lunedì 30 giugno 2025

Grazie La Bisalta! (e CuneoCronaca)


 

Roberto Pellegrino di Cuneo, 2025


 

Riccardo Perona e Samntha Olivier di Borgo San Dalmazzo (Cuneo)




                                                  Leggera e soave

come la rugiada

siam alle porte

della fioritura…

 

Che essa accada!

 

Riccardo Perona



 

Nicola Daddi di Genova, 2025





 

Marina Falco di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), 2025



 

La stanza di Sandra Ceccarelli, Firenze


 

Angelo Gabelli, Castellazzo Bormida (Alessandria) 2025


 

Pierluigi Fornasier, Padova 2025


 

Dal Buio alla luce, di Silvana Dal Cero e Luisa Pizzolato, Bassano del Grappa (Vicenza)



 

Antonella Lingua, Cuneo 2025




 

Barbara Serafino, Cuneo 2025



 

Alice Daddi, Genova 2025


 

Renato Piazzini, Firenze 2025





 

Paolo Ferretti, Fornacette di Pisa 2025




 

UN DUE TRE… STELLA! di WILMA AVANZATO, CHIVASSO (Torino)

UN DUE TRE… STELLA!

Era un pomeriggio assolato di inizio agosto e in paese quasi tutti se n’erano andati al mare o a cercare frescura altrove. Faceva caldo, molto caldo, e io stavo sulla soglia della mia edicola-tabaccheria perché dentro il negozio la temperatura era altissima e l’odore del piombo di stampa dei giornali prendeva alla gola.

Era da settimane che non si vedeva un temporale, la piazza era polverosa e le macchine parcheggiate sembravano coperte da un sottile velo di cipria grigia che le rendeva brutte e tristi, come abbandonate. Da lontano, il riverbero sull’asfalto ingannava gli occhi e la mente facendo credere che la strada fosse bagnata di pioggia recente.

 

La vidi sbucare dal portoncino di legno. Il vestitino di cotone, i sandaletti blu, le trecce lunghe lunghe e le ginocchia sbucciate. Mi chiesi come diavolo facesse quella bambina ad avere le ginocchia sbucciate: non usciva mai di casa se non per venire a comprare le stecche di sigarette per i suoi genitori e per tutti quelli che vivevano in quell’appartamento, proprio di fronte al mio negozio.

Era una casa vecchia, con due locali sfitti al pian terreno e un alloggio squallido al primo piano. Quattro finestre dai vetri non proprio puliti e un lungo balcone completavano l’abitazione che era rimasta anch’essa sfitta per molto tempo, perché il nostro paese offriva poco o niente, lontano dalle comodità della città.

Poi, a metà giugno, erano arrivati loro. Erano in otto: tre coppie, un ragazzo solo e quella bambina… e vivevano tutti insieme. Talvolta arrivava qualcuno di nuovo che si fermava pochi giorni e poi ripartiva con lo zaino sulle spalle.

Erano persone strane, schive e taciturne, che uscivano solo per andare a lavorare… forse. A parte la bambina, che veniva ogni giorno nella mia tabaccheria, nessuno li aveva mai visti negli altri negozi del paese… l’alimentari, il panettiere, la macelleria: probabilmente compravano le provviste in città, perché mangiare dovevano pur mangiare… Anche in chiesa non si erano mai visti e Don Giulio, che di solito andava a benedire la casa di chi arrivava nuovo in paese, si era ben guardato dall’andare da loro.

Una comune… così si diceva di quella casa: una comune dove vivevano tutti insieme, in promiscuità… Dei comunisti senza Dio…e due di loro avevano pure una bambina, magari senza neanche essere sposati…

La gente parlava e sparlava, ma nessuno poteva dire di conoscerli veramente.

 

La bambina attraversò con passo veloce la piazza, la testa bassa di chi non vuole farsi notare.

Sapevo che era diretta alla mia tabaccheria e mi scostai dalla porta per farla entrare. Mi sembrò tirare un sospiro di sollievo vedendo il negozio deserto. Non parlava con nessuno e non l’avevo mai vista giocare in piazza con gli altri bambini. Mi chiedevo se a ottobre avrebbe frequentato la scuola del nostro paese.

«Due stecche di sigarette… le solite…», disse in un soffio, srotolando le banconote che teneva in tasca e porgendomele.

Poi, preso velocemente ciò che avevo appoggiato sul banco, scappò via di corsa, senza neppure salutare.

 

La vedevo tutti i pomeriggi, sul balcone di quella casa: giocava da sola, anche se in piazza c’erano altri bambini a cui avrebbe potuto unirsi. E invece no: li osservava, magari avrebbe voluto essere lì con loro… ma probabilmente non le era permesso.  Forse i suoi genitori temevano qualcosa. Forse non doveva parlare con i suoi coetanei.

Chissà!

«Un due tre… stella!», pronunciava ad alta voce con gli occhi chiusi, girata verso il muro, per poi voltarsi di scatto a guardare compagni di gioco immaginari e, col dito indice puntato, gridare: «Tu… e anche tu… vi siete mossi… vi ho visto!».

Se c’erano bambini in piazza e la sentivano, cominciavano a prenderla in giro, ma lei continuava incurante. Una volta, uno di loro l’aveva invitata a scendere per giocare insieme, ma lei non aveva risposto: era rientrata frettolosamente in casa e per tutto il pomeriggio non l’avevo più vista sul balcone.

 

«Un due tre… stella!». Anche quel pomeriggio, sul balcone invaso dal sole accecante di agosto, la bambina si era messa a giocare. Ammiravo la sua fantasia e, allo stesso tempo, mi faceva una gran pena saperla tutta sola, su quel balcone che, guardato dalla prospettiva del mio negozio, sembrava una gabbia con dentro un animaletto irrequieto.

«Un due tre… stella!», continuava imperterrita mentre la osservavo stando sempre sulla soglia della tabaccheria… che tanto quel giorno avrei fatto meglio a chiudere, giacchè la piazza e le strade erano deserte per il caldo.

