lunedì 30 giugno 2025
UN DUE TRE… STELLA! di WILMA AVANZATO, CHIVASSO (Torino)
UN DUE TRE… STELLA!
Era un pomeriggio assolato
di inizio agosto e in paese quasi tutti se n’erano andati al mare o a cercare
frescura altrove. Faceva caldo, molto caldo, e io stavo sulla soglia della mia edicola-tabaccheria
perché dentro il negozio la temperatura era altissima e l’odore del piombo di
stampa dei giornali prendeva alla gola.
Era da settimane che
non si vedeva un temporale, la piazza era polverosa e le macchine parcheggiate
sembravano coperte da un sottile velo di cipria grigia che le rendeva brutte e
tristi, come abbandonate. Da lontano, il riverbero sull’asfalto ingannava gli occhi
e la mente facendo credere che la strada fosse bagnata di pioggia recente.
La vidi sbucare dal
portoncino di legno. Il vestitino di cotone, i sandaletti blu, le trecce lunghe
lunghe e le ginocchia sbucciate. Mi chiesi come diavolo facesse quella bambina
ad avere le ginocchia sbucciate: non usciva mai di casa se non per venire a
comprare le stecche di sigarette per i suoi genitori e per tutti quelli che
vivevano in quell’appartamento, proprio di fronte al mio negozio.
Era una casa vecchia,
con due locali sfitti al pian terreno e un alloggio squallido al primo piano. Quattro
finestre dai vetri non proprio puliti e un lungo balcone completavano l’abitazione
che era rimasta anch’essa sfitta per molto tempo, perché il nostro paese
offriva poco o niente, lontano dalle comodità della città.
Poi, a metà giugno,
erano arrivati loro. Erano in otto: tre coppie, un ragazzo solo e quella
bambina… e vivevano tutti insieme. Talvolta arrivava qualcuno di nuovo che si
fermava pochi giorni e poi ripartiva con lo zaino sulle spalle.
Erano persone strane,
schive e taciturne, che uscivano solo per andare a lavorare… forse. A parte la
bambina, che veniva ogni giorno nella mia tabaccheria, nessuno li aveva mai
visti negli altri negozi del paese… l’alimentari, il panettiere, la macelleria:
probabilmente compravano le provviste in città, perché mangiare dovevano pur
mangiare… Anche in chiesa non si erano mai visti e Don Giulio, che di solito
andava a benedire la casa di chi arrivava nuovo in paese, si era ben guardato dall’andare
da loro.
Una comune… così si
diceva di quella casa: una comune dove vivevano tutti insieme, in promiscuità… Dei
comunisti senza Dio…e due di loro avevano pure una bambina, magari senza neanche
essere sposati…
La gente parlava e
sparlava, ma nessuno poteva dire di conoscerli veramente.
La bambina attraversò
con passo veloce la piazza, la testa bassa di chi non vuole farsi notare.
Sapevo che era
diretta alla mia tabaccheria e mi scostai dalla porta per farla entrare. Mi
sembrò tirare un sospiro di sollievo vedendo il negozio deserto. Non parlava
con nessuno e non l’avevo mai vista giocare in piazza con gli altri bambini. Mi
chiedevo se a ottobre avrebbe frequentato la scuola del nostro paese.
«Due stecche di
sigarette… le solite…», disse in un soffio, srotolando le banconote che teneva
in tasca e porgendomele.
Poi, preso
velocemente ciò che avevo appoggiato sul banco, scappò via di corsa, senza
neppure salutare.
La vedevo tutti i
pomeriggi, sul balcone di quella casa: giocava da sola, anche se in piazza
c’erano altri bambini a cui avrebbe potuto unirsi. E invece no: li osservava, magari
avrebbe voluto essere lì con loro… ma probabilmente non le era permesso. Forse i suoi genitori temevano qualcosa.
Forse non doveva parlare con i suoi coetanei.
Chissà!
«Un due tre… stella!»,
pronunciava ad alta voce con gli occhi chiusi, girata verso il muro, per poi voltarsi
di scatto a guardare compagni di gioco immaginari e, col dito indice puntato, gridare:
«Tu… e anche tu… vi siete mossi… vi ho visto!».
Se c’erano bambini in
piazza e la sentivano, cominciavano a prenderla in giro, ma lei continuava
incurante. Una volta, uno di loro l’aveva invitata a scendere per giocare
insieme, ma lei non aveva risposto: era rientrata frettolosamente in casa e per
tutto il pomeriggio non l’avevo più vista sul balcone.
«Un due tre… stella!».
Anche quel pomeriggio, sul balcone invaso dal sole accecante di agosto, la
bambina si era messa a giocare. Ammiravo la sua fantasia e, allo stesso tempo,
mi faceva una gran pena saperla tutta sola, su quel balcone che, guardato dalla
prospettiva del mio negozio, sembrava una gabbia con dentro un animaletto
irrequieto.
«Un due tre… stella!»,
continuava imperterrita mentre la osservavo stando sempre sulla soglia della
tabaccheria… che tanto quel giorno avrei fatto meglio a chiudere, giacchè la
piazza e le strade erano deserte per il caldo.
Ad un tratto vidi aprirsi
il portoncino di legno sotto al balcone. Uscirono un uomo e una donna, quelli
che avevo immaginato fossero i genitori della bambina.
«Mamma… papà… ciao!»,
li salutò infatti lei dal balcone, per poi riprendere subito il suo gioco… Un
due tre… stella! Un due tre… stella!
I genitori non alzarono
neppure lo sguardo verso di lei.
Li adocchiai
incuriosito: non uscivano mai a metà pomeriggio, ma solo la mattina presto, all’ora
in cui io aprivo il negozio. Sembrava che si sentissero osservati, seguiti,
perché, mentre stavano andando a prendere l’auto, una Fiat 127 verde oliva
parcheggiata lì nella piazza, si guardavano intorno come intimoriti.
«Un due tre… stella…»
fu l’ultima cosa che sentii prima delle sirene spiegate.
Tre volanti della
Polizia fecero irruzione nella piazza andando a rompere quel silenzio fatto di
sole e di polvere e di caldo.
Io, d’istinto,
scappai dentro il negozio ma, nonostante la paura, una curiosità prepotente mi
fece rimanere fermo dietro la porta a vetri, per vedere cosa stava succedendo.
Dalle auto scesero
diversi uomini, tutti col giubbotto antiproiettile e le pistole in pugno.
«Mani in alto!
Polizia!».
I miei occhi andarono
alla bambina sul balcone. Aveva smesso di giocare e guardava attenta cosa stava
succedendo di sotto, accovacciata dietro la ringhiera, la faccia incredula.
Strano, ma sembrava che accanto a lei, messi nella stessa posizione, ci fossero
i suoi amici immaginari, quelli che giocavano a “un due tre… stella” e che
immancabilmente si facevano sorprendere mentre si muovevano.
Quando il mio sguardo
tornò alla piazza, partì il colpo di pistola verso l’uomo che aveva tentato
un’inutile fuga. La donna, con le braccia alzate e un’arma puntata contro, cominciò
a urlare vedendo il suo compagno a terra, inerme. La bambina sul balcone, no! Dalla
sua bocca non uscì una sola sillaba. Scorsi solo i suoi occhi spaventati che sembravano
voler schizzare via dal volto che era diventato mostruoso per l’orrore.
Il suono delle sirene
delle volanti fu sostituito da quello dell’ambulanza. Non so chi l’avesse
chiamata… forse qualcuno di quella casa, magari nella speranza di salvare il
loro compagno…
L’uomo a terra pareva
un fantoccio di pezza: le braccia scomposte, la posizione innaturale. Fu
caricato su una lettiga e, dopo che il medico gli tastò il collo e scosse la
testa, l’ambulanza ripartì con a bordo non un ferito ma un morto.
Poi, dopo quei momenti
lunghi il tempo di una vita spezzata, la piazza fu di nuovo, soltanto, un posto
assolato, pieno di polvere e di macchine coperte dal sottile velo di cipria
grigia. Come non fosse successo nulla. E la bambina sul balcone era scomparsa.
