la giornà contra la violensa a le masnà, cola
contra i maltratament a j’ansian e fin-a contra j’animaj, ma dj’òm a smija
ch’a-j na fasa gnente a gnun. Forsi sossì a l’é për via
che j’òm a ʼncalo nen a buté ʼn piassa soe tribulassion e comsëssìa
a l’han ancora talment rispet për le compagne che pitòst ëd feje fé quàich bruta
figura dnans a tuti a l’han pì car sté ciuto e buté giù brusch, magara për na
vita ʼntera. J’ani dle lòte feministe ch’a rivendicavo parità ëd dirit a son
nen tant distant, ma adess a sarìa squasi ʼl cas ëd torna calé ʼn piassa për
buté na frisa d’ordin an favor ʼd coj bonomass che mach për ël fàit d’esse
nassù mas-cc a smija ch’a sio ij responsabij ëd tut lòn ch’a capita. J’òm ch’a
patisso di tòrt da le morose o pes ancora da le fomne ch’a l’han marià, bin da
soens as compòrto coma coj ansian vitime dj’ambreuj, as vërgògno lor al pòst ëd
chi ch’a fàit col gest da viliach.
Tre o quatr ani fa’ parland con dij colega, tuti
mal marià, i son ëvnù a conossensa ʼd soe malaventure e i l’heu pròpi avù la
conferma che ʼl proverbi: “guai a chi
ch’as ʼncaprissia ʼd rende giusta la giustissia” a l’é nen mach
na manera ʼd dì. Tuti a l’avìo avù dij
problema, ma la stòria ch’a l’ha fame pì sgiaj a l’é stàita cola ʼd Rico, un
fieul, ansi n’òm ëd quarantequatr ani che, prima d’esse trasferì ʼd repart, a
l’era stàit mè avzin d’ufissi pròpi ʼnt ël period pì brut ëd soa vita. Rico, ël nòm i l’heu baratajlo ʼn manera che
gnun a peussa arconòss-lo da già che tut sò calvari a l’ha contamlo ʼn pòch da
genà, a l’era, o mej a l’é ancora, na përson-a dle pì brave ch’a-i sio ʼn sla
facia dla tèra. Mi e chiel i soma intrà ʼnt nòstra asienda squasi ʼnt
l’istess moment pì ʼd vinteut ani fa’ e da col di nostre cariere a l’han marcià
paralele: prima ovrié, peui técnich dël repart colaudeur e a la fin responsabij
ëd le vendite. N’ufissi con doe scrivanìe e doe cadreghe a l’era dventà nòstra
sconda ca e ambelelì i passavo bon-a part ëd nòstra vita squasi sensa parlesse ʼn
tra ʼd noi se nen për question ëd travaj. Mi i lʼavìa la prima metà dla stansia,
sùbit tacà a l’uss, e chiel cola pì distanta, con la cadrega pogià a la muraja
e la scrivanìa ʼn facia a la pòrta. Adess, dòp d’esse stàit anformà ʼd cola
ch’a l’era soa situassion famijar, im rend cont dël përchè ant j’ùltim temp la
madamin ëd le polissie a bërbotèissa sèmper ëd nen podèj ramassé da bin sota a
la scrivanìa ëd Rico; a disìa che col monsù a smijava ch’a fussa portasse mesa
vardaròba pròpi là sota. An efet col bonomass a l’era ʼnt ël moment forsi pì
brut ëd la vita: Lena, soa fomna, a l’era ʼncaplinasse ʼd n’àutr òm e donca
chiel, pòch për vòlta, a l’era slontanasse
da ca. Coma ch’a fussa possìbil na facenda përparèj Rico a podìa nen
ëspieghess-lo; a l’é vera che j’anteressà a son sèmper j’ùltim a savèj coste
ròbe, ma Lena a l’era mai stàita na fomna coma ch’ an piaso a nojàutri mascc…
“càuda”, për capisse sensa ʼndé ʼnt ël volgar, donca ch’a podèissa avèj na
relassion con n’àutr òm dòp ch’a j’ero ani e ani ch’as avzinava pì nen al sò, a
smijava na bestialità da nen chërde. Për
maleur tut lòn che ij colega, an grignand, a l’avìo dije vàire vòlte visadì
che: chi ch’a mangia nen ant ëcà a veul nen dì ch’a meuira ʼd fam, a l’era
dventà realtà. Lena a l’avìa sèmper
considerà sò òm un grand travajeur, ma bon a gnente d’àutr; chila a l’avrìa
vorsù avèj dacant në scritor, un poeta, na përson-a ch’a la portèissa a teatro
o magara a fé dle gite ʼn montagna e Rico nopà a l’era mach sèmper con la testa
ʼnt l’ufissi opurament ampegnà a fé ʼd manutension a cola ca che ij doi a
l’avìo catà con ij sò miser profit. Për fela curta, sensa vorèj deje la colpa a
un o a l’àutra, cola cobia a l’era dësblasse contut che gnun dj’amis o dij
parent a fussa ancorzuss-ne. Rico a l’era ʼndàit via da ca ma a l’avìa seguità
a buté ij sòld an sël cont an banca da ʼndoa che tant chiel che la fomna, chila
pì che tut, a pijavo për fé la spèisa e për jë bzògn ëd cola che sèmper meno a
smijava a na famija. Ij doi fieuj, giumaj grand, ch’a studiavo ʼn sità, a
stasìo via dij mèis anter e la ca donca a l’era restà tuta a disposission ëd cola
dòna che përparèj a l’avìa carta bianca për ancontré, pròpi ambelelì, sò neuv
spasimant.