Ad un tratto vidi aprirsi il portoncino di legno sotto al balcone. Uscirono un uomo e una donna, quelli che avevo immaginato fossero i genitori della bambina.

«Mamma… papà… ciao!», li salutò infatti lei dal balcone, per poi riprendere subito il suo gioco… Un due tre… stella! Un due tre… stella!

I genitori non alzarono neppure lo sguardo verso di lei.

Li adocchiai incuriosito: non uscivano mai a metà pomeriggio, ma solo la mattina presto, all’ora in cui io aprivo il negozio. Sembrava che si sentissero osservati, seguiti, perché, mentre stavano andando a prendere l’auto, una Fiat 127 verde oliva parcheggiata lì nella piazza, si guardavano intorno come intimoriti.

 

«Un due tre… stella…» fu l’ultima cosa che sentii prima delle sirene spiegate.

Tre volanti della Polizia fecero irruzione nella piazza andando a rompere quel silenzio fatto di sole e di polvere e di caldo.

Io, d’istinto, scappai dentro il negozio ma, nonostante la paura, una curiosità prepotente mi fece rimanere fermo dietro la porta a vetri, per vedere cosa stava succedendo.

Dalle auto scesero diversi uomini, tutti col giubbotto antiproiettile e le pistole in pugno.

«Mani in alto! Polizia!».

I miei occhi andarono alla bambina sul balcone. Aveva smesso di giocare e guardava attenta cosa stava succedendo di sotto, accovacciata dietro la ringhiera, la faccia incredula. Strano, ma sembrava che accanto a lei, messi nella stessa posizione, ci fossero i suoi amici immaginari, quelli che giocavano a “un due tre… stella” e che immancabilmente si facevano sorprendere mentre si muovevano.

Quando il mio sguardo tornò alla piazza, partì il colpo di pistola verso l’uomo che aveva tentato un’inutile fuga. La donna, con le braccia alzate e un’arma puntata contro, cominciò a urlare vedendo il suo compagno a terra, inerme. La bambina sul balcone, no! Dalla sua bocca non uscì una sola sillaba. Scorsi solo i suoi occhi spaventati che sembravano voler schizzare via dal volto che era diventato mostruoso per l’orrore.

 

Il suono delle sirene delle volanti fu sostituito da quello dell’ambulanza. Non so chi l’avesse chiamata… forse qualcuno di quella casa, magari nella speranza di salvare il loro compagno…

L’uomo a terra pareva un fantoccio di pezza: le braccia scomposte, la posizione innaturale. Fu caricato su una lettiga e, dopo che il medico gli tastò il collo e scosse la testa, l’ambulanza ripartì con a bordo non un ferito ma un morto.

Poi, dopo quei momenti lunghi il tempo di una vita spezzata, la piazza fu di nuovo, soltanto, un posto assolato, pieno di polvere e di macchine coperte dal sottile velo di cipria grigia. Come non fosse successo nulla. E la bambina sul balcone era scomparsa. Il suo gioco si era interrotto, come la sua infanzia.

 

Brigatisti! Così titolarono i giornali il giorno dopo… quei giornali che io vendevo nel mio negozio.

Brigatisti, quelli della comune!  Così disse la gente.

Erano gli “anni di piombo”… con questo nome sarebbero stati consegnati alla Storia… e per questo nessuno si stupì, nemmeno del fatto che fosse successo in un paese piccolo come il nostro, estraneo ai cortei studenteschi e agli scioperi, lontano dalle grandi città e dalle occupazioni di università e fabbriche. Nessuno si stupì perché si sapeva che le Brigate Rosse ormai avevano rami ovunque.

Ma, nei giorni successivi, i racconti su quanto era successo si moltiplicarono, ricamati con sempre nuovi particolari. Dissero che le due persone arrestate avevano partecipato a numerose rapine e addirittura al sequestro di “quello degli spumanti”[1] di Canelli. Dissero che avevano piazzato bombe e ucciso persone. Dissero che anche quel giorno avevano sparato, per non farsi arrestare. Dissero che qualcuno li aveva “traditi” facendoli cadere nella trappola della Polizia.

Dissero tante cose… ma in fondo nessuno sapeva nulla di loro, e quel giorno nella piazza non c’era anima viva: solo io e la bambina sul balcone. Quell’arsura provvidenziale li aveva portati tutti al mare o li aveva chiusi in casa, davanti al ventilatore acceso… quasi a voler risparmiare loro l’incontro con un piccolo pezzo di Storia di quegli anni terribili.

 

Nessuno però parlò della bambina… La bambina che giocava sul balcone e che aveva visto tutto. Che aveva visto arrestare sua madre e morire suo padre.

La bambina che era stata costretta a vivere in un mondo di soli adulti.

La bambina che stava pagando le scelte scellerate dei suoi genitori e di una generazione che parlava di “lotta di liberazione della classe operaia” e lo faceva con le armi e con le bombe, con il sangue e con la morte.

 

Sembrava non essere mai esistita, quella bambina, anche se io continuai per giorni, mesi, anni, a sentire la sua voce squillante provenire da quel balcone ormai privo del suo gioco.

Un due tre… stella!

 

 WILMA AVANZATO, CHIVASSO (Torino)



[1]  Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato dalle Brigate Rosse il 4 giugno 1975.

Poesie in baule di Daniela Antonello, Padova

 

Poesie in baule

 

Dentro il baule della mia vita

il groviglio dei pensieri senza sapore

il barattolo delle piccole scorciatoie

le radici degli affetti senza colle

le ragnatele dei rapporti appiccicosi

le foglie dei sentimenti scricchiolanti

le cortecce dei desideri invecchiati

le scatole vuote delle parole piene

i sassi delle sofferenze appese

i colori delle offese inutili

le poesie di dolore inchiodate

sulla croce di legno

i baci negati...