Il suo gioco si era interrotto, come la sua infanzia.
Brigatisti! Così
titolarono i giornali il giorno dopo… quei giornali che io vendevo nel mio
negozio.
Brigatisti, quelli
della comune! Così disse la gente.
Erano gli “anni di
piombo”… con questo nome sarebbero stati consegnati alla Storia… e per questo
nessuno si stupì, nemmeno del fatto che fosse successo in un paese piccolo come
il nostro, estraneo ai cortei studenteschi e agli scioperi, lontano dalle
grandi città e dalle occupazioni di università e fabbriche. Nessuno si stupì
perché si sapeva che le Brigate Rosse ormai avevano rami ovunque.
Ma, nei giorni
successivi, i racconti su quanto era successo si moltiplicarono, ricamati con
sempre nuovi particolari. Dissero che le due persone arrestate avevano
partecipato a numerose rapine e addirittura al sequestro di “quello degli
spumanti”[1] di Canelli. Dissero che
avevano piazzato bombe e ucciso persone. Dissero che anche quel giorno avevano
sparato, per non farsi arrestare. Dissero che qualcuno li aveva “traditi”
facendoli cadere nella trappola della Polizia.
Dissero tante cose… ma
in fondo nessuno sapeva nulla di loro, e quel giorno nella piazza non c’era anima
viva: solo io e la bambina sul balcone. Quell’arsura provvidenziale li aveva
portati tutti al mare o li aveva chiusi in casa, davanti al ventilatore acceso…
quasi a voler risparmiare loro l’incontro con un piccolo pezzo di Storia di
quegli anni terribili.
Nessuno però parlò
della bambina… La bambina che giocava sul balcone e che aveva visto tutto. Che
aveva visto arrestare sua madre e morire suo padre.
La bambina che era
stata costretta a vivere in un mondo di soli adulti.
La bambina che stava
pagando le scelte scellerate dei suoi genitori e di una generazione che parlava
di “lotta di liberazione della classe operaia” e lo faceva con le armi e con le
bombe, con il sangue e con la morte.
Sembrava non essere
mai esistita, quella bambina, anche se io continuai per giorni, mesi, anni, a
sentire la sua voce squillante provenire da quel balcone ormai privo del suo
gioco.
Un due tre… stella!
[1] Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato dalle Brigate Rosse il 4 giugno 1975.
Poesie in baule di Daniela Antonello, Padova
Poesie in baule
Dentro il baule della mia vita
il groviglio dei pensieri senza sapore
il barattolo delle piccole scorciatoie
le radici degli affetti senza colle
le ragnatele dei rapporti appiccicosi
le foglie dei sentimenti scricchiolanti
le cortecce dei desideri invecchiati
le scatole vuote delle parole piene
i sassi delle sofferenze appese
i colori delle offese inutili
le poesie di dolore inchiodate
sulla croce di legno
i baci negati...
Daniela Antonello
Padova
Nìvole' d nostalgìa di Maria Teresa Cantamessa, Ivrea (Torino)
Nìvole' d nostalgìa
Vos ant la neuit,lontan-e,
forse a l' é mach ël vent
o son ij tò arcòrd
che dess a seurto fòra
e't parlo pasi e doss.
Na mostra arbat ël temp.
Con j'euj sgranà'nt lë scur
figure at torno an ment:
masche, sarvan o faje?
Nìvole'd nostalgìa
ëd tò cit mond d'antan;
ombre'd coj seugn nossent
che t'agrampe për vive
an cost ancheuj bin grev.
Peui ti të spete l'alba,
maitas d'arvëdde'l sol.
Ma'l di che tòst a nass
të s-cianca ancor na frisa
'd col bel giardin fiorì.
Nuvole di
nostalgia
Voci nella notte...lontane, /forse é solo il vento / o sono i tuoi ricordi/ che ora vengono fuori / e ti parlano pacati e dolci./ Un orologio ribatte il tempo./ un orologio scandisce il tempo./Con gli occhi spalancati nello scuro/ figure ti ritornano in mente:/streghe, folletti o fate?/Nuvole di nostalgia/ del tuo piccolo mondo lontano;/ ombre di quei sogni innocenti/ ai quali ti aggrappi per vivere / in questo oggi molto greve./ Poi aspetti l'alba,/ smanioso di rivedere il sole. / Ma il giorno che presto nasce / ti strappa ancora un poco / quel bel giardino fiorito.
Na bon-a mira - Luigi Lorenzo Vaira, Sommariva del Bosco (Cuneo)
Na bon-a mira
Minca vira ch’i vado a pijé la vitura
postegià sota a la cormà im la treuvo tuta giajolà dai colomb che ʼnt la neuit
a van a gioch ansima ai trav e che, apress d’avèj mangià an manera bondosa, as
dësbarasso l’intestin sensa sbalié un colp. Costa a l’é na facenda ch’a va
anans da vàire ani e che adess ëbzògna risòlve an quàich manera decisa përchè
tut lòn ch’i l’oma provà fin-a a sto moment a l’é nen ʼndàit a bon fin. Quand
ch’i j’era gagno la solussion a sarìa stàita un-a sola e cole bestiëtte,
compagnà con na bela fëtta ʼd polenta, a l’avrìo ʼmpinì la pansa dij mè grand,
ma al di d’ancheuj, ch’i soma dventà tuti ambientalista o vegetarian, a son
moltiplicasse fin-a a dventé un problema seri për pais e sità. Minca vira che
la ciòca dla paròchia a bat j’ore dai sò cop as àussa un vòl ëd colomb tanto
gròss da podèj ëscurì ël sol e che, miraco për lë sbaruv, a benediss ant la
sòlita manera tut lòn ch’a-j passa sota. Mi për prim i vorerìa mai fé dël mal a cole
creature, i l’heu pro ciapane quatr o sinch con ëd trapole artigianaj, ma chile,
coma s’a savèisso ch’i-j sarìa capitaje gnente ʼd brut, a son ëstàite sarà an
gabia cole doe o tre ore sensa sagrinesse e quand ch’ i l’heu torna daje la
larga a son manch ëslontanasse tròp piassand-se sël bòrd ëd la grondan-a pront
a torna caleme ’nt l’èira. Ciamandje consèj al veterinari i l’heu butà sla
galerìa doe sagome ʼd bestie ferose, n’oloch e na pondrà ch’a l’avrìo dovù
sbaruvé minca rassa d’osel, con la sola riussìa che le róndole a son andàite a
fé ël nil a ca dj’avzin e ij colomb nopà, dòp d’avèj capì che le sagome a j’ero
’d goma, a son dventà ij sò prim amis. Combin che costi inquilin a spòrco tut a
toca nen fé l’eror ëd pensé ch’a sio ʼd creature pòch polide, tut àutr, minca
matin, pen-a ch’as leva ʼl sol, as na van a pijé ʼn bagn drinta a la fontan-a ʼd
ca nòstra che për l’ocasion a fà da vasca, bornel e, s’a pòrta, cò fin-a da cess.
Nacc, mè can da vardia, a l’é cò chiel dasse pas dal moment che, essend tròp
vej, a l’ha pì nen veuja ʼd core për taparé ij colomb, tant a serv a gnente da
già ch’it na mande via un e sùbit apress d’àutri tre a rivo a sò pòst. Na frisa ʼd soliev, a vorèj dì tuta la vrità,
i l’oma avulo piassand n’angign modern catà sl’aragnà che, con dë strument ch’i
son nen bon a spieghé coma ch’a fonsion-o, a sent ël passage dij colomb quand
ch’a calo për andesse a lavé e mersì a un registrator, che l’eletricista a l’ha
tacame a la fnestra dla cròta, a manda ’l crij dël farchèt sbaruvand cole
bestiasse. La solussion, motobin sempia për ëschivié tut sossì e feme capì
d’avèj ësgairà ij sòld, a l’é stàita trovà da coj oslass ant ël vir ëd na
sman-a, forsi meno: minca matin nompà che volè diretament sël bòrd ëd la
fontan-a lor a calo an mes a l’èira e peui a van a fesse ël bagn marciand a pé
sensa fé ʼnterven-e coj sensor ch’i l’heu pagà car e salà.
