sabato 7 settembre 2013

Fotografia Parole ed Immagini a Peveragno

Prose di Alessandro Cuppini da Bergamo

L ’ U O M O A F O R M A D I U C’era una volta, ma solo una volta, c’era insomma una volta un pescatore che viveva in un povero villaggio sul mare dell’India. Si chiamava Rajkumar e se la passava male perché il mare dava loro appena da vivere, e tante volte nemmeno quello. Usciva tutti i giorni con la sua barchetta, ma spesso tornava solo con qualche acciuga. Quando prendeva un paio di saraghi o di sarde era una festa nella sua capanna. Ma era raro. Rajkumar non era un bravo pescatore, altri nel suo villaggio erano più abili. Ma era anche un uomo molto buono. Tutti nel villaggio gli volevano bene perché era gentile con tutti e se poteva aiutare qualcuno lo faceva volentieri, senza badare se perdeva tempo o faceva fatica. A volte il tempo non permetteva di pescare. Quando c’erano i monsoni, per esempio, piogge violentissime che si scaricavano sul villaggio per tre mesi, il mare era agitato, si rischiava continuamente di essere sbalzati fuori dalla barca, il pesce sembrava sparito. Quei mesi erano duri per i pescatori, e più che mai per Rajkumar e la sua famiglia. Aveva una moglie e due bimbi piccoli, ma nonostante la vita povera e molto semplice si volevano tutti e quattro molto bene. Un giorno Rajkumar era uscito in mare con la sua barca e aveva pescato tutto il giorno riuscendo a prendere solo tre sarde e un pugno di acciughe. Più o meno come sempre gli capitava. Però tornando era contento perché aveva in tasca due monete che la moglie gli aveva dato al mattino perché, tornando a casa, comprasse un po’ di verdura da cuocere assieme al pesce. Tutto sommato avrebbero avuto una buona cena quella sera: acciughe ed sarde fritte in olio di palma e qualche sedano di contorno. Legata la barca al solito palo nel porto Rajkumar si avviò verso il Mercato delle verdure facendo tintinnare le monete che aveva in tasca. Proprio all’ingresso della piazza del Mercato vide un fagotto accoccolato in un angolo, e solo dopo qualche istante si accorse che era un uomo, vestito di stracci. Come vide avvicinarsi il pescatore si mosse verso di lui, appoggiandosi sulle mani e sui piedi torti. Quell’uomo era tutto una torsione: la spina dorsale, che formava una specie di U rovesciata gli impediva di stare ritto. Sembrava un enorme ragno, o piuttosto una specie di scimmia; un orribile apparizione ributtante, sporca e spaventosa, un povero essere costretto dall’arco della colonna vertebrale a spostarsi saltellando su mani e piedi. L’uomo si fermò davanti a Rajkumar guardandolo da sotto in su con occhi tristi: Dammi una moneta, disse. Sarà la mia cena. Rajkumar esitò, non sapeva che fare. La sua mano in tasca rigirava le due monete che dovevano servirgli a prendere la verdura per la cena della sua famiglia. Non aveva spiccioli. Come fare? L’uomo a forma di U aspettava nel buio, la mano tesa. Rajkumar lo guardò negli occhi e si decise: tirò fuori una moneta e gliel’allungò, avrebbe fatto a meno lui del contorno, quella sera. A quella vista gli occhi del mendicante sembrarono illuminarsi nel buio. Abbassò le ciglia e mormorò una benedizione e poi disse: Tu sei un uomo buono. La gente normalmente mi dà qualche spicciolo che mi serve per comprare appena qualche banana. Storte come sono, le banane non fanno che peggiorare la curva della mia schiena. Invece con questa moneta stasera al mercato potrò comprarmi tre sedani, tre sedani belli diritti. E chissà che non mi aiutino a guarire… Rajkumar con l’altra moneta comprò tre sedani per sé e andò a casa. La cena per lui fu costituita semplicemente da una sarda fritta e un’acciuga. I giorni successivi andò come sempre a pescare, e ogni volta, tornando, si fermava al Mercato delle verdure. Il pover’uomo a forma di U lo aspettava all’angolo della piazza; buono com’era, Rajkumar trovava sempre il modo di regalargli qualcosa e, con la speranza di raddrizzargli la schiena, si sforzava di procurargli dei sedani. L’uomo, che si chiamava Lalit, lo ringraziava e lo benediceva. A Rajkumar sembrava che la cura funzionasse: settimana dopo settimana, Lalit pareva raddrizzarsi: un giorno lo trovò che camminava sui soli piedi, la settimana dopo era ancora gobbo ma già guardava il suo amico pescatore senza dover alzare la testa, il mese dopo era quasi diritto. Finché un giorno, andò incontro a Rajkumar al solito angolo della piazza e, mentre il pescatore stava tirando fuori qualche spicciolo perché si comprasse un sedano, l’uomo disse: No, Rajkumar, non ce n’è più bisogno. Ora sono guarito dall’incantesimo di un mago malvagio che, siccome io sono mago bravo più di lui, per invidia e gelosia mi aveva ridotto a strisciare per terra curvandomi la schiena a forma di U. Ma la cura dei sedani che tu mi hai generosamente permesso di fare mi ha risanato. Ed ora che ho ripreso il mio aspetto e le mie forze, voglio dimostrarti la mia riconoscenza. Vai a comprare quattro frutti di mango, poi prendi una foglia secca di palma e aspettami alla spiaggia del porto. Io verrò là. Rajkumar fece come gli aveva detto Lalit e dopo mezzora era sulla spiaggia. Il mago era già lì; aveva portato un piccolo tappeto che aveva disposto sulla sabbia. Lalit si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno a spiare, poi prese i quattro frutti di