E Rico? Rico a l’avìa fin-a onta ʼd dì lòn ch’a
l’era capitaje e arlongh a la giornà a vivìa coma sèmper: ant l’ ufissi fin-a a
sèira tard, peui però quand’ ch’a rivava l’ora ʼd sin-a nopà che ʼndé a ca a
stasìa lì a mangé ʼn sànguiss an sla scrivanìa. Minca tant, quand ch’ a l’era
nen da sol, Rico a fasìa finta d’andé via, ma dòp ëd na cobia d’ore a tornava ʼnt
l’ufissi për serché ʼdeurme quàich ora cogià ʼn sla scrivanìa. Gnun dij colega
a l’era mai sdass-ne che col òm a passava le neuit an sël travaj fin-a ʼnt ël sinch
ore ʼd matin për peui lavesse ʼnt ij bagn ëd l’asienda, seurte për fé colassion
al bar e torna intré timbrand la
catolin-a pontual ansem a j’àutri. Col gest ëd timbré la
cartolin-a tute le sèire fasend finta ʼd seurte a-j peisava ʼn sl’anima coma na
pera da mulin; tuti ij di sèmper pì tard, tant che ʼl cap ufissi a l’avìa fin-a
rusaje pensand che col òm as fërmèissa për fé dle maròche. A mi sol, adess ch’a
l’é lassasse ʼndé a feme dle confidense, Rico a l’ha contame vàire ch’a j’ero
longhe cole ore slongà ʼn sla scrivanìa con la tëmma che la guardia dla
neuit a podèissa ancorzisse ʼd soa
presensa quand che ël son ëd sò cheur a smijava ʼn tanbòrn ch’a-j martlava ʼnt
j’orije e ʼl respir a-jë vnisìa sèmper pì afanà.
Cola ch’a
l’avrìa dovù esse na sistemassion provisòria nopà a l’era dventà squasi normala
përché l’ùnica rèndita sicura për la famija, ch’a l’avìa già sèmper tribulà a
rivé a la fin dël mèis, a l’era pròpi mach la paga dl’ òm e chiel, për
conseguensa a sarìa mai stàit an gré ʼd pagesse ʼl fit ëd n’alògg decoros.
Quand chʼa j’ero mariasse Lena a l’era nʼanfermera genèrica, ma bele ch’a fusso
tanti ani ch’a travajava pì nen, sò òm a chërdìa che dòp d’avèj otnù ʼl divòrsi
a sarìa torna ampiegasse, miraco ʼn sfrutand cola specialisassion ch’ a l’avìa
pijà frequentand un cors, pagà da Rico naturalment, quand che, con ij fieuj già
grand, la fomna a së stufiava a sté a ca. Chi ch’a viv dë speransa dësperà a
meuir, a dis ël proverbi, donca l’avocat che ij doj a l’avìò pijà ʼd sòcio, për
vansé dij sòld e fé në strument sempli, a l’avià dit che
le spèise a sarìò stàite a divise ʼnt tra ʼd lor conforma a j’ero le
possibilità finansiarie e ʼl giudes, na fomna cò chila coma l’avocat, a l’avìa
giuntaje dël fer a la ciòca an precisand che ʼl tren ëd vita dla madama e dij
fieuj a tocava ch’a fussa sèmper istess. Cola sentensa a l’era stàita na massà
sensa sens. Lena a l’avrìa poduje passé la neuit ai malavi o fé le pòste, se a
vorìa nen pròpi serchesse ʼn travaj
fiss, ma col-lì a smijava esse sò ùltim pensé tant, con col papé ʼn man, chila
a l’era tranquila. L’ùnich agreman che l’òm ansistend a erà stàit bon a oten-e
a l’era col ʼd dovré chiel la vitura pì gròssa.