Coma ch’is peul capì la facenda a l’é dventà
bin mala da soporté e për gionteje ʼd fer a la ciòca ’l can a l’ha ciapà na
rassa ʼd piatole, portà pròpi dai colomb, ch’a podrìo ʼdcò taché j’òm. Për cost
motiv, bele dë stracheur, i l’heu decidù ʼd libereme ʼd cole bestie tirandje
con la carabin-a ardità da mè cé, na veja “Diana 25” cola che papà a ciamava “Flobert”
e che a l’é squasi pericolosa coma na pistòla a eva da già ch’a tira stòrt e
che ʼd potensa a n’ha meno ʼd na franda. Comsessìa dòp d’avèj trovà na desen-a
’balin adat e fàit tre o quatr tir ëd preuva, senza mai ciapé la tòla ch’a
fasìa da bërsalio, ancheuj, essend na giornà lìbera dal travaj, i son piassame
a l’avàit dré da le gelosìe dla stansia da let dël prim pian con l’intension,
se nen pròpi ëd masseje, almeno dë sbaruvé ij colomb an manera da feje cambié
adressa për un pòch ëd temp. Coma ch’a sia sta facenda mi i savrìa nen a dilo comsëssìa,
manch a savèisso mie intension, sta matin ij colomb a smijo an siòpero; i j’era
squasi sicur ëd dovèj speté nen pì che des minute për avèjne un a tir nompà as
na stan tuti quaciarà sël corm dël vej ëstabi a tubè për sò cont coma s’a fusso
stàit avisà che mi i son piassame ambelessì për feje dël mal. Dal cioché dla
paròchia as àussa un vòl ëd na tranten-a d’element ch’a passo dzora a mia testa
diret a le piante dël castel, un dij pòchi leu anté che berte e cornajass a son
ʼncor nen fasse taparé dai neuv padron dël cel nostran.
Ël croassé dij padron ëd ca ʼncora na vòlta
a basta për ësbaruvé ij colomb ch’a cambio òrbita artonand anver la gesia, quaidun
ëd lor però as fërma a fé companìa a coj ch’as na stan quaciarà sij mè cop,
pront a caleme ʼnt l’òrt për ëspicassé ij neuv brojon ch’a dan fòra da la tèra.
Mi i son mai ëstàit un ’d coj tirador barbis
ch’a ciapo le monede al vòl ansi, a dì tuta la vrità, quand ch’a rivava ʼl
tirassegn a mè pais ël pì dle vire i fasìa talment tanta pen-a a la padron-a
dël baracon che apress ʼd na vinten-a ʼd colp am disìa chila ʼd pì nen ësgairé
ij sòld an cola manera. Për ësto motiv i deuv avèj passiensa e speté che mie
prede am ven-o bin a tir, magara caland na cobia ʼd mèter dal corm e dasend-me ʼdcò
la certëssa che ʼl balin a peussa nen ëscavalché ij còp fasend quàich dann a ca
dj’avzin.
La susta a dventa sùbit ëstracanta, fé ʼl cassador
a l’é nen mè travaj am na manca la passiensa, tutun quand ch’i son ësquasi
decidume a lassé perde mè propòsit, na cobia ëd colomb a cala sla gronda për
bèive la pòca eva fërma prima che ʼl sol a la fasa svaporé. A l’é l’ocasion
ch’i spetava… an mia ment quaicòs a cambia e ʼd botamblan im trasformo ʼnt na
përson-a ch’i conossìa nen: un sassin assià ʼd sangh. Mie man a tiro fòrt vers
ʼl bass la cana dël fusil për carié la mòla dla carabin-a, ël balin i l’heu già
ʼnfilalo prima e donca i deuv mach pì fé scaté l’angign ch’a pòrta torna la cana
an posission për ësparé. Ij moviment as fan lest, ma dlicà për nen fé gnun
armor e sbaruvé mie vìtime. Dosman im ampontajo a la quara dla fnestra ʼn
manera da nen tramblé mentre ch’i pijo la mira. Ij colomb a stan nen ferm e
donca ël tir a dventa malfé, ma a l’é nen col-lì mè sagrin, ant ësto moment as
trata ëd trové l’àtim giust, cola frassion ëd second quand che ʼl mirin e
l’anchërna ʼd mira as treuvo an dirission precisa d’un-a ʼd cole bestie. Ël
temp a smija ch’a marcia pì pian, fin-a mè respir a l’é ralentasse a dispet dël
cheur ch’a bat fòrt coma s’i l’avèissa fàit le scale ʼd corsa. Ël colp a part ësquasi
an silens da già che la “Diana 25” a l’ha bin pòca
potensa, ma con mè grand ëstupor a va a segn; forsi për la prima vira an mia
vita i son ëstàit bon a fé centro. Un di doi osej, la fumela, a perd quàich piuma
ch’ a sta ʼncora caland ant l’èira quand che chila, con un cit vòl dësperà, a
dròca sla fàuda pì bassa dël garas. Coma un tirador assià ʼd vendëtta i carìo
torna la carabin-a pront për ëspareje ʼdcò al mas-cc; adess sensa sagrineme
dj’armor, as trata mach ëd fé lest prima che, rendend-se cont dël pericol, ël
colomb a riessa a volé via coma ch’a l’han già fàit ij sò cambrada ch’a tubavo
sël corm. Tuti jë scrùpoj ch’a l’han sèmper blocame ’nt ij mèis andarera për
nen lasseme fé dël mal a cole creature a son svanì e mi, coma s’i fussa sota
l’efet ëd na quàich dròga, i son pront a torna massé, ma… quand ch’i stagh për
tiré ʼl grilèt, nompà che scapé, ël mas-cc a pija ʼl vòl e a ven a posesse sël
mancorent ëd la galerìa a pòch pì che un mèter da mia postassion.
A sarìa squasi impossìbil ësbalié ’l colp da
na distansa tanto cita, l’osel a l’é ambelessì dnans a mi ch’a më smon ël pèt
coma s’a fussa ël bërsalio ’d col tirassegn ch’i son mai stàit bon a centré an
mia giovnëssa e am varda drit ant j’euj dësfidand, o forsi sercand cò chiel, la
midema mòrt ch’a l’ha portaje via soa compagna.
J’osej a l’han dë sguard ch’a son nen
espressiv tutun, adess che mi e cola cola bestiëtta is vardoma drit ant j’euj,
a l’é coma s’i podèissa lese tuta soa disperassion, col mas-cc a smija ch’a
veuja dime:
«Sù, fame vëdde vàire ch’it ses an piòta,
mass-me cò mi, tant mia vita it l’has già portam-la via con tò prim colp».
Mai i j’era stàit tanto ontos coma ʼnt ësto
moment, cole due bestie, an mia testa, a son dventà person-e e im rendo cont
dël delit ch’i l’heu compì. Im anmagin-o lòn ch’a preuva col colomb ch’a l’ha
vist massé soa compagna e ’d botanblan la veja carabin-a am pèisa ’nt le man
coma s’a fussa fàita ʼd piomb. Daspërmì i faso la promëssa che mai pì i fareu
na folairada përparèj, ma tant mia bon-a intension a servirà nen a libereme dal
magon ch’a l’ha pijame dòp d’avèj tirà cola s-cioptà.
An cabalisand sossì im rendo cont che ’l
mas-cc, mostrand-me soe piume scure, squasi coma s’a portèissa ʼl deul, a l’é
posasse sël garas davzin a soa compagna për feje n’ùltima gnògna prima ’d
bandonela a sò marì destin. A mi tut lòn ch’am resta da fé a l’é d’antampé la fumela
për vanseje la schergna d’esse mangià dai gat o pes ʼncora ʼd marsé ambelelì al
ruvin dël sol. Un buf ëd vent a fà bogè le piume sla schin-a dla colomba bianca
e maron dasend-me l’impression ch’a peussa esse ʼncora viva e già mach l’idèja
ʼd dovèj-je dé ʼl colp ëd grassia për eviteje la soferensa ʼd na longa agonìa
am mortìfica ʼncora ʼd pì. Ampontajo donca lë scalòt a la grondan-a për pijé
col còrp e deje na sipoltura dignitosa, ma quand ch’i slongo la man për ambranchela
im ancorzo che cola creatura a l’é tut àutr che sensa vita, ël balin a l’ha
mach sgrafignaje un pòch n’ala e chila, për istint, a l’ha fàit finta d’esse
mòrta.