mango, da ciascuno estrasse il grosso seme che ha all’interno e ne mise ognuno ai quattro angoli del tappeto, tagliò la foglia secca a pezzetti minuti, la mise in una scodella al centro del quadrato e li accese con un fiammifero, fece sedere il pescatore al suo fianco sul tappetino e con voce solenne recitò una formula magica: IAS EVOD IMATROP OTEPPAT OCIGAM. Subito un turbine sollevò il tappetino con i due sopra e in un attimo si involò sopra la spiaggia e il porto, e poi sul mare. Rajkumar non vedeva nulla, ma dopo qualche secondo il vento si placò e loro si trovarono su una spiaggia deserta e sconosciuta. Lalit disse: Tu resta qui e bada bene al fuoco. Quando sta per spegnersi chiamami e torneremo a casa. Ma mi raccomando: chiamami prima che si spenga! Poi balzò fuori dal tappetino e si mise a raccogliere quelli che a Rajkumar sembravano granellini di sabbia. Lui stava attento al focherello e quando stava per spegnersi chiamò forte Lalit. Quello tornò di corsa e saltò sul tappetino, pronunciando una formula magica che Rajkumar non capì. Appena in tempo, perché il fuoco si spense e il turbine ricominciò violento come prima. In un attimo si ritrovarono sulla spiaggia del loro villaggio, dove Lalit gli fece vedere quello che aveva raccolto: sei perle piccole ma molto regolari. Quella era la spiaggia delle perle, dove vive il mago malvagio mio nemico. Ora va dal capo del villaggio a vendergli queste sei perle e non farti imbrogliare! Poi salutò il pescatore, che lo ringraziò molto, e se ne andò. Rajkumar andò dal capo del villaggio, gli vendette le perle. Con i soldi ricavati saldò i debiti che aveva in paese con vari negozianti e comprò ogni ben di Dio; poi tornò a casa e quella sera fece festa coi suoi bambini e la moglie. Il ricavato della vendita delle perle permise alla famiglia di Rajkumar di sopravvivere bene durante la stagione cattiva dei monsoni, e arrivare a settembre, quando ricominciò la solita vita per Rajkumar: aggiustare le reti, preparare la barca, uscire all’alba, buttare le reti e tornare a sera, spesso come al solito con qualche pesciolino appena. Una sera la moglie disse a Rajkumar: Nostro figlio ha bisogno di un vestito nuovo. Quello che ha è tutto stracciato. Prendi la mia tunica della festa, tagliala e fanne vestiti per te e per lui, rispose Rajkumar. Ma tu rimarrai con solo il vestito da lavoro. Non importa. Un altro giorno la moglie gli disse: Nostra figlia deve andare alla scuola del villaggio. Bisogna comprarle quaderni e matite colorate e non abbiamo soldi. Prendi il mio anello di matrimonio e vai dal capo del villaggio. Coi soldi che ti darà compra quanto serve alla piccola e comprati un vestito anche per te. Ma tu rimarrai senza il tuo anello. Non importa. Rajkumar fingeva che non gli importasse perché era molto buono, ma in realtà soffriva per la miseria in cui costringeva sé stesso e la sua famiglia a vivere. E diceva tra sé e sé: Che vita grama! E pensare che basterebbe bruciare un po’ di foglie e raccattare qualche perla alla spiaggia delle perle per vivere bene, facilmente e senza tanto penare! Questo pensiero continuava a frullargli per la testa: sapeva come aveva fatto Lalit e soprattutto si ricordava la formula magica che serviva a far decollare il tappeto. E allora un giorno senza dir niente alla moglie, invece di prendere la barca e andar per mare decise di provare a tornare alla spiaggia delle perle. Prese i quattro semi di mango, la foglia secca di palma, un tappetino e dispose tutto come aveva visto fare da Lalit. Accese il focherello e recitò la formula magica: IAS EVOD IMATROP OTEPPAT OCIGAM. Tutto andò bene, il turbine si alzò e sollevò il tappetino trasportandolo in un attimo alla spiaggia delle perle. Lì saltò sulla sabbia e si mise a cercare le perle, che si trovavano qua e là mischiate alla sabbia. Ogni tanto buttava un occhio al focherello per stare attento che non si spegnesse. Ma poi, tutto preso dalla ricerca delle perle, si allontanò parecchio e quando guardò verso il tappeto si accorse che il focherello si stava per spegnere. Corse indietro più veloce che poté; era a pochi metri dal tappetino quando fece un balzo per saltarci sopra. Ma in quel momento il fuoco si spense. Rajkumar recitò la formula magica ma il tappetino non si mosse. Non si preoccupò: si trattava di accendere di nuovo il focherello. Raccolse una foglia secca di palma, la ridusse a pezzetti, li accese e si preparò a partire. Recitò la formula magica e nulla successe. Un po’ sorpreso ma non ancora impensierito, la ripeté con più forza, parola per parola: la stuoia rimase immobile mentre il focherello bruciava. Pensando di aver commesso qualche errore ricominciò da capo: cercò un albero di mango, colse quattro frutti, ne prese i semi, riaccese il focherello, recitò la formula magica: niente, nessun turbine venne a sollevarlo e portarlo a casa. Riprovò ancora e ancora, senza successo. Allora Rajkumar si disperò: come avrebbe fatto a tornare a casa, se non sapeva nemmeno dove si trovava? E non aveva nemmeno detto nulla a sua moglie… La spiaggia era deserta; si accasciò sulla sabbia e si mise a piangere. Dopo un po’ sentì una voce provenire dalle palme alle sue spalle: Eri venuto per rubare le perle e ora non sei riuscito a tornare, non è vero? Rajkumar balzò in piedi e si girò per vedere chi era che gli