-J’euj ëd Rico, sèmper pì ross man a man ch’am
contava soa stòria, a tribulavo a traten-e le lerme -
Tuti ij di a disné, ant la mensa asiendal, Rico as
ampinìa la pansa pì ch’a podìa ʼn manera d’arsiste fin-a a l’indoman e vansé ʼd
fé sin-a. N’òm ëd quarantequatr ani a l’era rivà a la mira ʼd patì la fam për
avèj an sacòcia ij sòld ch’a-j servìo a porté ʼn piòla ij sò doi matòt na vòlta
minca quindes di. Lòr, ij fieuj, an vëddend sò papà sèmper pì strafognà a j’ero
smonosse d’andè ʼnt ëcà da chiel a mangé, për capì s’a l’avèissa avù dabzògn ëd
na man, magara për buté d’ardriss, ma Rico a disìa che la stansia
dël portié che ʼl padròn ëd la bòita a l’avìa fitaje, a l’era tanto cita ch’ a
bastavo sinch minute per butela a pòst, belavans la vrità a l’era che manch pì
ʼnt l’ufissi a durmìa pì nen. Cola vitura famijar, che Lena a l’avìa lassaje, a
l’era dventà soa cusin-a, vardaròba e stansia da let. Minca dì a tocava
tramuvela ʼnt un parchegg diferent për nen dé ʼnt l’euj, për nen fé pen-a e tut
sossì conservand na dignità vrament ùnica.
Sicurament Rico gnun a l’é mai
arzigasse a patlelo përchè ch’a l’é grand e gròss, ma tut lòn ch’a l’ha soportà
a l’é stàita na forma ëd violensa nen meno grama ʼd cola che ʼd sòlit i
s’anmaginoma, na forma d’ingiustissia legalisà che bin da ràir a ven svantà ʼnt
le piasse contut ch’a sia giumai comun-a a tanti monsù.
Për fortun-a nen tute le fomnè as compòrto coma
Lena, ansi la pì granda part a son bin diferente da chila e la giornà dël 25 ëd
Novèmber a deuv arcordene a nojàutri òm che lor a son la ròba pì pressiosa ch’i
l’oma, tutun a l’indoman ëd cola data, da fianch a le scarpëtte rosse i podrìo ëdcò
buté quàich pàira dë scarpon, magara bleu, parèj, giusta për fé capì a tuti che
ʼnt nòstr pais as peul esse tratà pes che ij delinquent sensa avèj fàit mai
gnente d’àutr che ʼl pare d’famija.
P.S.
Col mè colega adess a sta motobin mej përchè a l’ha
trovà na compagna neuva – coma ch’as dis adess – a viv pì tranquil e finalment tuta
cola rumenta ch’ a-i era sota soa scrivanìa a l’é portass-la a ca la fomna dle
polissìe… ansem a Rico.
Scarponi blu.