Dré da mia schin-a n’ombra a së slonga sël
cuvercc dël garas compagnà da l’armor giumai famijar d’ale ʼd colomb. Për la
sconda vòlta ël mas-cc a ven a posesse dnans a mi, però sò sguard a l’é pì nen
nech, am varda coma s’a vorèissa ciameme scusa për avèjme cojonà fasend-me
vardé da n’àutra part mentre che soa compagna as arpijava.
A sarà magara për via dl’età ch’a l’ha fame
vnì ʼl cheur ʼd bur o për la la sodisfassion ëd nen dovèjme artiré con ël
rimòrs d’avèj massà na creatura nossenta, ma ʼnt ësto moment im sento l’òm pì
content dël mond.
Miraco ʼl fàit d’esse un tirador da pòch, combin
ch’a l’abia fame travonde tanti con amèr al baracon dël tirassegn, sta vira a
l’é arvelasse un boneur ch’am fà sente an pas con ël mond mentre ch’i vardo mia
cobia ’d colomb ch’a vòla via.
I j’era fame cont che coj doi osej a
vorèisso saluteme n’ùltima vòlta quand ch’a l’han cambià diression për passeme
sla testa nompà soa intension a l’era n’àutra… e lor a l’han pa sbalià la mira…
Una buona mira
Ogni volta in cui vado a prendere la macchina
posteggiata sotto alla tettoia me la trovo tutta macchiettata dai colombi che
di notte vanno a dormire sulle travi e che, dopo aver mangiato abbondantemente,
si liberano l’intestino senza sbagliare un colpo. Questa è una faccenda che va
avanti da diversi anni e che ora occorre risolvere in qualche maniera decisa
perché tutto quel che abbiamo provato fino a questo momento non è andato a buon
fine. Quando era un ragazzino la soluzione sarebbe stata una sola e quelle
bestioline, accompagnate da una bella fetta di polenta, avrebbero riempito la
pancia dei miei vecchi, ma oggigiorno che siamo diventati tutti animalisti o
vegetariani si sono moltiplicati a tal punto da diventare un serio problema per
paesi e città. Ogni volta che la campana della parrocchia segna le ore dai suoi
tetti si leva uno stormo di colombi talmente grande da oscurare il sole e che,
forse per lo spavento, benedice alla solita maniera tutto ciò su cui passa. Io
per primo non vorrei mai far del male a quelle creature, ne ho catturate quattro
o cinque con delle trappole artigianali, ma loro, come se sapessero che non gli
sarebbe accaduto nulla di brutto, sono state chiuse in gabbia quelle due o tre
ore senza preoccuparsi e quando le ho liberate non si sono nemmeno allontanate
sistemandosi sul bordo della grondaia pronte a scenderei nuovamente nel
cortile. Su consiglio di un veterinario ho posizionato un paio di sagome di
animali feroci, un allocco e una poiana che avrebbero dovuto spaventare ogni
tipo di uccello, con il solo risultato che le rondini sono andate a fare il
nido altrove mentre i colombi, dopo aver compreso che le sagome erano di gomma,
ne sono diventati amici fraterni. Sebbene questi inquilini sporcano tutto non
bisogna commettere l’errore di pensare che siano creature poco pulite, anzi,
ogni mattina, appena si alza il sole, vanno a farsi un bagno nella fontana di
casa nostra che per l’occasione fa da basca da bagno, doccia e se serve anche
da gabinetto. Camuso, il mio cane da guardia, si è anche lui dato pace dal
momento che, essendo troppo vecchio, non ha più voglia di correre per scacciare
i colombi, tanto non serve a nulla poiché se ne mandi via uno ne arrivano
subito altri tre ad occupare il suo posto. Un poco di sollievo, a voler dire
tutta la verità, lo abbiamo avuto posizionando un aggeggio moderno comprato in
internet il quale, con strumenti che non sono in grado di spiegare come
funzionino, rileva il passaggio dei colombi quando essi scendono per andarsi a
lavare e grazie ad un registratore, che l’elettricista mi ha piazzato sulla
finestra della cantina, lancia il grido di un falchetto spaventando quelle
bestiacce. La soluzione, molto semplice per evitare tutto ciò e farmi capire di
aver sprecato i miei soldi, è stata trovata da quegli uccellacci nel giro di
una settimana, forse meno: ogni mattina anziché volare direttamente sul bordo
della fontana loro scendono in mezzo al cortile e poi vanno a farsi il bagno
camminando a piedi senza far intervenire quei sensori che ho pagato cari e
salati.
Come si può capire la faccenda è diventata
insopportabile e per giunta il cane è stato infettato da un tipo di zecca,
portato proprio dai colombi, che potrebbe anche essere dannoso per le persone.
Per questo motivo, anche se a malincuore ho deciso di liberarmi di quelle
bestie servendomi della carabina ereditata dai miei avi: una vecchia “Diana 25”
che papà chiamava “Flobert” e che è quasi pericolosa quanto una pistola
ad acqua poiché tira storto e ha meno potenza di una fionda. Comunque dopo aver
trovato una decina di pallini adatti e fatti tre o quattro tiri di prova, senza
mai centrare il bersaglio, oggi, essendo una giornata libera dal lavoro, mi
sono posizionato in agguato dietro alle persiane della camera da letto con
l’intenzione, se non proprio di ucciderli, almeno di spaventare i colombi in
modo da fargli cambiare residenza per un po’ di tempo. Questa cosa non saprei
proprio spiegarla comunque, come se conoscessero le mie intenzioni, questa
mattina i colombi sembrano in sciopero; ero quasi certo di dover aspettare non
più di dieci minuti per averne uno a tiro invece se ne stanno tutti appollaiati
sul tetto della vecchia stalla a tubare per conto loro. Sembrano essere stati
avvisati che io sono qua dietro pronto a far loro del male.
Dal campanile della parrocchia si alza uno
stormo composto da una trentina di elementi che passano sopra alla mia testa
diretti verso gli alberi del castello, uno dei pochi luoghi in cui gazze e
corvi non si sono ancora fatti allontanare dai nuovi padroni del cielo
nostrano. Il gracchiare dei vecchi inquilini ancora una volta è sufficiente per
spaventare i piccioni che cambiano rotta ritornando verso la chiesa, qualcuno
di loro però si unisce a quelli che sono fermi sui miei tetti, pronti a
scendermi nell’orto per beccare i nuovi germogli che stanno spuntando dal
terreno.
Io non sono mai stato uno di quei tiratori
provetti capaci di colpire le monete al volo anzi, a dire il vero, quando
arrivava il tirassegno nel mio paese il più delle volte facevo talmente tanta
pena alla padrona dell’attrazione che dopo una ventina di colpi era lei stessa
a dirmi di non sprecare più i miei soldi in quel modo. Per questo motivo devo
avere pazienza e aspettare che le mie prede mi vengano bene a tiro, magari
scendendo un paio di metri dal colmo e dandomi anche la certezza che il pallino
non possa scavalcare i tetti e andare a far danni nelle case dei vicini.