parlava, e non vide nessuno. Capì che era l’invisibile mago malvagio, proprietario della spiaggia. Allora si gettò di nuovo a terra implorando: Sì, mio signore, abbi pietà. Che cosa sai fare? Sono un povero pescatore, rispose. Bene, farai il pescatore per me, concluse il mago. E da allora cominciò una nuova vita per Rajkumar, nuova per modo di dire perché in realtà era molto simile a quella che conduceva a casa sua. Ma la spiaggia delle perle era ben strana e non gli piaceva, perché tutto funzionava alla rovescia rispetto a casa sua: il sole sorgeva dal mare invece che tramontarci, le perle non avevano nessun valore perché erano più comuni dei sassi, le barche non erano normali barche da pesca, ma tre tronchi di tamarindo uniti tra loro da corde, si pescava di notte anziché di giorno, le sarde e le acciughe non esistevano, sostituiti da strani pesci fosforescenti dei quali c’era abbondanza. E in più la gente parlava una lingua incomprensibile, fatta di sillabe affrettate e schioccanti come piccole esplosioni. Rajkumar fu aggregato ad altri pescatori che lavoravano per il mago della spiaggia. Ognuno di loro aveva uno di quei pericolosi galleggianti costituiti da tre tronchi uniti sui quali si avventurava al tramonto con le reti a bordo. Arrivato lontano un’ora dalla costa, buttava le reti e tornava al mattino, spesso con un buona quantità di pesce. Che però non era per lui, bensì per il mago: tutto il pescato veniva ammassato sulla spiaggia, salvo una piccola quantità che i pescatori trattenevano per la loro cena, e la mattina dopo era scomparso. Questa vita andò avanti per un anno. Spesso Rajkumar pensava alla moglie e ai suoi bambini e piangeva. Molte volte di nascosto dagli altri pescatori aveva provato a recitare la formula magica sul tappetino, con i semi e la foglia di palma, ma senza che mai venisse il turbine a portarlo a casa. Finché un giorno gli venne un’idea. Andò in un angolo appartato della spiaggia, preparò tutto come sempre: la piccola stuoia, i semi di mango, la foglia di palma. Accese il focherello fino a formare un fumo denso e odoroso, si mise sulla stuoia e, con una preghiera silenziosa al suo amico Lalit perché l’aiutasse, recitò la formula magica; non come il solito però, ma alla rovescia, lettera dopo lettera: TAPPETO MAGICO PORTAMI DOVE SAI. Funzionò! Per tornare la formula era sempre la stessa, ma recitata alla rovescia. Un turbine vigoroso lo sollevò rapido in alto nel cielo scuro e dopo qualche istante lo depositò nella sua povera capanna. La moglie e i suoi bimbi stavano dormendo, ma si svegliarono per il gran rumore di vento che era entrato nella capanna. Al vedere il loro papà e marito gli fecero tutti una gran festa. Rajkumar, previdente, prima di partire si era riempito le tasche di perle, quelle più belle che aveva trovato durante l’anno passato sulla spiaggia dove il sole sorgeva dal mare. E così poté subito saldare i debiti che sua moglie aveva dovuto fare per campare in quell’anno senza l’aiuto del marito. Riprese a lavorare da pescatore sulla spiaggia dove il sole tramontava in mare, pescando acciughe e sarde, soprattutto acciughe. Di perle gliene erano rimaste abbastanza per superare i momenti difficili, quando arrivavano le piogge del monsone, senza aver più bisogno nel corso di tutta la sua vita di tornare alla spiaggia delle perle. Né d’altra parte ci sarebbe tornato per tutte le perle del mondo. S E N Z A N E S S U N A D U L T E R I O Quando Clelia aveva capito che il marito non sarebbe tornato a casa per la notte, le era venuta una rabbia dentro che sembrava soffocarla. Si era alzata di botto dal divano dove s’era seduta a mangiare una mela a morsi selvaggi, e si era andata a vestire per uscire. Aveva declinato l’invito di Roxana a partecipare ad un piccolo festeggiamento per il suo ritorno da una lunga permanenza all’estero appunto perché aveva deciso di restare la sera col marito, ed ecco che quello, senza nemmeno avvertire, chissà dove e con chi stava passando la serata. Allora aveva deciso all’improvviso, aveva preso un taxi ed era corsa da Roxana. La festa era al suo culmine e Clelia era stata accolta da una decina di amici con grida di giubilo. Tutti erano un po’ brilli e anche lei si era messa a bere champagne. Era praticamente digiuna e dopo due bicchieri si era sentita invadere da una piacevole euforia uguale a quella degli altri. Ora Clelia stava ritornando a casa, alle sei del mattino. Era la prima volta. L’auto si era fermata non davanti al portone ma all’angolo. Era stata lei a chiedere a Paolo che la lasciasse lì, perché non voleva che il portinaio la vedesse ritornare accompagnata da un giovanotto. Paolo spense il motore e fece per abbracciarla, ma Clelia si tirò indietro, come se vedere il balcone di cucina nel grigio dell’alba rendesse tutto diverso. Scese in fretta e fece cenno a Paolo di andarsene. Poi si avviò verso casa a passi ticchettati e veloci. Era quello l’adulterio? Il portone era ancora chiuso, non se l’aspettava. Aveva dimenticato la chiave nella fretta di uscire, e con la rabbia che non la faceva ragionare. Se n’era ricordata alle tre quando qualcuno si era offerto di riaccompagnarla. E così le era sembrato facile, più facile, accettare la corte di Paolo che le era stato addosso per tutta sera. Le piaceva quel ragazzone dall’aspetto di un bambino. Aveva