Venticinque Novembre 2018. Oggi è
la giornata in cui in buona parte del mondo si fanno delle manifestazioni
contro chi maltratta e picchia le donne; anzi aspettate un attimo, non mi sono
spiegato bene: contro gli uomini che fanno violenza alle donne, perché mi pare
di capire che se fossero delle signore,
signorine o magari delle ragazze a malmenarsi tra loro, quel fatto non farebbe
senso a nessuno. Io sono il primo a condannare questi comportamenti, perché
picchiare una donna è un gesto proprio da vigliacco ed anche se nella mia vita
mi son trovato più volte in situazioni in cui avrei preferito dover discutere con
un uomo, magari anche per scambiarci due schiaffoni e poi sistemare subito la
questione alla maniera dei maschi, davanti ad un bicchierino, non mi sono mai
nemmeno permesso di alzare la voce con una femmina. Mai una volta, neppure
in tutti quegli anni in cui ho lavorato in un’azienda nella quale c’erano trentotto donne ed un
solo uomo, io. Qualcuno riderà sotto ai baffi ma posso assicurarvi che non c’era proprio niente da star allegri;
figuratevi che l’indirizzo della ditta era via
otto marzo, proprio come il giorno della festa della donna e che le mie
colleghe erano tutte femministe sfegatate. Solo per comprare le mimose per
tutte loro ho rischiato più volte di finire sul lastrico e dopo dieci anni
passati tra quelle “birbantelle”, che sul lavoro me ne han combinate di tutti i
colori, è già tanto se sono stato in grado di non cambiare sponda cercandomi un
fidanzato con il pizzetto. Comunque giornate come questa sono molto importanti,
quando sentiamo dire che è accaduto qualcosa di brutto ad una donna il primo
pensiero è che la medesima cosa potrebbe
capitare ad una nostra sorella, ad una figlia o perché no ad una mamma ed
allora il primo sentimento sarebbe quello di scendere in piazza con un randello
e farci giustizia da soli, ma non servirebbe ad altro che farci rischiare la
galera. L’unica cosa giusta da fare è quella di sensibilizzare tutti, in modo
che questo problema da domani non venga riposto nel dimenticatoio e, per
aiutare la memoria, i promotori di questa giornata hanno deciso di prendere a
modello l’idea di di un artista messicana
“Elina Chauvet” che ha inventato questa forma di pròtesta:
mettere fuori di casa delle scarpe da donna verniciate di rosso. Ogni paio di
scarpe vuole significare una donna
maltrattata ed il rosso deve ricordare il colore del sangue di quelle
poverette.
Fin qua siamo tutti d’accordo e ciascuno
potrebbe raccontare una brutta storia che ha letto sul giornale o
sentito alla radio, sempre naturalmente riguadanti violenze od anche solo
maltrattamenti patiti da donne per mano dei propri mariti o fidanzati. Ciò che
ben poche persone sarebbero in grado di raccontare sono tutte quelle vicende in
cui a soffrire non sono le donne ma bensì l’altra metà del cielo, quella che
tutti pensano sia la parte più forte
della coppia. Eh già… proprio così, sembra impossibile, ma questo capita molto
più sovente di quanto siamo disposti a credere, però nessuno lo dice, magari
per la vergogna di farlo sapere, proprio come una volta accadeva per le donne.
Gli uomini hanno tutto da imparare dalle donne che, per conto mio, sono quelle
forti, non noi. Più forti ed anche più scaltre tant’è vero che chi inizia una
controversia legale con una donna ha ben
poche speranze di vincere sebbene possa
avere tutte le ragioni del mondo. Un attimo fa ho menzionato la data dell’ 8
marzo, il giorno della mimosa, ebbene sono quasi certo che nessuno sa che da
più o meno vent’anni c’è anche la giornata degli uomini che cade al diciannove
di novembre. È una festa poco sentita, creata quasi sicuramente per fare il
verso a quella delle donne; invece non si trova un giorno che sia il
corrispondente maschile del 25 novembre. Cercando su internet si trova la
giornata contro la violenza sui bambini, contro i maltrattamenti agli anziani e
perfino contro gli animali, ma degli uomini pare proprio che non importi nulla
a nessuno. Forse questo è perche gli uomini non osano mettere in piazza le loro
tribolazioni e comunque hanno ancora talmente rispetto per le compagne che
piuttosto di far fare loro una qualche brutta figura di fronte a tutti,
preferiscono tacere ed ingoiare il boccone, magari per una vita intera.
Gli anni delle lotte femministe
che rivendicavano parità e diritti non sono molto lontani, ma ora sarebbe quasi
il caso di scendere nuovamente in piazza per mettere un po’ d’ ordine in favore
di quei poveracci che per il solo fatto di essere nati maschi pare che siano i
responsabili di tutto quanto accade. Gli uomini che subiscono dei torti dalle
fidanzate o peggio ancora dalle mogli spesso si comportano come quegli anziani
vittime di inganni, si vergognano loro per chi ha compiuto quel gesto da
vigliacco.
Tre o quattro anni fa, parlando
con dei colleghi, tutti mal maritati, sono venuto a conoscenza delle loro disavventure ed ho avuto proprio la conferma
che il proverbio:
“guai a chi si incapriccia di
render giusta la giustizia” non è solo un modo di dire.