L’attesa diventa subito pesante, fare il
cacciatore non è il mio lavoro me ne manca la pazienza, tuttavia quando mi sono
quasi deciso a lasciar perdere il mio proposito, una coppia di colombi scende
sulla grondaia per dissetarsi con la poca acqua stagnante che non è ancora
evaporata. È l’occasione che aspettavo… nella mia testa qualcosa cambia e d’un
tratto mi trasformo in una persona che non conoscevo: un assassino assetato di
sangue. Le mie mani tirano forte verso il basso la canna del fucile per caricare
la molla della carabina, il pallino l’ho già infilato prima quindi devo solo
far scattare il meccanismo che riporta la canna in posizione per sparare. I
movimenti si fanno lesti, ma delicati per non far alcun rumore e spaventare le
mie vittime. Dolcemente mi appogio allo
spigolo della finestra in modo da non tremare mentre prendo la mira. I colombi
non stanno fermi e il tiro diventa difficile, ma non è quella la mia
preoccupazione, in questo momento si tratta di trovare l’attimo giusto, quella
frazione di secondo in cui il mirino e la tacca di mira si trovano allineati
nella direzione precisa di una di quelle bestie. Il tempo pare avanzare più
piano, perfino il mio respiro sembra rallentato a dispetto del cuore che invece
batte all’ impazzata come se avessi fatto le scale di corsa. Il colpo parte
quasi in silenzio dato che la “Diana 25” ha poca potenza, ma con grande stupore
va a segno; forse per la prima volta in vita mia sono stato capace di far
centro. Uno dei due uccelli, la femmina,
perde qualche piuma che sta ancora scendendo nel cortile quando lei, con un
piccolo disperato volo rovina sul tetto del garage. Come un tiratore assetato
di vendetta ricarico la carabina, pronto per sparare anche al maschio; adesso
non devo preoccuparmi di non far rumore, si tratta solo di essere veloce prima
che, rendendosi conto del pericolo il colombo voli via come hanno già fatto i
suoi amici che riposavano sul colmo. Tutti gli scrupoli che mi hanno sempre
bloccato nei mesi addietro impedendomi di far del male a quelle creature sono
ora svaniti e io, come se fossi sotto l’effetto di una qualche droga, sono
nuovamente pronto ad uccidere, ma… quando sto per tirare il grilletto, anziché
scappare, il maschio viene a posarsi sul mancorrente del balcone a poco più di
un metro dalla mia postazione. Sarebbe impossibile sbagliare il colpo da una
distanza così corta, l’uccello è qui davanti a me che mi offre il petto come se
fosse il bersaglio di quel tirassegno che non sono mai stato capace di centrare
nella mia giovinezza e mi guarda dritto negli occhi sfidando, o forse cercando
anch’egli, la medesima morte che gli ha portato via la sua compagna.
Gli uccelli non hanno uno sguardo
espressivo, tuttavia, adesso che io e quella bestiola ci guardiamo diritti
negli occhi, è come se potessi leggere tutta la sua disperazione, quel maschio
pare volermi dire:
«Su,
fammi vedere quanto sei bravo, uccidi anche me, tanto la mia vita me l’hai già
porta via col il primo colpo».
Non mi ero mai vergognato tanto quanto in
questo momento, quei due animali, nella mia testa, sono diventati persone e mi
rendo conto del delitto che ho commesso. Immagino ciò che prova quel colombo
che ha visto uccidere la sua compagna e d’un tratto la vecchia carabina mi pesa
tara le mani come se fosse di piombo. Ta me e me faccio la promessa che mai più
farò una cosa del genere, ma tanto le mie buone intenzioni non serviranno a
liberarmi dal magone che mi ha assalito dopo quella schioppettata.
Pensando a tutto questo mi rendo conto che
il maschio, mostrandomi le sue piume scure, quasi come se fosse a lutto, si è
posato vicino alla compagna per farle un’ultima coccola prima di abbandonarla
al suo destino. Tutto quel che mi resta da fare è sotterrare la femmina per
risparmiarle l’offesa di essere divorata dai gatti o peggio ancora di marcire
lì sotto i raggi del sole. Un soffio di vento fa muovere le piume sulla schiena
della colomba bianca e marrone dandomi l’impressione che possa essere ancora
viva e già solo l’idea di doverle assestare il colpo di grazia per evitarle una
lunga agonia mi mortifica ancora di più. Appoggio la scala alla grondaia per
prendere il corpo e dargli una sepoltura dignitosa, ma quando allungo la mano
per afferrarla mi accorgo che quella creatura è tutt’altro che senza vita, il
pallino le ha solo graffiato un po’ un’ala lei, istintivamente, si è finta
morta. Dietro di me un’ombra si allunga sul tetto del garage accompagnata dal
rumore ormai familiare di ali di piccone. Per la seconda volta il maschio viene
a posarsi davanti a me, però il suo sguardo non è più triste, mi guarda come
per scusarsi di avermi imbrogliato facendomi guardare da un’altra parte mentre
la compagna si riprendeva.
Sarà magari per via dell’età che mi ha
intenerito il cuore o per la soddisfazione di non dovermi ritirare con il
rimorso di aver ucciso una creatura innocente, ma in questo momento mi sento
l’uomo più felice del mondo.
Forse il fatto di essere un pessimo
tiratore, pur avendomi fatto ingoiare tanti bocconi amari al tirassegno, questa
volta si è rivelato una fortuna che mi fa sentire in pace con il mondo mentre
guardo la mia coppia di colombi che vola via.
P.S.
Credevo
che quei due uccelli volessero salutarmi ancora un’ultima volta cambiando
direzione per passarmi sulla testa invece avevano un’altra intenzione… e loro
non hanno sbagliato mira…
Mia prima vira al Cotolengo, di Luigi Lorenzo Vaira, Sommariva del Bosco (Cuneo)
Mia prima vira al Cotolengo.
La pì granda part ëd jë spos giovo,
quand ch’a van a sté për sò cont, a ven-o pijà sota la tua ëd quàich avzin, già
amanà ʼnt ël menagi, che con ij sò consèj, tante vire a riess a gaveje da ʼnt j’ambreuj.
Coma ch’a disìa mia mare: «A l’é na roa ch’a vira» e chila bin da soens am
contava j’aventure dròle ch’a j’ero capitaje pen-a marià, quand ch’a savìa nen
da che part viresse nì a fé da mangé e meno ʼncora a goerné la ca. Për boneur
mama a l’avìa Giuspin e Gioanin-a, doi avzin ëd ca considerà ansian combin ch’a
fusso pì giovo ʼd coma ch’i son mi adess e che, magara an sopatand la testa, a
mancavo mai ’d deje na man për arsòlve ij tanti ʼntrap ʼd minca di.
Pròpi për nen dëscontradì mama i deuv
conté che ʼdcò mi e mia fomna i l’oma avù ʼl boneur d’esse stàit giutà da na
cobia d’àngej goernant ch’a vivìo ʼnt l’alògg da fianch a col andoa ch’i soma
ʼndàit a sté sùbit apress dël mariagi. Ij nòstr Giuspin e Gioanin-a a së
s-ciamavo Cichin e Teresa e già dal prim di a j’ero arvelasse n’arzòrsa
pressiosa për nojàutri spos ch’i conossìo gnun-e ʼd cole règole, scrite e nen
ëscrite, ch’a përmëtto ʼd vive an manera tranquila ʼnt un condomini con na
vinten-a d’inquilin.
Teresa a l’era presentasse, con na
fogassa ʼd bin ëvnù pen-a tirà fòra dal forn, compagnà da sò òm ch’a tnisìa an
man na bota ëd vin bianch goernà da doi agn ant lë scur ëd la vardaròba e
dëstopà pròpi për cola ʼmportanta ocasion. Da col di l’amicissia con j’avzin ëd
ca a l’era chërsùa motobin e prest i l’avìo ancaminà a considereje squasi ʼd
famija, pròpi coma ʼd parent ëstrèit, tanto da ven-e a conòsse, pòch për vòlta,
tuti ij particolar ëd soa frapanta vita. Teresa a l’era sèmper sagrinasse ʼd
mandé anans la ca e dë steje apress a n’òm che ʼn soa giovnëssa a l’era nen
fasse manché quàich distrassion, coma che chiel a ciamava le tròpe madamin che
an soa cariera da galinàire a l’avìa podù frequenté con na certa insistensa.
Cichin a l’era stàit un grand travajeur, prima ’nt le cite bòite ʼd sò pais,
apress a la Fiat repart “Grand Motor” e për tanti agn, sèmper a servissi dla
midema asienda, trasferì ʼnt ij vàire stabiliment piassà an Àfrica, specialment
ant lë stat ëd la Tanzanìa. Am ven da fé un soris pensand a quand che col monsù
am contava quàich episòdi ʼd soa permanensa an tèra d’Àfrica e al fàit che minca
vira a-j mancava mai l’arzigh ëd ciapesse un patin ant la schin-a da part ëd
Teresa përchè chila, bele da veja, a l’era ʼncor sèmper gelosa marsa fin-a
dj’arcòrd ëd sò òm.