passato la notte, o quel che ne restava, con lui, ma questa era un’espressione troppo forte, non vera. In realtà aveva aspettato con Paolo che venisse l’ora in cui il portinaio apriva il portone. Tutto qui. Credeva che aprisse alle sei, e invece no. E adesso era lì, in quell’ora silenziosa percorsa da lontani rumori intermittenti, il motore d’un’auto, l’aprirsi di una serranda, non quel brusio continuo e monotono della città che vive la sua giornata. E adesso cosa faccio?, si chiese. E assieme sentì il desiderio di essere nel suo letto, girarsi dall’altra parte e riaddormentarsi in attesa del giorno pieno. Ma un attimo dopo provò uno strano e gradevole rimescolio del sangue nelle vene: c’era qualcosa nell’aria frizzante della mattina e nella situazione nuova per lei che rendeva la faccenda piacevole. Ci si buttò come sempre con entusiasmo, contenta di assaggiare la nuova esperienza. Non rimpianse di aver liquidato Paolo che le avrebbe potuto offrire ancora ospitalità nell’auto, ma che l’avrebbe innervosita ancor di più. Non sentiva nessun rimorso per la notte passata fuori, anzi: si sentiva tranquilla. D’altronde la sua era stata una reazione a quanto il marito stava combinando, era stato lui il primo. Si sentiva tranquilla perché aveva saltato il fosso per la prima volta mancando ai doveri non scritti di una buona moglie? Oppure perché, al contrario, si era mantenuta, nonostante la notte brava, fedele al marito? Insomma, era tradimento quello o no? Ma la domanda rimase senza risposta, liquidata da un’alzata di spalle. Era sposata da sei anni e non l’aveva mai tradito. Ma c’era nella sua vita di moglie la coscienza oscura che mancasse di qualcosa, come se non fosse mai stata emancipata nel matrimonio e ancora le toccasse uscire da una minorità nei confronti del marito per essere finalmente pari a lui di fronte al mondo. Paolo era poco più di un ragazzo. L’aveva portata a spasso per tutta la notte nella sua macchina, su e giù per le colline, fino a vedere le prime luci dell’alba. La sua aria di donna indipendente che Clelia assumeva in queste circostanze l’aveva attirato, ma non sapeva quale timidezza in realtà nascondesse. Col marito Clelia aveva raggiunto una tal confidenza da sfociare in spudoratezza e in sfacciataggine; ma con gli altri… Qualche volta le avances di Paolo erano state audaci, e una volta l’aveva perfino portata sotto casa chiedendo di salire da lui, ma lei l’aveva sempre respinto. Era stata una notte da ragazzi. Era tradimento, quello? All’angolo, un bar aveva già tirato su la saracinesca, e allora Clelia si avviò per prendere un caffè. Entrò. C’era la segatura per terra e il barista stava accendendo le luci e la macchina degli espressi. Il caldo del locale le fece piacere. Non provava nessun disagio, dentro al bar, ad un’ora per lei così inconsueta: il barista non la conosceva e anche se fosse stato, lei non doveva render conto a nessuno. Un caffè doppio ristretto, per favore. Subito, signora. Ma prima lasciamo che la macchina si scaldi per bene e buttiamo via il primo caffè. Clelia aprì un pochino il cappotto, rabbrividì lievemente e disse: Freschino, stamattina, eh? Alle parole di Clelia il barista si girò e la guardò. E lei fu richiamata alla coscienza di sé dalla presenza e dallo sguardo dell’uomo, si sentì donna ammirata, e provò piacere per questo. Si specchiò nel cristallo dietro le bottiglie: vide la sua solita faccia graziosa e delicata, coi begli occhi azzurri appena un po’ assonnati. Un po’ più pallida del solito per via della notte passata insonne, ma la cosa poteva essere attribuita all’ora mattutina e al fresco dell’alba. A quest’ora, disse il barista, quelli svegli si dividono in due categorie: gli ‘ancora’ e i ‘già’. Dunque si vedeva che era una ancora!, pensò, ma non con dispetto, anzi: con una punta di compiacimento. Clelia sorrise: Ha sigarette? I tabaccai erano ancora chiusi. Il bar non ne vendeva, ma il barista gliene offrì una delle sue e Clelia si sedette ad un tavolino a fumare. Entrò un operaio, infagottato in una giacca a vento di una taglia più grande della sua. Un caffè, grazie, ordinò. Corretto?, chiese il barista. No, il grappino dammelo a parte. L’espresso doppio per la signora, fece il barista, e il caffè per il signore. Era bollente, Clelia lo sorseggiava. L’operaio bevve il caffè senza zucchero prima di buttar giù il cicchetto d’un colpo solo: Alla salute di tutti quelli che a quest’ora sono già in piedi, disse con voce roca per via del grappino. Alla sua, rispose Clelia. E un po’ si sentì in imbarazzo al pensiero che lei era una di quelli ‘ancora’ e non dei ‘già’, e le parve quindi come se si fosse appropriata di un augurio non suo. Al mattino, riprese l’operaio raschiandosi la gola, ci si sente forti come leoni e dopo un cicchetto come questo padroni del mondo. E alla sera? Alla sera sono morto. Dopo il TG casco dal sonno. Intervenne il barista. Parlava all’operaio ma guardava Clelia: Io quando suona la sveglia, alle cinque, caccio una fila di ‘madonne’ che non finisce più. Vieni a piedi a lavorare?, chiese l’operaio. Abito a dieci minuti da qui. Se ti facessi una bella volata in bici come faccio io prima di andare in fabbrica, vedresti che le cose andrebbero meglio. Il freschino ti sveglia e ti dà energia. L’aria pulisce la testa, disse Clelia. Ecco, vedi, la signora mi