Tutti avevano avuto dei problemi,
ma la storia di Enrico, un ragazzo, anzi un uomo, di quarantaquattro anni che,
prima di essere trasferito di reparto, era stato un mio vicino d’ufficio
proprio nel periodo più brutto della sua vita. Enrico, il nome gliel’ ho
cambiato in modo che nessuno possa riconoscerlo poiché mi ha raccontato tutto
il suo calvario con un po’ di vergogna, era, o meglio è ancora, una persona delle più buone che ci siano sulla faccia
della terra. Io e lui siamo entrati
nella nostra azienda quasi nello stesso momento, più di ventotto anni or sono e
da quel giorno le nostre carriere hanno marciato parallele: prima operai, poi
tecnici del reparto collaudatori ed alla fine responsabili delle vendite. Un
ufficio con due scrivanie e due sedie era diventato la nostra seconda casa e lì
passavamo buona parte della nostra vita quasi senza parlare tra noi se non per
questioni di lavoro. Io avevo la prima metà della stanza, vicino all’uscio e
lui quella più distante, con la sedia appoggiata al muro e la scrivania davanti
alla porta. Adesso, dopo essere stato informato di quella che era la sua
situazione famigliare, mi rendo conto del perché ultimamente la signora delle
pulizie borbottasse sempre che non poteva scopare bene sotto alla scrivania di Enrico; diceva
che quel signore pareva si fosse portato un armadio di panni proprio là sotto.
Effettivamente quel pover uomo attraversava il momento forse più brutto della
sua vita: Maddalena, sua moglie, si era invaghita di un altro uomo e pertanto
lui, poco per volta, si era allontanato da casa. Come fosse possibile una cosa del genere
Enrico non poteva spiegarselo; è vero che gli interessati sono sempre gli
ultimi a sapere queste cose, ma Maddalena non era proprio mai stata una di
quelle donne come piacciono a noi maschi… “calda”, per capirci senza andare sul
volgare, dunque che potesse avere una relazione con un altro uomo dopo che
erano anni che non si avvicinava più al suo, pareva una bestialità da non
credere. Per sfortuna tutto ciò che i colleghi, ridendo, gli avevano detto
tante volte vale a dire che: chi non mangia in casa non significa che muoia di
fame, era diventato realtà. Maddalena aveva sempre considerato suo marito un gran
lavoratore, ma buono a null’altro; lei avrebbe voluto avere accanto uno
scrittore, un poeta, una persona che la portasse a teatro o magari a fare delle
gite in montagna ed Enrico invece era solo sempre con la testa in ufficio
oppure impegnato nei lavori di manutenzione di quella casa che i due avevano comprato
con i suoi miseri profitti. Per farla corta, non volendo dar la colpa all’uno o
all’altra, quella coppia si era disfatta senza che nessuno degli amici o
parenti se ne fosse accorto. Enrico era andato via di casa ma aveva continuato
a depositare i soldi sul conto in banca dal quale tanto lui che la moglie, lei
soprattutto, attingevano per fare la spesa e per le necessità della famiglia. I due figli ormai grandi, che studiavano in
città, non tornavano per dei mesi interi e quindi la casa era rimasta
completamente a disposizione di quella donna che così aveva carta bianca per
incontrare, proprio lì, il suo nuovo spasimante.