La nostalgìa ʼd nòstr Piemont e ʼl
desideri ʼd vive soa veciaja davzin ai parent a j’ero stàite le mòle ch’a
l’avìo possaje a fé artorn ant ël “Bel Pais” catand-se cole quatr muraje dël
condominio “Le biole”.
Për tuti ij sinch agn ëd nòstra
permanensa an col palass Cichin e Teresa a son ëstàit doe figure amportante për
mi e mia fomna, peui la vita a la dividù nòstre stra ma, combin che rangiand la
ca dij mè vej i fusso ʼndait a sté ʼnt n’àutr pais, i l’oma seguità a sentije
da soens fasendje vìsita quand che ël travaj an lo përmëttìa e sercand dë steje
visin quand ch’a n’avìo dabzògn da già che soe masnà, giumai grande, a stasìo un-a
ʼnt l’Amèrica e l’àutra, ël fieul, ambelessì an Italia, ma motobin an fòra da
pare e mare. I l’oma vivù con lor la tragedia ʼd Cichin, quand che për na maladìa
stran-a a l’ha perdù la vista da n’euj e ij sagrin ëd Teresa che apress d’esse
drocà da le scale a l’era s-ciapasse na gamba e na spala, ma ch’as angagiava ancora
për feje da mangé a sò òm përchè, a soa idèja, a sarià mai solament ëstàit bon
a fesse scaudé na mnestrin-a.
Con l’arton ëd la fija da l’Amèrica e con
ël fieul ch’a l’era stabilisse ’nt l’istess pais për cudì la mama an mentre ʼd
soa convalessensa, nòstre vìsite a j’ero peui rairisse motobin për nen dé gena
a cola famija ʼndoa che ij parent pì strèit ʼd Cichin e Teresa a smijavo patì
na frisa nòstra presensa. Ant ij prim temp i ʼndasìo a troveje minca doe
sman-e, apress na vòlta al mèis e peui, con l’ariv ëd la pandemìa ch’a l’ha
sarane tuti ’nt ëcà, i soma sentisse mach pì al telefono.
Sèmper për telefono i j’era vnùit a
savèj daTeresa che a sò òm la maladìa a l’avìaʼdcò tacaje l’euj san e che
giumai a sarìa pì nen ëstàit bon a marcé për sò cont. Dovèj dipende da l’agiut ëd
na goernanta a l’era stàit lòn che a l’avìa campà col òm ant la depression pì
nèira, tanto da gaveje fin-a la veuja ʼd parleme al telefono, ansi a patìa
fin-a che soa fomna am lo contèissa donca, për ësto motiv, i soma amparolasse
ch’a l’avrìa ciamame chila quand e coma ch’a fussa stàit possìbil.
A distansa ʼd quasi n’ann i l’heu pì nen
avù gnun-e neuve; ses mes andarera i j’era pro ʼndàit a troveje ëd person-a, ma
j’avzin a l’aviò dime che ʼl fieul a l’avìa fàit San Martin portand-se mare e
pare a ca soa për cudije mej, gnun però a l’era stàit bon a deme l’adressa. Nì
Cichin nì Teresa a j’ero mai costumasse a dovré ij teléfoni sacociabij e për
col motiv i l’heu pì nen savù gnente ʼd lor fin-a a sta matin quand’ch’i l’heu ʼncontrà
un sò cusin al mercà e da chiel i l’heu avù la neuva pì bruta: Teresa a l’é ʼndass-ne
già da tre mèis e sò òm, a càusa ʼd n’incident domèstich, a l’é s-ciapasse ʼl
fil ëd la schin-a restand paralisà.
A l’é pro ver che ʼd tut sossì mi i son
nen responsàbil an gnun-e manere, tutun i peuss nen fé a meno ëd sentime na
frisa ʼn colpa për nen esse stàit present an coj moment tanto dlicà.
Cichin a l’é ricoverà ant na ca d’arpòs
ch’a pòrta ël nom dël Beat Cotolengo andoa che j’infermé, specialisà ʼnt ël
cudì person-e an cole condission, a serco ʼd deje tuta l’assistensa ch’as peul,
ma forsi lòn che a col òm a manca pì che tut a l’é la possibilità ʼd fé doe
paròle con na vos amisa. Almeno sossì im sento an dover ëd garantijlo e për
cost motiv, già sùbit ancheuj dòp-mesdì, i veuj andé a trovelo.
Na telefonada al centralin dël Cotolengo
a l’é bastà për avèj conferma che Cichin a peul arsèive ʼd vìsite e për capì a
che ora ch’i peul andé sensa dé ʼd dëstòrb.
Quatr e mesa ʼd sèira, i soma squasi a
metà dë dzèmber e le giornà a son fasse curte, ancheuj ël cel a l’é carià ʼd
nìvole bianche ch’a marco la fiòca dasend n’atmosfera natalissia al paisage. Le
luminarie ant la stra a son pen-a ʼnviscasse fasend companìa a le cite lus tacà
al cancel ʼd la ca d’arpòs. A dovrìa esse un moment ëd gòj nompà ancamin ch’i
sgnaco ʼl ciochin për nunsieme am ciapa un magon tanto fòrt da manch feme
seurte la vos. La monia ch’a fà da portiera am vëdd da soa vardiòla e a capiss
sùbit che a l’é mia prima vòlta an col leu:
«Ch’a ven-a monsù, a veul dime chi ch’a
l’ha piasì d’andè a trové?».
«Cichin – i-j diso mi –
l’òm ëd Teresa… a marcia pì nen e a l’é ʼdcò borgno…
pòvr òm».
«Sì i l’heu capì ʼd chi ch’a parla. Ch’a
firma ambelessì… Prim pian stansia nùmer quatr… ch’as buta la mostacin-a e im
arcomando ch’a varda ’d nen dé ʼd dëstòrb a j’àutri ricoverà».
Va a savèj se për col travaj a siò
stàite sercà le monie pì dëspiasente, cole già bastansa antipàtiche ʼd natura,
o s’a sia con ʼl temp ch’a ven-o tanto mal grassiose. Comsëssia i l’heu savù
lòn ch’am anteressava e am resta mach da trové col amis che da tròp temp i
l’heu pì nen frequentà.
L’andor dë sto pòst a l’é tut polid e ordinà,
con piante e fior ʼd plàstica ch’a fan soa bela figura sota a la lus tramolanta
dij nèon. Ël përfum dël disinfetant dovrà për lavé ij paviment a dà col toch
ch’a mancava për rende l’ambient motobin pì sìmil un ʼd coj basar modèrn gestì
dai Cinèis che nen a n’ospissi. Al piantèra a-i é gnun armor se nen col dij mè
pé che a minca pass a fan ësquisi la sòla dle scarpe ’n sla goma vërda dël
paviment peui, drè da la pòrta dle scale, as ancamin-o a sente le vos ràuce dij
vej ch’a son ricoverà; as trata nen ëd paròle ma ʼd lament giumai mach pì
bësbijà chi sà da vàire temp. Ancamin chi monto jë scalin i deuv fé finta ʼd
nen scoté cole vos për pa sentime an colpa dë stè bin e ʼd podèj andemne via
con mie gambe quand ch’am farà còmod. Dodes ëscalin minca rampa, doe dosen-e ʼd
pass ch’a smijo mila tant a-i va ʼd temp për feje. Da la cusin-a, passand për
la tromba dle scale a ven su l’odor dël bròd ʼd galin-a che an costi pòst a
manca mai e im ciamo se ʼdcò a mè amis cola galuparìa a-j fasa strì coma ch’a
l’ha sèmper famlo a mi.
Ël prim pian a l’ha n’andor largh con na
sislonga e dontré cadreghe virà vers na television che gnun a varda combin ch’a
sia tacà tut ël di, fissa sël canal ch’a trasmëtt ël rosari da quàich santuari dedicà
a la Madòna. Ij vej ch’a peusso përmett-se d’aussesse dal let a ven-o portà dai
servent a pijé n’ora d’aria fòra da soa stansia e a fé doe paròle an tra ʼd lor.