 

Daniela Antonello

Padova

Nìvole' d nostalgìa di Maria Teresa Cantamessa, Ivrea (Torino)

 Nìvole' d nostalgìa

     Vos ant la neuit,lontan-e,

 forse a l' é mach ël vent

o son ij tò arcòrd

che dess a seurto fòra

e't parlo pasi e doss.

Na mostra arbat ël temp.

Con j'euj sgranà'nt lë scur

figure at torno an ment:

masche, sarvan o faje?

Nìvole'd nostalgìa

ëd tò cit mond d'antan;

ombre'd coj seugn nossent

che t'agrampe për vive

an cost ancheuj bin grev.

Peui ti të spete l'alba,

maitas d'arvëdde'l sol.

Ma'l di che tòst a nass

të s-cianca  ancor na frisa

'd col bel giardin fiorì.


Nuvole di nostalgia

Voci nella notte...lontane, /forse é solo il vento / o sono i tuoi ricordi/ che ora vengono fuori / e ti parlano pacati e dolci./ Un orologio ribatte il tempo./ un orologio scandisce il tempo./Con gli occhi spalancati nello scuro/ figure ti ritornano in mente:/streghe, folletti o fate?/Nuvole di nostalgia/ del tuo piccolo mondo lontano;/ ombre di quei sogni innocenti/ ai quali ti aggrappi per vivere / in questo oggi molto greve./ Poi aspetti l'alba,/ smanioso di rivedere il sole. / Ma il giorno che presto nasce / ti strappa ancora un poco / quel bel giardino fiorito.

Na bon-a mira - Luigi Lorenzo Vaira, Sommariva del Bosco (Cuneo)

 Na bon-a mira


Minca vira ch’i vado a pijé la vitura postegià sota a la cormà im la treuvo tuta giajolà dai colomb che ʼnt la neuit a van a gioch ansima ai trav e che, apress d’avèj mangià an manera bondosa, as dësbarasso l’intestin sensa sbalié un colp. Costa a l’é na facenda ch’a va anans da vàire ani e che adess ëbzògna risòlve an quàich manera decisa përchè tut lòn ch’i l’oma provà fin-a a sto moment a l’é nen ʼndàit a bon fin. Quand ch’i j’era gagno la solussion a sarìa stàita un-a sola e cole bestiëtte, compagnà con na bela fëtta ʼd polenta, a l’avrìo ʼmpinì la pansa dij mè grand, ma al di d’ancheuj, ch’i soma dventà tuti ambientalista o vegetarian, a son moltiplicasse fin-a a dventé un problema seri për pais e sità. Minca vira che la ciòca dla paròchia a bat j’ore dai sò cop as àussa un vòl ëd colomb tanto gròss da podèj ëscurì ël sol e che, miraco për lë sbaruv, a benediss ant la sòlita manera tut lòn ch’a-j passa sota.  Mi për prim i vorerìa mai fé dël mal a cole creature, i l’heu pro ciapane quatr o sinch con ëd trapole artigianaj, ma chile, coma s’a savèisso ch’i-j sarìa capitaje gnente ʼd brut, a son ëstàite sarà an gabia cole doe o tre ore sensa sagrinesse e quand ch’ i l’heu torna daje la larga a son manch ëslontanasse tròp piassand-se sël bòrd ëd la grondan-a pront a torna caleme ’nt l’èira. Ciamandje consèj al veterinari i l’heu butà sla galerìa doe sagome ʼd bestie ferose, n’oloch e na pondrà ch’a l’avrìo dovù sbaruvé minca rassa d’osel, con la sola riussìa che le róndole a son andàite a fé ël nil a ca dj’avzin e ij colomb nopà, dòp d’avèj capì che le sagome a j’ero ’d goma, a son dventà ij sò prim amis. Combin che costi inquilin a spòrco tut a toca nen fé l’eror ëd pensé ch’a sio ʼd creature pòch polide, tut àutr, minca matin, pen-a ch’as leva ʼl sol, as na van a pijé ʼn bagn drinta a la fontan-a ʼd ca nòstra che për l’ocasion a fà da vasca, bornel e, s’a pòrta, cò fin-a da cess. Nacc, mè can da vardia, a l’é cò chiel dasse pas dal moment che, essend tròp vej, a l’ha pì nen veuja ʼd core për taparé ij colomb, tant a serv a gnente da già ch’it na mande via un e sùbit apress d’àutri tre a rivo a sò pòst.  Na frisa ʼd soliev, a vorèj dì tuta la vrità, i l’oma avulo piassand n’angign modern catà sl’aragnà che, con dë strument ch’i son nen bon a spieghé coma ch’a fonsion-o, a sent ël passage dij colomb quand ch’a calo për andesse a lavé e mersì a un registrator, che l’eletricista a l’ha tacame a la fnestra dla cròta, a manda ’l crij dël farchèt sbaruvand cole bestiasse. La solussion, motobin sempia për ëschivié tut sossì e feme capì d’avèj ësgairà ij sòld, a l’é stàita trovà da coj oslass ant ël vir ëd na sman-a, forsi meno: minca matin nompà che volè diretament sël bòrd ëd la fontan-a lor a calo an mes a l’èira e peui a van a fesse ël bagn marciand a pé sensa fé ʼnterven-e coj sensor ch’i l’heu pagà car e salà.

