DEGLI ESANIMI ESAMI
(Scherzo serio in ATTO)
Chi
già insegnava
sì,
con passione,
or
disinsegna
per
compassione.
All’ombra del “Gobetti”, nei saloni
d’arte
impregnati, è forse il corso
degli
esami men duro? Quando il sole
più
non abbronza i commissari, entrando
per
strette finestrelle, e surriscalda
l’ambiente,
già infuocato da tensioni
pregresse,
cui s’aggiungono anche quelle
nuovissime
portate dagli “esterni”,
forse
che arriverà consolazione
dai
cinquecento e rotti euro che, al netto
di
ritenuta, saranno trecento,
non
contando le spese di trasporto
e
forse ammende per sosta vietata?
Vero
è ben, cari amici, anche con Prodi
la
musica non cambia, e ancora il rito
si
ripete immutato, ed ogni cosa
trascina
col suo spirito immortale:
presidi
e presidenti, professori,
studenti,
genitori ed ispettori,
giostrar
vedremo senza interruzione,
alimentando
un gioco senza fine.
Vero
è che questi giorni accalorati
prodighi
di prodigi sono ancora.
Forse
perché nella torrida estate
son
collocati, questi nostri esami
fanno
arrivare alla maturazione
in
pochissimi giorni, o in un baleno,
acerbissimi
frutti, invan curati
per
nove mesi, senza frutto alcuno.
Certo
è un miracol grande: gli studenti
guardano
i quadri esterrefatti, e chiedono
d’essere
pizzicati dai compagni,
non
fosse sogno quello che hanno visto,
(fissato
sulla carta in bella copia)
inaudito,
incredibile, imprevisto!
È così, candidati: la Speranza,
unica
Dea, regna agli esami, e spesso
maturo risultò, se pia la proffe
che
già l’accolse acerbo, e l’educava,
al
malridotto alunno fido asilo
porgendo,
salva la sua media rese
dall’insultar
dei commissari membri
esterni e interni, ed un magro “sessanta”
lo
consolò delle sue tristi prove.
Pur
nuova legge toglie oggi gli alunni
ai
docenti pietosi, ed agli esterni
spietati
commissari li consegna:
nei
volti pallidissimi ed esangui
dei
pargoli in affanno, nel lamento
di
sollecite madri, sconsolate,
nel
partecipe, inquieto smarrimento
persin
del personale non docente,
traspare
la paura del domani.
C’è anche chi spera che arrivino i nostri,
o meglio i loro ad aggiustar le cose,
a
riparare, o limitare, i danni,
a
dare almeno un senso alle noiose
pratiche
burocratiche che gli anni
han
reso mano a mano più copiose,
a
fare in modo che a lavare i panni
non
sian famiglie misericordiose,
ma
detersivi omologati, DOC.
Forse
convien lasciare ogni speranza,
occorre
riconoscer che l’esame,
sia
di maturità o di Stato, con le prove
(la
prima, la seconda, e anche la terza),
i
colloqui, le griglie ed i verbali,
tutti
quei cellulari accatastati,
montagne
di tesine colorate,
risulta un clamoroso “deja vu”.
Ed
anche se si affaccia uno spiraglio
di
serietà maggiore con l’idea
d’addossare
ai fanciulli nei e pecche
e
chieder loro il conto nel momento
del
giudizio finale, siamo certi
che
non finirà tutto in un immenso
debito
pubblico, e dovrà la scuola
dichiarare completa bancarotta?
Forse
dovremmo esaminar l’esame,
renderlo
una verifica oggettiva,
spassionata,
imparziale, non spietata,
ma
neppur lacrimevole, pietosa,
o
sdolcinata. Sì, funesta è questa
corrispondenza
d’amorosi sensi,
per
cui si piange col collega in panne
(memori
d’esser stati nelle canne)
e
il collega con noi, col risultato
d’un
bel condono generalizzato.
Ahi,
gente che dovresti con rigore
render
più veritiera la pagella,
considera
che il giovane ha bisogno
di
linearità, coerenza, di chiarezza,
anziché
di vischiosa tenerezza!
Restiamo
dunque mesti ad aspettare,
senza
illusioni, ma non disperando,
che
qualcosa maturi, non a luglio,
ma
nel lavoro quotidiano, e un giorno,
tanto bramato ed invocato, il sale
faccia
ritorno nelle zucche umane.
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