Quaidun ch’a riess ʼncora a marcé giutand-se con n’angign d’aluminio fàit coma
un ghërmo, a cor (as fà për dì) a pijé pòst sla sislonga andoa ch’a peul ëspeté
ij parent an vìsita.
Le ses ëstansie dël prim pian a l’han
tute le pòrte sbajà e am dan la possibiltà d’intré e dé në sguard un-a a
pr’un-a për vëddé s’i son bon a trové mè amis da mi sol o s’a fà dabzògn ch’i
ciama un servent. Nen da fé, Cichin a smija nen esse ʼnt ësto pian, magara la
monia a l’é confondusse, ma s’a l’é përparèj am toca viré coma na sòtola për
trovelo; mej ciameje agiut a quaidun. N’infermera strangera, ch’a parla italian
mach a soa manera, am dis ch’i son al pian giust e con ël dil am fà segn d’ntré
ʼnt la stansia nùmer quatr. Chila-sì a më smija nen tuta a pòst da già ch’i son
pen-a surtì da cola pòrta tutun, sicoma ch’a continua a vardeme, i preuvo torna
a dé në sguard, magara na frisa mej. La nùmer quatr a l’é na stansia con doi
let: ant ël prim, col pì visin a la pòrta, a deurm un monsù grand e gròss ch’a
peul nen esse mè amis, ma l’òm cogià lì dacant i l’avìa già vardalo prima sensa
capì che as tratava pròpi di Cichin. Ant le scur ëd cola stansia i l’avìa nen
lesù ʼl nòm tacà al taulin da neuit e chiel, giumai màire për la maladìa e
borenfi a càusa dle meisin-e, as conòss pì nen.
Na carëssa fàita con un pòch ëd gena,
për pàu dë sbaruvelo, a lo gava da la la mesa-seugn e chiel d’istint am fà la
domanda:
«Vàire ore a son?».
«Ciàu Cichin… a son ësquasi sinch ore».
«Ëd matin o ʼd sèira?».
Dòp ëd cole pòche paròle i son rendume
cont che col pòvr òm a sà pì nen anté ch’a viv e che ʼnt lë scur ëd sò esse
borgno, për chiel, tute j’ore dël di e dla neuit a son istesse. Riesse a fé na
conversassion a l’é squasi impossìbil, Cichin a tribula a parlé e forsi a n’ha
manch vàire veuja. I pijo na cadrega për seteme visin al let e i parlo mi për
tuti doi arcordant cole stòrie capità an Tanzanìa ch’i l’heu scotà mila vòlte
da la boca ʼd mè avzin ant j’agn ch’i stasìo ʼnt ël midem palass. An slë sguard
dëstiss ëd col pòvròm as dissegna in cit soris, segn che finalment a l’ha
arconossume e adess a smija vorèjme parlé:
I capisso nen, col che an mia testa a
smija un lament forsi a l’é na preghiera a soa mare e s’a l’é parèj am fà
ʼncora pì sgiaj përchè vàire vòlte i l’heu sentì conté che ij moribond a ciamo
soa mama quand ch’a s trata ʼd rende l’ànima. Cichin però a dà nen l’impression
d’esse malandàit a sta mira e donca im avzin-o për sente mej, chiel a më strenz
la man e con në sfòrs, për feme capì, am dis tre paròle bastansa ciàire:
I l’heu nen ël corage ʼd ciameje
d’arpete cola frase che për mi a l’é stàita na vera cotlà. Con tenerëssa i
ambrasso mè amis sercand ʼd nen feje mal… la sola ròba ch’i peul ancora fé për
chiel.
La mia prima volta al cottolengo.
La maggior parte dei giovani sposi
quando va a vivere per conto proprio viene presa sotto la tutela di qualche
vicino, già pratico del “ménage” familiare, che con i suoi consigli,
molte volte riesce a levala dagli impicci. Come diceva mia madre: «È una ruota
che gira» e lei spesso mi raccontava le curiose avventure accadutele appena
sposata, quando non sapeva cucinare e meno ancora meno governare la casa. Per
fortuna mamma aveva Giuseppe e Giovanna, due vicini
di casa considerati già anziani seppur fossero più giovani di quanto sia io
adesso, i quali, magari scuotendo la testa, non mancavano mai di aiutarla per
risolvere i tanti problemi quotidiani.
Proprio per non contraddire mia madre
devo ammettere che anche io e mia moglie abbiamo avuto la fortuna di essere
aiutati da una coppia di angeli custodi che vivevano in un appartamento
confinante con quello in cui ci siamo stabilito subito dopo il matrimonio. I
nostri Giuseppe e Giovanna si chiamavano Francesco e Teresa e già dal primo
giorno si rivelarono come una preziosa risorsa per noi sposi che non
conoscevano alcuna di quelle regole, scritte e non scritte, che consentono di
convivere in maniera tranquilla in un condominio abitato da una ventina di
inquilini.
Teresa si era presentata, con una torta
di benvenuto appena sfornata, accompagnata dal marito che teneva in mano una
bottiglia di vino bianco conservata da anni nel buio dell’armadio e stappata
appositamente per quella importante occasione. Da quel giorno l’amicizia con i
vicini di casa crebbe a tal punto che ben presto incominciammo a considerarli
di famiglia, proprio come fosse dei parenti stretti, tanto da venire a
conoscere, poco per volta, tutti i particolari della loro stupefacente vita.
Teresa si era sempre occupata di accudire la casa e tener testa ad un uomo che
non si era privato di qualche “distrazione” come egli stesso definiva le troppe
signorine che nella sua carriera da Casanova aveva avuto modo di frequentare.
Francesco era stato un grande lavoratore, prima impiegato in piccole officine del
suo paese, successivamente alla Fiat reparto “Grandi Motori” e per tanti anni,
sempre in servizio presso la medesima azienda, trasferito nei vari stabilimenti
sorti in Africa, specialmente nello stato della Tanzania. Mi viene da sorridere
pensando a quando quel signore raccontava qualche episodio della sua permanenza
in terra d’Africa e al fatto che ogni volta rischiava di prendersi una
ciabattata da parte di Teresa dato che lei, anche da anziana, era ancora sempre
gelosa perfino dei ricordi del marito.
La nostalgia del nostro Piemonte il
desiderio di vivere la loro vecchiaia vicino ai parenti erano state le molle
che li avevano spinti a tornare nel “Bel Paese” acquistando quelle quattro mura
del condominio “Le betulle”.
Per tutti i cinque anni della nostra
permanenza in quel palazzo Francesco e Teresa sono state due figure importanti
per me e mia moglie, poi la vita ha diviso le nostre strade, ma anche se
ristrutturando la casa dei miei vecchi abbiamo portato la nostra residenza in
un altro paese i rapporti con loro non sono cambiati continuando a far loro
visita ogni volta che il lavoro ce lo permetteva e cercando di restituirgli le
cortesie ricevute dato che i loro figli, ormai adulti abitavano una in America
e l’altro in Italia, ma molto distante da padre e madre. Abbiamo vissuto con
loro la tragedia di Francesco quando per una strana e rara malattia ha perso la
vista da un occhio e condiviso le preoccupazioni di Teresa che a seguito di una
caduta dalle scale si era rotta una gamba e una spalla, ma che caparbiamente
continuava a voler cucinare per il marito incapace, a suo dire, di prepararsi
nemmeno una minestrina.
Con il rientro della figlia dall’America
e con il figlio che si era poi stabilito nel medesimo palazzo dei genitori per
poter accudire la madre durante la lunga convalescenza, le nostre visite si
diradarono per non infastidire quella famiglia nella quale i parenti più
stretti di Teresa e Francesco parevano essere un po’ infastiditi dalla nostra
presenza. Nei primi tempi andavamo a trovali ogni due settimane, poi una volta
al mese e poi, con l’arrivo della pandemia che ci ha rinchiusi tutti in casa ci
siamo sentiti solo più per telefono.