Coma ch’is peul capì la facenda a l’é dventà bin mala da soporté e për gionteje ʼd fer a la ciòca ’l can a l’ha ciapà na rassa ʼd piatole, portà pròpi dai colomb, ch’a podrìo ʼdcò taché j’òm. Për cost motiv, bele dë stracheur, i l’heu decidù ʼd libereme ʼd cole bestie tirandje con la carabin-a ardità da mè cé, na veja “Diana 25” cola che papà a ciamava “Flobert” e che a l’é squasi pericolosa coma na pistòla a eva da già ch’a tira stòrt e che ʼd potensa a n’ha meno ʼd na franda. Comsessìa dòp d’avèj trovà na desen-a ’balin adat e fàit tre o quatr tir ëd preuva, senza mai ciapé la tòla ch’a fasìa da bërsalio, ancheuj, essend na giornà lìbera dal travaj, i son piassame a l’avàit dré da le gelosìe dla stansia da let dël prim pian con l’intension, se nen pròpi ëd masseje, almeno dë sbaruvé ij colomb an manera da feje cambié adressa për un pòch ëd temp. Coma ch’a sia sta facenda mi i savrìa nen a dilo comsëssìa, manch a savèisso mie intension, sta matin ij colomb a smijo an siòpero; i j’era squasi sicur ëd dovèj speté nen pì che des minute për avèjne un a tir nompà as na stan tuti quaciarà sël corm dël vej ëstabi a tubè për sò cont coma s’a fusso stàit avisà che mi i son piassame ambelessì për feje dël mal. Dal cioché dla paròchia as àussa un vòl ëd na tranten-a d’element ch’a passo dzora a mia testa diret a le piante dël castel, un dij pòchi leu anté che berte e cornajass a son ʼncor nen fasse taparé dai neuv padron dël cel nostran.

Ël croassé dij padron ëd ca ʼncora na vòlta a basta për ësbaruvé ij colomb ch’a cambio òrbita artonand anver la gesia, quaidun ëd lor però as fërma a fé companìa a coj ch’as na stan quaciarà sij mè cop, pront a caleme ʼnt l’òrt për ëspicassé ij neuv brojon ch’a dan fòra da la tèra.  

Mi i son mai ëstàit un ’d coj tirador barbis ch’a ciapo le monede al vòl ansi, a dì tuta la vrità, quand ch’a rivava ʼl tirassegn a mè pais ël pì dle vire i fasìa talment tanta pen-a a la padron-a dël baracon che apress ʼd na vinten-a ʼd colp am disìa chila ʼd pì nen ësgairé ij sòld an cola manera. Për ësto motiv i deuv avèj passiensa e speté che mie prede am ven-o bin a tir, magara caland na cobia ʼd mèter dal corm e dasend-me ʼdcò la certëssa che ʼl balin a peussa nen ëscavalché ij còp fasend quàich dann a ca dj’avzin.

La susta a dventa sùbit ëstracanta, fé ʼl cassador a l’é nen mè travaj am na manca la passiensa, tutun quand ch’i son ësquasi decidume a lassé perde mè propòsit, na cobia ëd colomb a cala sla gronda për bèive la pòca eva fërma prima che ʼl sol a la fasa svaporé. A l’é l’ocasion ch’i spetava… an mia ment quaicòs a cambia e ʼd botamblan im trasformo ʼnt na përson-a ch’i conossìa nen: un sassin assià ʼd sangh. Mie man a tiro fòrt vers ʼl bass la cana dël fusil për carié la mòla dla carabin-a, ël balin i l’heu già ʼnfilalo prima e donca i deuv mach pì fé scaté l’angign ch’a pòrta torna la cana an posission për ësparé. Ij moviment as fan lest, ma dlicà për nen fé gnun armor e sbaruvé mie vìtime. Dosman im ampontajo a la quara dla fnestra ʼn manera da nen tramblé mentre ch’i pijo la mira. Ij colomb a stan nen ferm e donca ël tir a dventa malfé, ma a l’é nen col-lì mè sagrin, ant ësto moment as trata ëd trové l’àtim giust, cola frassion ëd second quand che ʼl mirin e l’anchërna ʼd mira as treuvo an dirission precisa d’un-a ʼd cole bestie. Ël temp a smija ch’a marcia pì pian, fin-a mè respir a l’é ralentasse a dispet dël cheur ch’a bat fòrt coma s’i l’avèissa fàit le scale ʼd corsa. Ël colp a part ësquasi an silens da già che la “Diana 25” a l’ha bin pòca potensa, ma con mè grand ëstupor a va a segn; forsi për la prima vira an mia vita i son ëstàit bon a fé centro. Un di doi osej, la fumela, a perd quàich piuma ch’ a sta ʼncora caland ant l’èira quand che chila, con un cit vòl dësperà, a dròca sla fàuda pì bassa dël garas. Coma un tirador assià ʼd vendëtta i carìo torna la carabin-a pront për ëspareje ʼdcò al mas-cc; adess sensa sagrineme dj’armor, as trata mach ëd fé lest prima che, rendend-se cont dël pericol, ël colomb a riessa a volé via coma ch’a l’han già fàit ij sò cambrada ch’a tubavo sël corm. Tuti jë scrùpoj ch’a l’han sèmper blocame ’nt ij mèis andarera për nen lasseme fé dël mal a cole creature a son svanì e mi, coma s’i fussa sota l’efet ëd na quàich dròga, i son pront a torna massé, ma… quand ch’i stagh për tiré ʼl grilèt, nompà che scapé, ël mas-cc a pija ʼl vòl e a ven a posesse sël mancorent ëd la galerìa a pòch pì che un mèter da mia postassion.

A sarìa squasi impossìbil ësbalié ’l colp da na distansa tanto cita, l’osel a l’é ambelessì dnans a mi ch’a më smon ël pèt coma s’a fussa ël bërsalio ’d col tirassegn ch’i son mai stàit bon a centré an mia giovnëssa e am varda drit ant j’euj dësfidand, o forsi sercand cò chiel, la midema mòrt ch’a l’ha portaje via soa compagna.

J’osej a l’han dë sguard ch’a son nen espressiv tutun, adess che mi e cola cola bestiëtta is vardoma drit ant j’euj, a l’é coma s’i podèissa lese tuta soa disperassion, col mas-cc a smija ch’a veuja dime:

«Sù, fame vëdde vàire ch’it ses an piòta, mass-me cò mi, tant mia vita it l’has già portam-la via con tò prim colp».