capisce. E dovrebbe bere un grappino anche lei. No grazie, rise Clelia. Non bevo neanche la sera. Ma quella era una bugia. E qui fa male. E rivolto al barista l’operaio disse: Dammene un altro. Due grappini prima di incominciare sono l’ideale. Poi verso Clelia: - Davvero non posso offrirle… - No, la ringrazio. Beva lei alla mia salute. - Va bene. E buttò giù il secondo bicchierino. Poi continuò: - Vede, le spiego… Clelia era lì, in mezzo a quegli uomini e discorreva con loro. Era tranquilla e non c’era nulla che la turbasse. Questa era la novità di quella mattina. Uscì dal bar con l’operaio. Quello salì sulla bici infilandosi i guantoni e stringendosi la sciarpa attorno al collo. Non ha freddo?, chiese la donna. Sono corazzato, rise. E si batté sul petto. Clelia sentì lo scricchiolio dei giornali di imbottitura. Ogni giorno la ‘Gazzetta’ di ieri. Saluti, signora. E partì con uno scatto che le fece capire la dimestichezza che aveva con la bicicletta. Clelia capì che quella notte era successo qualcosa da cui non poteva più tornare indietro. Quel suo nuovo modo di stare in mezzo agli uomini, Paolo, il barista, l’operaio, la faceva diversa. Era stato questo il suo adulterio, questo stare in mezzo agli uomini alla pari. Di Paolo non si ricordava nemmeno più. Pensò al marito: no, non l’aveva tradito nel modo classico con cui gli uomini pensano all’adulterio. Non ce n’era stato bisogno per capire che non l’amava più, che presto avrebbe dovuto darci un taglio: era bastata quella notte fuori casa, quelle chiacchiere con sconosciuti per capire che il suo matrimonio era finito. Il portone era aperto. Clelia entrò in fretta, il portinaio non si vedeva. Entrò dal portone e salutò il portinaio che stava passando lo straccio nell’androne. Salì le scale a piedi, senza chiamare l’ascensore, due piani. Lo faceva per abitudine, da quando aveva saputo che era salutare per il cuore. La casa era surriscaldata, Clelia aveva sempre freddo. La trovò in soggiorno, che leggeva una rivista. Lo salutò senza chiedere nulla, benché per la prima volta da quando erano sposati avesse passato la notte fuori, senza giustificazione. In realtà non aveva combinato nulla di quel che Clelia poteva immaginare: nessun incontro galante, nessuna avventura. Semplicemente uscendo dall’ufficio per recarsi a casa, la sera prima, aveva capito che era finita, che il loro matrimonio non valeva più nulla. Era come il marco tedesco nel primo dopoguerra, un secolo fa: si svalutava giorno per giorno e quel che prima costava così poco, come passare una semplice serata in casa, con lei, a leggere o a chiacchierare (che, anzi, avrebbe pagato), ora nemmeno per un mille euro… Non era successo all’improvviso, ma lui all’improvviso aveva capito, e d’istinto o per esperienza aveva concluso che bisognava pensarci su, che non ce l’avrebbe fatta a tornare a casa come al solito ad affrontare una serata con Clelia. Ed uscendo dall’ufficio alle sette era entrato nell’albergo lì vicino per passarci la notte. Era venerdì sera e l’albergo era semideserto. Non aveva nemmeno cenato, si era chiuso in camera a pensare e fumare. Pensava a Clelia, naturalmente, e al loro rapporto durato sei anni, che all’inizio era stato piacevole, come sempre succede. Felice? No, felice no. Dopo qualche mese di matrimonio aveva verificato che la felicità assomigliava assai poco a quel che si era immaginato. Ciò che stava sperimentando era meglio definibile come appagamento, che per di più, per quanto gli sembrasse strano, rappresentava una condizione imbarazzante e tutt’altro che gradevole. Lo metteva a disagio quel qualcosa di eccessivo, di sforzato che c’era nel sentimento che provava, come se fosse stato costretto ad andare in giro in smoking e papillon per tutto il giorno, mattina e giorni feriali inclusi. E in più, quello che definiva appagamento non poteva essere ritenuto una proprietà che si acquisisce o addirittura si eredita per poi soltanto averne cura ed evitare che qualcuno ce la rubi o la svalutazione ce la annulli; no, quel sentimento andava conquistato giorno per giorno, o addirittura inventato ora per ora, e alla fine era snervante e molesto più che rasserenante e piacevole. Più fatica che piacere, ogni giorno di più. Ecco perché quella sera non se l’era sentita di tornare a casa. Per non doversi inventare anche quella sera un qualcosa che diventava ogni giorno più difficile: come un vecchio acrobata forzato al doppio salto mortale, mentre le giunture fanno male e l’elasticità dei bei tempi andati è solo un ricordo. Quello dell’appagamento era stato un periodo della sua vita che per certi aspetti gli ricordava la ferma militare: per esempio nel dettaglio dell’abbigliamento, o se volete dell’uniforme. Clelia era molto rigorosa e dopo una settimana di matrimonio aveva preteso che lui, che fino a quel momento ci aveva badato ben poco, cambiasse abiti, biancheria, scarpe, cravatte… tutto: un intero guardaroba rifatto in pochi giorni. Tutte cose simili a quelle che aveva portato fino a qualche giorno prima, cose nuove di cui non negava né qualità né comodità né eleganza, che tuttavia gli sembravano una sorta di costume teatrale, un travestimento. Con la vita matrimoniale poi erano mutati la qualità del cibo e gli orari a cui si cenava o si andava a dormire. Niente di grave, piccolezze, modesti incomodi che