Sempre per telefono ero venuto a sapere
da Teresa che la malattia del marito gli aveva danneggiato anche l’atro occhio
e che non era più in gradi di camminare per conto proprio. Dover dipendere
dall’aiuto di una badante era stato ciò che aveva gettato quell’uomo nella più
nera depressione, tanto da privarlo perfino del desiderio di sentirmi al
telefono, anzi era dispiaciuto che sua moglie me ne parlasse dunque, per questo
motivo, ci siamo accordati affinché fosse lei a chiamarmi come e quando lo
avesse ritenuto possibile.
A distanza di quasi un anno non ho avuto
più alcuna notizia, sei mesi addietro ero sì andato a trovarli di persona, ma i
vicini di casa mi avevano informato del fatto che il figlio aveva traslocato
portando con sé i genitori per accudirli meglio, nessuno però aveva saputo
indicarmene l’indirizzo. Né Francesco né Teresa avevano mai imparato a usare un
telefono cellulare quindi per quel motivo non ho più avuto loro notizie fino a
questa mattina quando al mercato ho incontrato un loro cugino e da lui ho
appreso la più brutta notizia: Teresa se n’era andata già da tre mesi e il
marito a causa di un incidente domestico si era rotto la spina dorsale restando
completamente paralizzato.
È vero che di tutto ciò non sono
responsabile, tuttavia non posso fare a meno di sentirmi un poco in colpa per
non essere stato presente in un momento tanto delicato. Francesco è ricoverato
in una casa di riposo che porta il nome del Beato Cottolengo nella quale gli
infermieri, specializzati nell’accudire persone che si trovano nella sua
condizione, tentano di dargli tutta l’assistenza possibile, ma forse ciò di cui
quell’uomo ha più bisogno è la possibilità di conversare un poco con una voce
amica. Almeno questo mi sento in dovere di garantirglielo e per questo motivo,
già oggi pomeriggio voglio andare a trovarlo.
Una telefonata al centralino della casa
di riposo è bastata per avere conferma che Francesco può ricevere visite e per
capire a che ora posso andare senza arrecare disturbo.
Ore sedici, siamo quasi a metà dicembre
e le giornate si sono accorciate molto, oggi il cielo è carico di nuvole
bianche che preannunciano neve dando un’atmosfera natalizia al paesaggio. Le
luminarie nella strada si sono appena accese facendo compagnia a piccole luci
appese al cancello della casa di riposo. Dovrebbe essere un momento di gioia
invece mentre pigio il campanello per annunciarmi vengo assalito da una sorta
di magone che mi impedisce di parlare. La suora che fa da portinaia mi osserva
dalla sua guardiola intuendo che è la mia prima volta in quel luogo:
«Venga pure avanti, vuole dirmi chi ha
piacere di andare a trovare?»
«Francesco– le dico io – il marito di
Teresa… non cammina più ed è anche cieco… poveruomo».
«Si ho capito di chi parla. Firmi qua…
primo piano stanza numero quattro… si metta la mascherina e mi raccomando
faccia in modo di non disturbare gli altri ricoverati».
Chissà se per quel lavoro sono state
individuate le suore più scorbutiche, quelle già antipatiche di natura, o se
magari diventino cosi con il passare del tempo. Ad ogni modo ho saputo quel mi
interessava e non mi resta che trovare quell’amico che da troppo tempo non ho
più frequentato.
Il corridoio di questo posto è tutto
pulito e ordinato, con piante e fiori di plastica che fanno la loro bella
figura sotto la tremante luce dei neon. Il profumo dei disinfettanti usati per
lavare i pavimenti da quel tocco che mancava per rendere l’ambiente più simile
ai quei bazar moderni gestiti dai Cinesi piuttosto che a un ospizio. Al
pianterreno non c’è alcun rumore se non quello dei miei piedi che ad ogni passo
fanno stridere la suola delle scarpe sulla gomma verde del pavimento poi,
dietro alla porta delle scale si iniziano a sentire le voci rauche dei vecchi
che sono ricoverati; non si tratta di parole ma di lamenti ormai solo più
bisbigliati chissà da quanto tempo. Salendo gli scalini devo far finta di non
ascoltare quelle voci per non sentirmi in colpa di star bene e di potermi
allontanare con le mie gambe quando lo riterrò opportuno. Dodici scalini ogni
rampa, due dozzine di passi che sembrano mille talmente tanto tempo mi ci vuole
per salire. Dalla cucina, passando per la tromba delle scale viene su l’odore
del brodo di gallina che in questi posti non manca mai e mi chiedo se anche al
mio amico quella squisitezza faccia schifo come l’ha sempre fatto a me.
Il primo piano ha un largo corridoio con
un divano e alcune sedie rivolte verso un televisore che nessuno guarda sebbene
sia acceso e sintonizzato, tutto il giorno, su di un canale che tramette il
rosario da qualche santuario dedicato alla Madonna. I vecchi che possono
permettersi di alzarsi dal letto vengono portati dai parenti a prendere un ora
d’aria fuori dalle loro camere e far due chiacchiere tra loro. Qualcuno è
ancora in grado di camminare aiutandosi con il girello e corre (si fa per dire)
a prendere posto sul divano dove può attendere la visita dei parenti. Le sei stanze
del primo piano hanno tutte le poste socchiuse e mi permettono di entrare a
dare un’occhiata, una per una per controllare se sono in grado di trovare da
solo il mio amico o se devo chiedere aiuto ad un inserviente. Nulla da fare
Francesco sembra che non sia in questo piano, magari la suora si è confusa, ma
se è così mi toccherà girare come una trottola per rintracciarlo; meglio
domandare a qualcuno. Un’infermiera straniera, che parla un italiano stentato,
mi conferma che sono al piano esatto e con il dito mi indica di entrare là
nella camera numero quattro. Costei mi pare un po’ matta dato che sono appena
uscito da quella porta, tuttavia, siccome continua a guardarmi, provo
nuovamente a dare uno sguardo, magari più attento. La numero quattro è una
stanza con due letti: nel primo, quello più vicino alla porta, dorme un
corpulento signore che non può essere il mio amico, ma l’uomo sdraiato lì
accanto lo avevo già guardato prima senza capire che si trattava proprio di
Francesco. Nel buio di quella stanza non avevo letto il nome attaccato al
comodino e lui, ormai magro per la malattia e gonfio a causa delle medicine non
si riconosce più.
Una carezza fatta timidamente, per
timore di spaventarlo, lo ridesta dal suo torpore e lui d’istinto mi fa la
domanda:
«Che ore sono?».
«Ciao Francesco… sono quasi le cinque».
«Di mattina o di sera?».
Ascoltando quelle poche parole mi sono
reso conto che quell’uomo non sa più dove vive e che nel buio della sua cecità,
per lui tutte le ore del giorno o della notte sono uguali. Riuscire a fare una
conversazione è quasi impossibile, Francesco parla a fatica e forse non ne ha
nemmeno voglia. Prendo una sedia per accomodarmi vicino al letto e parlo io per
tutti due ricordando quelle vicende accadute in Tanzania che ho ascoltato tante
volte dalla bocca del mio vicino negli anni in cui abitavamo lo stesso palazzo.
Nello sguardo spento di quel poveruomo si disegna un piccolo sorriso, segno che
finalmente mi ha riconosciuto e ora pare volermi parlare:
«Ame…Mame».
Non capisco, quello che nella mia testa
sembra un lamento forse è una preghiera rivolta a sua madre e se così è la cosa
mi fa ancora più senso perché ho più volte sentito dire che i moribondi
chiedono della madre quando stanno per rendere l’anima a Dio. Francesco però
non mi dà l’impressione di essere malandato a tal punto e dunque mi avvicino
per ascoltare meglio, lui mi stringe la mano e con uno sforzo, per farmi
capire, pronuncia tre parole abbastanza chiare:
«Uccidimi per favore».
Non ho il coraggio di fargli ripetere
quella frase che per me è stata una vera coltellata. Con tenerezza abbraccio il
mio amico cercando di non fargli male… la sola cosa che posso ancora fare per
lui.