Mai i j’era stàit tanto ontos coma ʼnt ësto moment, cole due bestie, an mia testa, a son dventà person-e e im rendo cont dël delit ch’i l’heu compì. Im anmagin-o lòn ch’a preuva col colomb ch’a l’ha vist massé soa compagna e ’d botanblan la veja carabin-a am pèisa ’nt le man coma s’a fussa fàita ʼd piomb. Daspërmì i faso la promëssa che mai pì i fareu na folairada përparèj, ma tant mia bon-a intension a servirà nen a libereme dal magon ch’a l’ha pijame dòp d’avèj tirà cola s-cioptà.

An cabalisand sossì im rendo cont che ’l mas-cc, mostrand-me soe piume scure, squasi coma s’a portèissa ʼl deul, a l’é posasse sël garas davzin a soa compagna për feje n’ùltima gnògna prima ’d bandonela a sò marì destin. A mi tut lòn ch’am resta da fé a l’é d’antampé la fumela për vanseje la schergna d’esse mangià dai gat o pes ʼncora ʼd marsé ambelelì al ruvin dël sol. Un buf ëd vent a fà bogè le piume sla schin-a dla colomba bianca e maron dasend-me l’impression ch’a peussa esse ʼncora viva e già mach l’idèja ʼd dovèj-je dé ʼl colp ëd grassia për eviteje la soferensa ʼd na longa agonìa am mortìfica ʼncora ʼd pì. Ampontajo donca lë scalòt a la grondan-a për pijé col còrp e deje na sipoltura dignitosa, ma quand ch’i slongo la man për ambranchela im ancorzo che cola creatura a l’é tut àutr che sensa vita, ël balin a l’ha mach sgrafignaje un pòch n’ala e chila, për istint, a l’ha fàit finta d’esse mòrta.

Dré da mia schin-a n’ombra a së slonga sël cuvercc dël garas compagnà da l’armor giumai famijar d’ale ʼd colomb. Për la sconda vòlta ël mas-cc a ven a posesse dnans a mi, però sò sguard a l’é pì nen nech, am varda coma s’a vorèissa ciameme scusa për avèjme cojonà fasend-me vardé da n’àutra part mentre che soa compagna as arpijava.

A sarà magara për via dl’età ch’a l’ha fame vnì ʼl cheur ʼd bur o për la la sodisfassion ëd nen dovèjme artiré con ël rimòrs d’avèj massà na creatura nossenta, ma ʼnt ësto moment im sento l’òm pì content dël mond.

Miraco ʼl fàit d’esse un tirador da pòch, combin ch’a l’abia fame travonde tanti con amèr al baracon dël tirassegn, sta vira a l’é arvelasse un boneur ch’am fà sente an pas con ël mond mentre ch’i vardo mia cobia ’d colomb ch’a vòla via.

 

P.S.

I j’era fame cont che coj doi osej a vorèisso saluteme n’ùltima vòlta quand ch’a l’han cambià diression për passeme sla testa nompà soa intension a l’era n’àutra… e lor a l’han pa sbalià la mira…

 

Una buona mira


Ogni volta in cui vado a prendere la macchina posteggiata sotto alla tettoia me la trovo tutta macchiettata dai colombi che di notte vanno a dormire sulle travi e che, dopo aver mangiato abbondantemente, si liberano l’intestino senza sbagliare un colpo. Questa è una faccenda che va avanti da diversi anni e che ora occorre risolvere in qualche maniera decisa perché tutto quel che abbiamo provato fino a questo momento non è andato a buon fine. Quando era un ragazzino la soluzione sarebbe stata una sola e quelle bestioline, accompagnate da una bella fetta di polenta, avrebbero riempito la pancia dei miei vecchi, ma oggigiorno che siamo diventati tutti animalisti o vegetariani si sono moltiplicati a tal punto da diventare un serio problema per paesi e città. Ogni volta che la campana della parrocchia segna le ore dai suoi tetti si leva uno stormo di colombi talmente grande da oscurare il sole e che, forse per lo spavento, benedice alla solita maniera tutto ciò su cui passa. Io per primo non vorrei mai far del male a quelle creature, ne ho catturate quattro o cinque con delle trappole artigianali, ma loro, come se sapessero che non gli sarebbe accaduto nulla di brutto, sono state chiuse in gabbia quelle due o tre ore senza preoccuparsi e quando le ho liberate non si sono nemmeno allontanate sistemandosi sul bordo della grondaia pronte a scenderei nuovamente nel cortile. Su consiglio di un veterinario ho posizionato un paio di sagome di animali feroci, un allocco e una poiana che avrebbero dovuto spaventare ogni tipo di uccello, con il solo risultato che le rondini sono andate a fare il nido altrove mentre i colombi, dopo aver compreso che le sagome erano di gomma, ne sono diventati amici fraterni. Sebbene questi inquilini sporcano tutto non bisogna commettere l’errore di pensare che siano creature poco pulite, anzi, ogni mattina, appena si alza il sole, vanno a farsi un bagno nella fontana di casa nostra che per l’occasione fa da basca da bagno, doccia e se serve anche da gabinetto. Camuso, il mio cane da guardia, si è anche lui dato pace dal momento che, essendo troppo vecchio, non ha più voglia di correre per scacciare i colombi, tanto non serve a nulla poiché se ne mandi via uno ne arrivano subito altri tre ad occupare il suo posto. Un poco di sollievo, a voler dire tutta la verità, lo abbiamo avuto posizionando un aggeggio moderno comprato in internet il quale, con strumenti che non sono in grado di spiegare come funzionino, rileva il passaggio dei colombi quando essi scendono per andarsi a lavare e grazie ad un registratore, che l’elettricista mi ha piazzato sulla finestra della cantina, lancia il grido di un falchetto spaventando quelle bestiacce. La soluzione, molto semplice per evitare tutto ciò e farmi capire di aver sprecato i miei soldi, è stata trovata da quegli uccellacci nel giro di una settimana, forse meno: ogni mattina anziché volare direttamente sul bordo della fontana loro scendono in mezzo al cortile e poi vanno a farsi il bagno camminando a piedi senza far intervenire quei sensori che ho pagato cari e salati.