lui sopportava in cambio dell’appagamento, senza farsi troppe domande, proprio come è opportuno durante il servizio militare. Ma ora i ricordi di quella serenità di abitudini consolidate della sua vita da scapolo, serenità che mai era svanita dalla memoria, tornava assieme al rimpianto e al desiderio di recuperarla. Tutto allora era razionale e pulito, odorava di buono e familiare; ora invece viveva la vita matrimoniale con prudenza, sperimentandola ogni giorno e tastandola con sospetto, come quando tocchiamo qualcosa in albergo o in treno, in ambienti più eccitanti e misteriosi di casa nostra, con la certezza che a casa, poi, bisognerà lavarsi le mani o fare il bagno. Tuttavia doveva ammettere che la vita con Clelia era più interessante di quella che conduceva prima. Lei era sempre di buonumore, le piacevano i piaceri della vita: si slanciava con avidità su ogni cosa che luccicasse, che sapesse di buono, che non le fosse toccato in sorte fino a quel momento. I primi tempi, forte della sua maggior esperienza, le dava consigli ma ora questo era vano quanto cercare di convincere un leone a diventare vegetariano o suggerire ad un eremita di darsi a vita mondana perché è più divertente. Clelia ora sempre più spesso faceva di testa sua, a volte in aperto contrasto con quanto sapeva che era l’opinione del marito. Sembrava lo facesse apposta, come per affrancarsi dalla tutela di un compagno più vecchio di lei di dieci anni e consumato conoscitore del mondo. Molte volte però adeguarsi alla sua volontà era attraente, perfino affascinante. Nel fare all’amore, quello che facevano un tempo, appena sposati, riconosceva la sua straordinarietà. Quel che il corpo poteva dare Clelia l’offriva volentieri, con prodigalità e naturalezza, come chi non si aspetta alcun ringraziamento perché non c’è di che ringraziare. Non distingueva le cose dell’amore dalle altre: per Clelia la vita con lui era un unico, perenne convegno galante che di tanto in tanto, a causa di deprecabili contrattempi, bisognava interrompere per qualche tempo. Svegliandosi, lei si alzava di botto senza nessuna fase di risveglio, e si metteva tutta nuda davanti allo specchio: a volte sedeva stupita sostenendo che quella non era lei, altre volte si schioccava un bacio su una spalla, vantandosi di quanto era bella e buona e affermando che il mondo non la meritava. Lui sospettava che il suo atteggiamento dipendesse dal sogno notturno che ancora ristagnava nella sua mente. Ora tutto era cambiato, e facevano sempre più di rado l’amore, come un dovere. Di notte, restava a guardarla a lungo mentre dormiva. Dopo che si era addormentata riaccendeva la lampada e restava sveglio ore ad osservarne il volto, con la stessa caparbietà con cui da studente passava le notti sui testi di Analisi matematica. Sul suo viso cercava il messaggio, il senso, la risposta ai suoi dubbi, come nelle grottesche formule di matematica dei testi universitari cercava la via per un buon voto all’esame. Di quei primi tempi appaganti lui ricordava i sogni ricorrenti, da sempre specchio dei desidèri più nascosti. Sognava ad esempio di volare, di essere Amelia Earhart, l’intrepida aviatrice solitaria degli anni ’30. Nel sogno stava trasvolando il Pacifico: era ormai a metà strada tra la California e Honolulu, non poteva più permettersi di tornare indietro, né poteva atterrare da nessuna parte. Non poteva far altro che continuare a volare fino alla terraferma davanti a lei. Il continente che aveva abbandonato, quello conosciuto, era senza dubbio la sua vita prima del matrimonio, ma la meta, l’approdo verso il quale si stava dirigendo nel sogno non era la vita con Clelia: era semplicemente un’isola sconosciuta, nella quale avrebbe dovuto atterrare, ma non sapeva che vita avrebbe avuta, se sarebbe stata serena e sicura o sarebbe stato mangiato dai cannibali. E volando si domandava: sarà l’Eden o la Terra Incognita, quella che i geografi d’un tempo connotavano con la scritta Hic sunt leones? Clelia era il volo in sé, rappresentava l’esperienza, forse l’avventura e il pericolo, ma mai l’altra riva. E poi: perché sognava la grande trasvolatrice e non il suo equivalente maschile, il grande Lindbergh? Forse perché il suo carattere, la sua sensibilità erano più vicini a quelli di una donna? Forse perché la più decisa, la più maschile dei due era Clelia? No, non era così: Clelia era timida, lui lo sapeva, e della femminilità seppure impudica faceva la sua arma migliore. Da quei sogni si svegliava sempre con un po’ d’affanno: senza essere incubi, gli lasciavano nella mente e nel corpo un’inquietudine che passava dopo ore. Seduto al buio nella camera d’albergo, aveva fumato e pensato alla fase che era succeduta a quella dell’appagamento, all’oggi. Ora gli sembrava che loro due stessero ancora insieme per pura distrazione: lui si era dimenticato di dirle che ne aveva abbastanza e lei rimaneva a ciondolare per casa fino a quando non gli avesse detto di togliersi dai piedi. Del resto, sempre più spesso gli era difficile sopportarla, perché Clelia alternava momenti di ridicoli slanci verso il sublime a fasi di quieta prosaicità; era sempre più spesso irritato dalla sua presenza, dalle sue chiacchiere, dai suoi atteggiamenti forzati. Clelia, purtroppo, era ormai diventata tutto fuorché misteriosa. Era restato in poltrona tutta notte; verso