lunedì 30 giugno 2025

Il patentino di Giuseppe Raineri di Bergamo

 

Il patentino

 

“Puoi dirmi una buona volta cosa ci fai alle tre della mattina qui, fermo imbambolato a guardare dentro la scarpiera?”

“Zitta! Abbassa la voce!”

“Per di più con la pila accesa.”

“E tu, tu che sei tanto freddolosa, che ci fai tu qui invece che sotto il piumone?”

“Mi hai svegliata tu. Un pachiderma si muoverebbe con maggiore delicatezza. Ti giri, ti rigiri scombinando tutte le lenzuola. Io le rimetto in ordine, ma tu niente, ti giri come una trottola e rovesci tutto quanto. Non è che mi nascondi qualcosa?”

“Che cosa vuoi che ti nasconda?”

“Te lo sto chiedendo. Magari qualche disturbino? Diciamo un tipico problema notturno. Voglio dire un problema impellente di voi maschietti?”

“Pensi veramente che abbia inscenato tutta questa sceneggiata nascondendoti una cosa tanto banale?”

“Allora spiegami cosa stai facendo di così importante a quest’ora, maledizione.”

“Accidenti, solo così le inchiodo cogliendole in fallo.”

“Chi? Che cosa?”

“Non è facile, al di là di ogni tua possibilità.”

“Adesso mi prendi anche per scema? Spostati e fammi vedere cosa c’è lì dentro.”

“No, non puoi. È diventata una questione delicatissima, eppoi con tutto il baccano che stai facendo…”

“Fatti da parte una buona volta. Voglio vedere.”

“Se te lo dico, ti calmi?”

“Forse, non te lo prometto. Prova almeno a spiegarmelo.”

“I lacci hanno un’anima, una vita nascosta. Un’intelligenza diabolica. Lo si vede da come si annodano senza che nessuno faccia niente, causando intenzionalmente difficoltà inutili, tutti i tipi di lacci, laccetti, spaghi, cavetti. Li lasci da soli un attimo e succede il finimondo, si annodano in modo indissolubile.”

“Ho capito. Pensi proprio che sia scema. Me ne torno a letto.

Fai pure la guardia alle stringhe complottiste.

Non pensare di essertela cavata. Domani a mente serena ne riparliamo. Hai bisogno di uno specialista.

Ma guarda un po’ questo cosa va a pensare, sto’ idiota.”

Lacci a parte, sulla cui questione non mi dilungherò perché so che siete d’accordo con me su quanto siano intimamente perversi, sfido chiunque a negare che lo facciano a bella posta. Vorrei invece attirare la vostra attenzione su una cosa che vi sarà certamente sfuggita, presi dalla questione ben più pregnante di quei stramaledetti.

Ho pronunciato solo parole senza una consonante in particolare, la ‘erre’ o ‘evve’ come direi io.

Fidatevi!

Scrivendo mi riesce tutto più facile, ovviamente.

Soffro di un lieve difetto di pronuncia, genericamente indicato come dislalia. Almeno, sono stati benevoli nell’evitare di produrre il difetto nel definirlo.

E qui giungiamo finalmente al nocciolo delle questione.

Se è noto che da generazioni e generazioni fino a che i miei ne avessero memoria, tutto un’asse della linea paterna presentava a ripetizione lo stesso difetto, come può venire in mente, se non con un’oculata malizia, di chiamare il maschietto primogenito come hanno chiamato me?

Non certo Claudio, Luciano, Silvio, Luca, Alfio o un nome qualunque possibile tra tanti.

Macché!

Ruggero mi chiamarono o “Vuggevo” come direi io.

Sarei potuto nascere in Cina in Giappone, no! In Francia mi sarebbe andata forse meglio, ma qui non si tratta di una erre rutilante o moscia, piuttosto è proprio uno scambio sistematico di lettera.

Non soddisfatti ne aggiunsero un secondo: Ruperto in onore del nonno materno, che Dio l’abbia in gloria!

La perfidia non finisce qui perché con una vena di sadica ironia, il nome di battesimo ha assonanza con il mio cognome: Ruggieri. Un capolavoro: ‘Vuggevo Vupevto Vuggievi’.

Eccolo qui il risultato di ingegnose macchine da guerra onomastiche.

Un genitore dovrebbe avere un patentino per onorare il ruolo di padre, di madre!

Da piccolo mi hanno brutalizzato con esercizi e filastrocche. Tutto inutile. Schiere di logopedisti fallirono. Uno si mise a storpiare le parole come me. Smise di esercitare.

Ogni volta che mi presentavo coglievo il sorrisino malefico di compiacimento, di compassione solidale.

D’accordo, ci sono problemi più seri a questo mondo, ma non è che ci si debba consolare se non siamo stati travolti da un enorme autotreno mentre si camminava amabilmente su un sentierino di montagna; scampare ad una morte a così alta improbabilità non mi consola neanche un po’.

La cosa più grave è che ci ho messo del mio per peggiorare la situazione.

Il lavoro, già il lavoro perfetto: ne scelsi uno che eleggeva relazioni pubbliche a norma quotidiana.

In amore godetti di fortune alterne.

Da amatore seriale collezionai una quantità indefinita di relazioni con donne molto diverse, ma tutte con lo stesso problema, per me.

Non potevo certo rifiutarle per un motivo tanto banale.

Mai una Paola, Luisa, Livia, Gelsomina, Valentina, mai!

Infilai una serie di Aurora, Roberta, Carla, Rosanna, Mariarosa fino a quella che infine sposai: l’amatissima Mariarosaria che pretendeva che il suo nome fosse pronunciato sempre per intero.

Solo con una non ce la feci proprio. Il nome era breve, carino: Lara, ma ogni volta che lo pronunciavo, soprattutto nei momenti più intimi, le veniva da ridere al punto che non c’era verso di proseguire, qualunque, dico qualunque, cosa stessimo facendo. Era irritante. L’amavo, la lasciai e sul punto più critico del mio discorso impegnato, preparato per ore con il dovuto carico di drammaticità: “Lava, mia cava…” lei si girò nascondendo il volto tra le mani. Sembrava singhiozzasse. Invece, le era presa una delle crisi di riso inarrestabili, incontenibili. Punto. Storia finita.  

Alla fine, l’epilogo, inevitabile: finalmente genitore.

Entrai commosso nella stanza. Lei era lì esausta e felice con il minuscolo batuffolo tra le braccia.

“Saluta papino. Prenditelo in braccio. Guarda che devi abituarti a farlo, sai?”

Cambio di tono in funzione del destinatario.

Temevo quello che mi aspettava.

“Come lo chiamiamo? Hai pensato a quello che ti ho detto?”

“Sì. Avrà il nome del nonno, mio padre. Non posso rinunciarvi. Chiaro?”

Chiarissimo.

Balbettai, esitai. Trovai il coraggio e cedetti.

“Ben… Benvenuto…”

Chiusi gli occhi.

“… Viccavdino… E che Dio ce la mandi buona!”


 

Dati autore:

Giuseppe Raineri

Data di nascita: 7.2.1959

Residenza: Bergamo – 


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