Come si può capire la faccenda è diventata insopportabile e per giunta il cane è stato infettato da un tipo di zecca, portato proprio dai colombi, che potrebbe anche essere dannoso per le persone. Per questo motivo, anche se a malincuore ho deciso di liberarmi di quelle bestie servendomi della carabina ereditata dai miei avi: una vecchia “Diana 25” che papà chiamava “Flobert” e che è quasi pericolosa quanto una pistola ad acqua poiché tira storto e ha meno potenza di una fionda. Comunque dopo aver trovato una decina di pallini adatti e fatti tre o quattro tiri di prova, senza mai centrare il bersaglio, oggi, essendo una giornata libera dal lavoro, mi sono posizionato in agguato dietro alle persiane della camera da letto con l’intenzione, se non proprio di ucciderli, almeno di spaventare i colombi in modo da fargli cambiare residenza per un po’ di tempo. Questa cosa non saprei proprio spiegarla comunque, come se conoscessero le mie intenzioni, questa mattina i colombi sembrano in sciopero; ero quasi certo di dover aspettare non più di dieci minuti per averne uno a tiro invece se ne stanno tutti appollaiati sul tetto della vecchia stalla a tubare per conto loro. Sembrano essere stati avvisati che io sono qua dietro pronto a far loro del male.

Dal campanile della parrocchia si alza uno stormo composto da una trentina di elementi che passano sopra alla mia testa diretti verso gli alberi del castello, uno dei pochi luoghi in cui gazze e corvi non si sono ancora fatti allontanare dai nuovi padroni del cielo nostrano. Il gracchiare dei vecchi inquilini ancora una volta è sufficiente per spaventare i piccioni che cambiano rotta ritornando verso la chiesa, qualcuno di loro però si unisce a quelli che sono fermi sui miei tetti, pronti a scendermi nell’orto per beccare i nuovi germogli che stanno spuntando dal terreno.

Io non sono mai stato uno di quei tiratori provetti capaci di colpire le monete al volo anzi, a dire il vero, quando arrivava il tirassegno nel mio paese il più delle volte facevo talmente tanta pena alla padrona dell’attrazione che dopo una ventina di colpi era lei stessa a dirmi di non sprecare più i miei soldi in quel modo. Per questo motivo devo avere pazienza e aspettare che le mie prede mi vengano bene a tiro, magari scendendo un paio di metri dal colmo e dandomi anche la certezza che il pallino non possa scavalcare i tetti e andare a far danni nelle case dei vicini.

L’attesa diventa subito pesante, fare il cacciatore non è il mio lavoro me ne manca la pazienza, tuttavia quando mi sono quasi deciso a lasciar perdere il mio proposito, una coppia di colombi scende sulla grondaia per dissetarsi con la poca acqua stagnante che non è ancora evaporata. È l’occasione che aspettavo… nella mia testa qualcosa cambia e d’un tratto mi trasformo in una persona che non conoscevo: un assassino assetato di sangue. Le mie mani tirano forte verso il basso la canna del fucile per caricare la molla della carabina, il pallino l’ho già infilato prima quindi devo solo far scattare il meccanismo che riporta la canna in posizione per sparare. I movimenti si fanno lesti, ma delicati per non far alcun rumore e spaventare le mie vittime.  Dolcemente mi appogio allo spigolo della finestra in modo da non tremare mentre prendo la mira. I colombi non stanno fermi e il tiro diventa difficile, ma non è quella la mia preoccupazione, in questo momento si tratta di trovare l’attimo giusto, quella frazione di secondo in cui il mirino e la tacca di mira si trovano allineati nella direzione precisa di una di quelle bestie. Il tempo pare avanzare più piano, perfino il mio respiro sembra rallentato a dispetto del cuore che invece batte all’ impazzata come se avessi fatto le scale di corsa. Il colpo parte quasi in silenzio dato che la “Diana 25” ha poca potenza, ma con grande stupore va a segno; forse per la prima volta in vita mia sono stato capace di far centro.  Uno dei due uccelli, la femmina, perde qualche piuma che sta ancora scendendo nel cortile quando lei, con un piccolo disperato volo rovina sul tetto del garage. Come un tiratore assetato di vendetta ricarico la carabina, pronto per sparare anche al maschio; adesso non devo preoccuparmi di non far rumore, si tratta solo di essere veloce prima che, rendendosi conto del pericolo il colombo voli via come hanno già fatto i suoi amici che riposavano sul colmo. Tutti gli scrupoli che mi hanno sempre bloccato nei mesi addietro impedendomi di far del male a quelle creature sono ora svaniti e io, come se fossi sotto l’effetto di una qualche droga, sono nuovamente pronto ad uccidere, ma… quando sto per tirare il grilletto, anziché scappare, il maschio viene a posarsi sul mancorrente del balcone a poco più di un metro dalla mia postazione. Sarebbe impossibile sbagliare il colpo da una distanza così corta, l’uccello è qui davanti a me che mi offre il petto come se fosse il bersaglio di quel tirassegno che non sono mai stato capace di centrare nella mia giovinezza e mi guarda dritto negli occhi sfidando, o forse cercando anch’egli, la medesima morte che gli ha portato via la sua compagna.

Gli uccelli non hanno uno sguardo espressivo, tuttavia, adesso che io e quella bestiola ci guardiamo diritti negli occhi, è come se potessi leggere tutta la sua disperazione, quel maschio pare volermi dire:

«Su, fammi vedere quanto sei bravo, uccidi anche me, tanto la mia vita me l’hai già porta via col il primo colpo».

Non mi ero mai vergognato tanto quanto in questo momento, quei due animali, nella mia testa, sono diventati persone e mi rendo conto del delitto che ho commesso. Immagino ciò che prova quel colombo che ha visto uccidere la sua compagna e d’un tratto la vecchia carabina mi pesa tara le mani come se fosse di piombo. Ta me e me faccio la promessa che mai più farò una cosa del genere, ma tanto le mie buone intenzioni non serviranno a liberarmi dal magone che mi ha assalito dopo quella schioppettata.