Ed Enrico ? Enrico, che aveva perfino vergogna di quel
che gli era accaduto, durante la
giornata viveva come sempre: in ufficio fino a tarda sera, poi però quando
arrivava l’ora di cena, anziché andarsene a casa restava lì a mangiare un panino sulla
scrivania. Ogni tanto, quando non era da solo, Enrico fingeva di andarsene ma
dopo un paio di ore tornava in ufficio per cercare di dormire qualche ora
sdraiato sulla scrivania. Nessuno dei colleghi si era mai accorto che quell’
uomo trascorreva le notti sul lavoro fino alle cinque del mattino per poi
lavarsi nei bagni aziendali, uscire per far colazione al bar e rientrare
timbrando puntualmente il cartellino con gli altri. Quel gesto di timbrare il
cartellino tutte le sere fingendo di uscire gli pesava come una macina da
mulino: tutti i giorni sempre più tardi tanto che il capo ufficio lo aveva
addirittura rimproverato pensado che si fermasse per fare del lavoro in
proprio. A me solo, adesso che si è lasciato andare a farmi delle confidenze,
Enrico ha raccontato quanto erano lunghe quelle ore passate coricato sulla
scrivania con il timore che il guardiano notturno potesse accorgersi della sua
presenza quando il cuore pareva essere un tamburo che gli martellava nelle
orecchie ed il respiro gli si faceva sempre più affannato. Quella che avrebbe
dovuto essere una sistemazione provvisoria era invece diventata quasi normale
perché la sola rendita sicura per la famiglia, che aveva già sempre tribolato ad
arrivare a fine mese, era proprio solo la paga di quell’uomo e lui, per
conseguenza, non sarebbe mai stato in grado di pagarsi l’affitto di un’ appartamento
decoroso. Quando si erano sposati, Maddalena era un’infermiera generica, ma
nonostante fossero anni che non esercitava più, suo marito credeva che dopo
aver ottenuto il divorzio si sarebbe nuovamente impiegata, anche sfruttando la
specializzazione che aveva preso frequentando un corso, pagato da Enrico
naturalmente, quando, con i figli già garndicelli, la donna si annoiava a stare
in casa. Chi vive di speranza disperato muore, dice il proverbio, quindi
l’avvocato che i due coniugi avevano assoldato in società, per risparmiare
qualche soldo e fare un contratto semplice, aveva detto che le spese sarebbero
state divise tra loro a seconda delle
possibilità finanziarie ed il giudice, anche lei una donna come l’avvocato,
aveva rincarato la dose precisando che il tenore di vita della signora e dei
figli doveva essere sempre lo stesso. Quella sentenza era stata una mazzata
senza senso. Maddalena averebbe potuto fare assistenza ai malati o fare le
pulizie, se non si fosse voluta cercare un lavoro fisso, ma quello pareva
essere l’ultimo dei suoi pensieri tanto, con quel foglio in mano, lei era
tranquilla. La sola agevolazione che l’uomo insistendo era riuscito ad ottenere
era quella di poter usare lui l’autovettura più grande.
- Gli occhi di Enrico, sempre più
arrossati a mano a mano che mi raccontava la sua storia, faticavano a
trattenere le lacrime .
Tutti i giorni a pranzo, nella mensa aziendale Enrico
si riempiva la pancia più che poteva in modo da poter resistere fino al giorno
successivo evitando così la cena. Un uomo di quarantaquattro anni era giunto al
punto di patire la fame per avere in tasca i soldi che gli servivano per
portare in trattoria i suoi due ragazzi, una volta ogni quindici giorni. Loro,
i figli, vedendo il padre sempre più trasandato, avevano proposto di
incontrarlo nella sua nuova casa, anche per capire se avesse bisogno di una
mano magari per mettere in ordine, ma Enrico diceva che la stanza del
portinaio, che il proprietario della ditta gli aveva affittato, era tanto
piccola che bastavano cinque minuti per sistemarla, purtroppo la verità era che
non dormiva nemmeno più in ufficio. Quell’ auto familiare, che Maddalena gli
aveva lasciato, era diventata la sua cucina, il suo armadio ed anche la stanza
da letto. Ogni giorno occorreva spostarla in un parcheggio diverso per non dare
troppo nell’ occhio, per non far pena e tutto questo conservando una dignità
davvero unica.
Di certo nessuno si è mai
arrischiato a picchiare Enrico perché lui è un uomo grande e grosso, ma tutto
ciò che ha sopportato è stata una forma
di violenza non meno cattiva di quella che solitamente ci immaginiamo, una
forma di ingiustizia legalizzata che raramente viene sventolata nelle piazze
sebbene ormai sia comune a tanti uomini. Per fortuna non tutte le donne si
comportano come Maddalena anzi la maggior parte sono ben diverse da lei e la
giornata del 25 novembre deve ricordare a noi uomini che loro sono la cosa più
preziosa che abbiamo, tuttavia, il giorno successivo a quella data, di
fianco alle scarpette rosse potremmo
mettere qualche paio di scarponi, magari blu, così, giusto per far capire che
nel nostro paese è possibile essere trattati peggio dei delinquenti senza aver
mai fatto altro che il padre di famiglia.
P.S.
Quel mio collega ora sta molto
meglio perché ha trovato una nuova compagna – come si usa dire adesso – vive
più tranquillo e finalmente tutta quella roba stipata sotta la sua scrivania se
l’è portata a casa la donna delle pulizie… insieme ad Enrico.
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