le due si era assopito, e si era risvegliato a giorno fatto. Aveva fatto una lunga doccia, pagato la stanza e si era incamminato verso casa. Aveva comprato un giornale, l’aveva sfogliato distrattamente. Non si sarebbe per niente meravigliato di trovarci un lungo articolo che lo riguardasse personalmente, con un titolo a lettere cubitali, che dicesse pressappoco: Ieri alle tre pomeridiane, in via Spontini, l’ingegner Russo ha subìto un mortale attentato al suo matrimonio… E magari anche una sua fotografia con la didascalia La vittima, o l’immagine del luogo dove si era perpetrato il crimine. Poi aveva gettato via il giornale, come fosse deluso di non trovar niente di simile. Ed ora era lì, davanti a lei, e non sapeva cosa dire. Clelia era seduta sul divano, con la rivista sulle ginocchia. Stranamente riteneva possibile che non solo lei, ma anche sua suocera e il vicino di casa e tutti in generale intuissero quel che gli era capitato. Anche senza bisogno di spiegazioni tutti dovevano sapere che a lui, all’età di trentacinque anni, era accaduto qualcosa di difficile da spiegare, da giustificare, da cambiare, come se nel pomeriggio del giorno prima fosse stato investito da un tram o gli fosse stato diagnosticato un cancro. Un incidente, un accidente per cui ormai nessuno poteva far più nulla, è l’unica cosa era mantenere la calma ed attendere gli eventi. Non c’era stato nessun adulterio, come poteva pensare in questo momento Clelia di fronte al marito che rincasava alle otto del mattino. No, non ce n’era stato bisogno per capire che era finita. Taceva davanti a Clelia. Per un attimo fu tentato di condividere con lei la decisione che aveva preso, così come avevano condiviso tutto fino ad allora nei sei anni di matrimonio, e aprì anche la bocca per iniziare a parlare. Ma temeva l’ovvia domanda: Perché?, a cui non avrebbe saputo dar risposta. Ma in fondo non era necessario né era opportuno spiegare che cosa gli era successo; era come se a proposito di un terremoto uno si affannasse a spiegare che non è colpa sua, rammaricandosi dell’accaduto e scusandosi perché un mondo intero sta sprofondando insieme a lui. In quel momento non poteva davvero spiegare niente a sé stesso né a Clelia, perché lui stesso cominciava solo ora a capire qualcosa, balbettando e inciampando su parole e concetti, come uno studente che impara una lingua straniera. Alla gente, il mondo esterno, sua suocera, gli amici, piacciono le cose semplici, e difficilmente avrebbero capito. La gente ha un inventario ristretto di sentimenti o di situazioni bell’e pronti: amicizia, amore, matrimonio, avventura, infedeltà, ed è convinta che la vita stia tutta lì dentro. E invece non ci sta per nulla. E quello che ora c’era tra lui e Clelia non aveva per il momento alcun nome e sarebbe stato difficile da spiegare che cosa fosse se non in forma negativa: non-era-più, non era più matrimonio. Del resto Clelia l’aveva capito bene, anche senza che lui parlasse: lo sguardo basso sulla rivista, sapeva che qualcosa stava per accadere, o forse era già accaduto, e sedeva eretta, in attesa. ‘Soffrirà’, pensò il marito. Ma subito dopo concluse giustificatoriamente: ‘Ma non poi troppo. È forte, ce la farà e semmai sarò io a soccombere, al rimpianto o alla solitudine.’ Si guardò in giro per la stanza: quella camera, con la libreria, le poltrone, il divano, il grande specchio, gli oggetti, tutto questo non avrebbe mai potuto eliminarlo dalla sua vita, l’avrebbe portato con sé fino alla tomba. Si erano molto amati in quell’appartamento, quando ancora erano due estranei, finché era rimasto un po’ di mistero tra loro. Poi adagio adagio il mistero era svanito, ed era sopraggiunto il pudore, che era stato la fine d’ogni cosa. Si avvicinò e si chinò su di lei. I suoi capelli profumavano di fieno, la fragranza gradevole e familiare del suo shampoo. Ecco le cose che legano, pensò, odori come questi, di cui è impossibile liberarsi. Sedette e cinse il collo di Clelia, ed ora stavano così, avvinti, due corpi che sapevano tutto l’uno dell’altro, non soltanto cuore e cervello, ma anche due stomaci, quattro polmoni, due fegati, ogni centimetro quadro di pelle. Si chinò su Clelia e la baciò. Quella bocca a lui così familiare, della quale conosceva il sapore e il modo con cui si atteggiava durante il bacio, gli rispose docile, morbida e impudica, proprio come ai vecchi tempi quando c’era ancora del mistero tra loro. Di colpo Clelia divenne una misteriosa estranea, si alzò, andò a chiudere la porta, lo prese per mano e lo portò in camera da letto. Senza dir nulla cominciarono entrambi a spogliarsi. Clelia ora giaceva sul letto a occhi chiusi, nuda, ma come su un tavolo operatorio. La abbracciò. I due corpi si spingevano arrendevoli, l’uno contro l’altro, come quelli di due acrobati che riescono a prevedere ogni movimento del partner con un guizzo d’anticipo e con grazia si lanciano in reciproco soccorso. I loro corpi si erano salutati come se si riconoscessero; era sempre stato così, sin dal primo istante, da quella sera in cui avevano fatto all’amore per la prima volta. Si erano amati profondamente fin da subito, ma senza esplosioni di gioia esagerata, con la confidenza di due membri della stessa famiglia, con l’intimità che si crea tra due persone affini. E Clelia era generosa e altruista in amore, come