Pensando a tutto questo mi rendo conto che il maschio, mostrandomi le sue piume scure, quasi come se fosse a lutto, si è posato vicino alla compagna per farle un’ultima coccola prima di abbandonarla al suo destino. Tutto quel che mi resta da fare è sotterrare la femmina per risparmiarle l’offesa di essere divorata dai gatti o peggio ancora di marcire lì sotto i raggi del sole. Un soffio di vento fa muovere le piume sulla schiena della colomba bianca e marrone dandomi l’impressione che possa essere ancora viva e già solo l’idea di doverle assestare il colpo di grazia per evitarle una lunga agonia mi mortifica ancora di più. Appoggio la scala alla grondaia per prendere il corpo e dargli una sepoltura dignitosa, ma quando allungo la mano per afferrarla mi accorgo che quella creatura è tutt’altro che senza vita, il pallino le ha solo graffiato un po’ un’ala lei, istintivamente, si è finta morta. Dietro di me un’ombra si allunga sul tetto del garage accompagnata dal rumore ormai familiare di ali di piccone. Per la seconda volta il maschio viene a posarsi davanti a me, però il suo sguardo non è più triste, mi guarda come per scusarsi di avermi imbrogliato facendomi guardare da un’altra parte mentre la compagna si riprendeva.

Sarà magari per via dell’età che mi ha intenerito il cuore o per la soddisfazione di non dovermi ritirare con il rimorso di aver ucciso una creatura innocente, ma in questo momento mi sento l’uomo più felice del mondo.

Forse il fatto di essere un pessimo tiratore, pur avendomi fatto ingoiare tanti bocconi amari al tirassegno, questa volta si è rivelato una fortuna che mi fa sentire in pace con il mondo mentre guardo la mia coppia di colombi che vola via.

 

P.S.

Credevo che quei due uccelli volessero salutarmi ancora un’ultima volta cambiando direzione per passarmi sulla testa invece avevano un’altra intenzione… e loro non hanno sbagliato mira…

Mia prima vira al Cotolengo, di Luigi Lorenzo Vaira, Sommariva del Bosco (Cuneo)

 

Mia prima vira al Cotolengo.


La pì granda part ëd jë spos giovo, quand ch’a van a sté për sò cont, a ven-o pijà sota la tua ëd quàich avzin, già amanà ʼnt ël menagi, che con ij sò consèj, tante vire a riess a gaveje da ʼnt j’ambreuj. Coma ch’a disìa mia mare: «A l’é na roa ch’a vira» e chila bin da soens am contava j’aventure dròle ch’a j’ero capitaje pen-a marià, quand ch’a savìa nen da che part viresse nì a fé da mangé e meno ʼncora a goerné la ca. Për boneur mama a l’avìa Giuspin e Gioanin-a, doi avzin ëd ca considerà ansian combin ch’a fusso pì giovo ʼd coma ch’i son mi adess e che, magara an sopatand la testa, a mancavo mai ’d deje na man për arsòlve ij tanti ʼntrap ʼd minca di.

Pròpi për nen dëscontradì mama i deuv conté che ʼdcò mi e mia fomna i l’oma avù ʼl boneur d’esse stàit giutà da na cobia d’àngej goernant ch’a vivìo ʼnt l’alògg da fianch a col andoa ch’i soma ʼndàit a sté sùbit apress dël mariagi. Ij nòstr Giuspin e Gioanin-a a së s-ciamavo Cichin e Teresa e già dal prim di a j’ero arvelasse n’arzòrsa pressiosa për nojàutri spos ch’i conossìo gnun-e ʼd cole règole, scrite e nen ëscrite, ch’a përmëtto ʼd vive an manera tranquila ʼnt un condomini con na vinten-a d’inquilin.

Teresa a l’era presentasse, con na fogassa ʼd bin ëvnù pen-a tirà fòra dal forn, compagnà da sò òm ch’a tnisìa an man na bota ëd vin bianch goernà da doi agn ant lë scur ëd la vardaròba e dëstopà pròpi për cola ʼmportanta ocasion. Da col di l’amicissia con j’avzin ëd ca a l’era chërsùa motobin e prest i l’avìo ancaminà a considereje squasi ʼd famija, pròpi coma ʼd parent ëstrèit, tanto da ven-e a conòsse, pòch për vòlta, tuti ij particolar ëd soa frapanta vita. Teresa a l’era sèmper sagrinasse ʼd mandé anans la ca e dë steje apress a n’òm che ʼn soa giovnëssa a l’era nen fasse manché quàich distrassion, coma che chiel a ciamava le tròpe madamin che an soa cariera da galinàire a l’avìa podù frequenté con na certa insistensa. Cichin a l’era stàit un grand travajeur, prima ’nt le cite bòite ʼd sò pais, apress a la Fiat repart “Grand Motor” e për tanti agn, sèmper a servissi dla midema asienda, trasferì ʼnt ij vàire stabiliment piassà an Àfrica, specialment ant lë stat ëd la Tanzanìa. Am ven da fé un soris pensand a quand che col monsù am contava quàich episòdi ʼd soa permanensa an tèra d’Àfrica e al fàit che minca vira a-j mancava mai l’arzigh ëd ciapesse un patin ant la schin-a da part ëd Teresa përchè chila, bele da veja, a l’era ʼncor sèmper gelosa marsa fin-a dj’arcòrd ëd sò òm.

La nostalgìa ʼd nòstr Piemont e ʼl desideri ʼd vive soa veciaja davzin ai parent a j’ero stàite le mòle ch’a l’avìo possaje a fé artorn ant ël “Bel Pais” catand-se cole quatr muraje dël condominio “Le biole”.