chi non si preoccupa di quanto sperpera, perché tanto resta tutto in famiglia. Con lei in passato aveva discusso di tutto, di tutto ciò che il corpo può dire. Lei aveva una chiara percezione del suo corpo, nel quale si trovava a suo agio perché tra lei e i suoi sensi non c’era nessuna distanza artificiosa, e conferiva alle funzioni del suo corpo, anche le più semplici e materiali, il carattere di una singolare cerimonia pagana. Non distingueva i giorni feriali dai festivi, celebrando il corpo in continuazione. Con piccole cerimonie ripetute era capace di mettersi a chiacchierare con mani o capelli, di accarezzarsi affettuosamente il seno. Tanto era pudica in pubblico quanto era spudorata in privato. Non considerava la nudità come il costume di scena dell’amore che gli attori indossano solo all’ora del rito; in casa stava spesso nuda, e si vestiva solo più per ragioni climatiche che per obbligo sociale. Ma ora non era più così, ora si copriva e il pudore, che d’altra parte è una delle più belle qualità in una donna, aveva preso il sopravvento. Ed ora facevano all’amore, come sempre. Come sempre? No. I primi tempi si gettavano uno sull’altro, un marziano che li avesse osservati avrebbe pensato: ‘Ma che strani movimenti, questi dell’amore tra due terrestri! Che cos’altro può essere questo mordersi, abbrancarsi, afferrarsi per il collo, questo disperato usare le mani, i pugni, le unghie, i denti, questo rabbioso frugare in un corpo altrui, che cos’altro può essere se non una disperata scena di collera, una punizione, una resa dei conti? E questi si amano?’, avrebbe concluso. ‘Ma che faranno allora quando si arrabbiano?’ Ed in effetti era come se ciascuno dei due pretendesse qualcosa dall’altro, rantolando e lottando, completamente sprofondato nell’altro. Ma adesso no, adesso era un’altra cosa. ‘Ora non c’è mistero’, pensò. ‘Siamo due corpi che si servono a vicenda, come a tavola ci passiamo il sale e l’olio per l’insalata, senza nemmeno che ci sia bisogno di chiederselo a vicenda. E intanto io me la prendo comoda, e posso pensare ad altro, perché tanto il mio corpo sa benissimo cosa deve fare. E così il suo. Due acrobati che eseguono un gioco di destrezza, fino al doppio salto mortale finale.’ Udì un digrignare di denti, un grido breve e soffocato e giacque immobile. Tutto era stato consumato in silenzio. Dopo un minuto si alzò e si rivestì. Clelia era rimasta distesa sul letto, come se dormisse. Sulla porta si voltò a guardarla e temette che avrebbe potuto prender freddo. Così ritornò presso il letto e la coprì col lenzuolo. Uscì in punta di piedi, in corridoio si arrestò un istante al pensiero che forse avrebbe dovuto prendere qualche vestito, due camicie, un paio di libri; ma poi guardando l’orologio trasalì, come chi si accorge di essere in ritardo. E allora uscì in fretta dall’appartamento, chiudendo piano la porta.

Parole ed Immagini a Peveragno

Domenica sera 1° settembre alla Casa Ambrosino vi è stata inaugurazione della esposizione “Parole ed Immagini” a cura del Circolo “Mellana” (aperta con orario biblioteca e sera dalle ore 21 alle ore 23 fino al 12 settembre, dal lunedì al giovedì telefonando al 340.3761714). Si tratta di esposizione di fotografie ed abbinamenti tra immagini e parole selezionate tra i partecipanti alla iniziativa della frazione bovesana, premiata lo scorso luglio (una settantina di opere sulle circa duecento ammesse alla manifestazione). Lo scopo è di offrire altra possibilità a chi interessato di vedere immagini di ottimo livello, fotografie opera di autori (si raccolgono sui trecento partecipanti ogni anno) provenienti da varie regioni italiane e dal Cuneese (vari sono i partecipanti del Circolo di Roccavione “Espera”), oltre che ringraziamento ad un Comune come Peveragno che, come pochi fanno, ha ancora il coraggio di investire nella “cultura”, di darle una importanza, per il presente e le prospettive future, la crescita delle giovani generazioni. I pacchi di libri che tutti gli anni costituiscono parte del premio per i vincitori quest’anno avevano varie pubblicazioni curate dal Comune di Peveragno. Protagonisti della serata sono stati i giovani della “Semina delle note” iniziativa di formazione musicale tradizionale coordinata, nei mesi scorsi, dalla Associazione peveragnese “Gai Saber”, alternando lettura di opere premiate a brani (si sono esibiti Costanza Rapa, confermatasi lettrice deliziosa, pur giovanissima, già con solida formazione teatrale, Camilla Giraudo, Maddalena Giuso ed Antonio Rapa). La scelta di poesie e di estratti da varie prose è stata a cura di Chiara Giordanengo, insegnante e direttrice della locale Biblioteca, che le ha accompagnate con la tastiera. La serata (con pubblico confortante, trattandosi di iniziativa culturale) si è conclusa con gli interventi di Candida Rabbia, poetessa cuneese e pittrice, Augusto Boccalatte, brillante scrittore residente a Boves (che ha annunciato messa in onda su televisione locale), e Vittore Giraudo, scrittore satirico cuneese, da anni protagonista di Concorso e letture mellanesi. Nei locali vi sono le sale museo dedicate ai peveragnesi Pietro Toselli, Caduto in Abissinia, e Vittorio Bersezio, commediografo autore del celebre “Munsù Travet”. Nella sala stessa si possono ammirare centinaia di foto storiche del paese, una collezione unica.