Për tuti ij sinch agn ëd nòstra permanensa an col palass Cichin e Teresa a son ëstàit doe figure amportante për mi e mia fomna, peui la vita a la dividù nòstre stra ma, combin che rangiand la ca dij mè vej i fusso ʼndait a sté ʼnt n’àutr pais, i l’oma seguità a sentije da soens fasendje vìsita quand che ël travaj an lo përmëttìa e sercand dë steje visin quand ch’a n’avìo dabzògn da già che soe masnà, giumai grande, a stasìo un-a ʼnt l’Amèrica e l’àutra, ël fieul, ambelessì an Italia, ma motobin an fòra da pare e mare. I l’oma vivù con lor la tragedia ʼd Cichin, quand che për na maladìa stran-a a l’ha perdù la vista da n’euj e ij sagrin ëd Teresa che apress d’esse drocà da le scale a l’era s-ciapasse na gamba e na spala, ma ch’as angagiava ancora për feje da mangé a sò òm përchè, a soa idèja, a sarià mai solament ëstàit bon a fesse scaudé na mnestrin-a.

Con l’arton ëd la fija da l’Amèrica e con ël fieul ch’a l’era stabilisse ’nt l’istess pais për cudì la mama an mentre ʼd soa convalessensa, nòstre vìsite a j’ero peui rairisse motobin për nen dé gena a cola famija ʼndoa che ij parent pì strèit ʼd Cichin e Teresa a smijavo patì na frisa nòstra presensa. Ant ij prim temp i ʼndasìo a troveje minca doe sman-e, apress na vòlta al mèis e peui, con l’ariv ëd la pandemìa ch’a l’ha sarane tuti ’nt ëcà, i soma sentisse mach pì al telefono.

Sèmper për telefono i j’era vnùit a savèj daTeresa che a sò òm la maladìa a l’avìaʼdcò tacaje l’euj san e che giumai a sarìa pì nen ëstàit bon a marcé për sò cont. Dovèj dipende da l’agiut ëd na goernanta a l’era stàit lòn che a l’avìa campà col òm ant la depression pì nèira, tanto da gaveje fin-a la veuja ʼd parleme al telefono, ansi a patìa fin-a che soa fomna am lo contèissa donca, për ësto motiv, i soma amparolasse ch’a l’avrìa ciamame chila quand e coma ch’a fussa stàit possìbil.

A distansa ʼd quasi n’ann i l’heu pì nen avù gnun-e neuve; ses mes andarera i j’era pro ʼndàit a troveje ëd person-a, ma j’avzin a l’aviò dime che ʼl fieul a l’avìa fàit San Martin portand-se mare e pare a ca soa për cudije mej, gnun però a l’era stàit bon a deme l’adressa. Nì Cichin nì Teresa a j’ero mai costumasse a dovré ij teléfoni sacociabij e për col motiv i l’heu pì nen savù gnente ʼd lor fin-a a sta matin quand’ch’i l’heu ʼncontrà un sò cusin al mercà e da chiel i l’heu avù la neuva pì bruta: Teresa a l’é ʼndass-ne già da tre mèis e sò òm, a càusa ʼd n’incident domèstich, a l’é s-ciapasse ʼl fil ëd la schin-a restand paralisà.

A l’é pro ver che ʼd tut sossì mi i son nen responsàbil an gnun-e manere, tutun i peuss nen fé a meno ëd sentime na frisa ʼn colpa për nen esse stàit present an coj moment tanto dlicà. 

Cichin a l’é ricoverà ant na ca d’arpòs ch’a pòrta ël nom dël Beat Cotolengo andoa che j’infermé, specialisà ʼnt ël cudì person-e an cole condission, a serco ʼd deje tuta l’assistensa ch’as peul, ma forsi lòn che a col òm a manca pì che tut a l’é la possibilità ʼd fé doe paròle con na vos amisa. Almeno sossì im sento an dover ëd garantijlo e për cost motiv, già sùbit ancheuj dòp-mesdì, i veuj andé a trovelo.

Na telefonada al centralin dël Cotolengo a l’é bastà për avèj conferma che Cichin a peul arsèive ʼd vìsite e për capì a che ora ch’i peul andé sensa dé ʼd dëstòrb.

Quatr e mesa ʼd sèira, i soma squasi a metà dë dzèmber e le giornà a son fasse curte, ancheuj ël cel a l’é carià ʼd nìvole bianche ch’a marco la fiòca dasend n’atmosfera natalissia al paisage. Le luminarie ant la stra a son pen-a ʼnviscasse fasend companìa a le cite lus tacà al cancel ʼd la ca d’arpòs. A dovrìa esse un moment ëd gòj nompà ancamin ch’i sgnaco ʼl ciochin për nunsieme am ciapa un magon tanto fòrt da manch feme seurte la vos. La monia ch’a fà da portiera am vëdd da soa vardiòla e a capiss sùbit che a l’é mia prima vòlta an col leu:

«Ch’a ven-a monsù, a veul dime chi ch’a l’ha piasì d’andè a trové?».

«Cichin – i-j diso mi – l’òm ëd Teresa… a marcia pì nen e a l’é ʼdcò borgno… pòvr òm».

«Sì i l’heu capì ʼd chi ch’a parla. Ch’a firma ambelessì… Prim pian stansia nùmer quatr… ch’as buta la mostacin-a e im arcomando ch’a varda ’d nen dé ʼd dëstòrb a j’àutri ricoverà».

Va a savèj se për col travaj a siò stàite sercà le monie pì dëspiasente, cole già bastansa antipàtiche ʼd natura, o s’a sia con ʼl temp ch’a ven-o tanto mal grassiose. Comsëssia i l’heu savù lòn ch’am anteressava e am resta mach da trové col amis che da tròp temp i l’heu pì nen frequentà.

L’andor dë sto pòst a l’é tut polid e ordinà, con piante e fior ʼd plàstica ch’a fan soa bela figura sota a la lus tramolanta dij nèon. Ël përfum dël disinfetant dovrà për lavé ij paviment a dà col toch ch’a mancava për rende l’ambient motobin pì sìmil un ʼd coj basar modèrn gestì dai Cinèis che nen a n’ospissi. Al piantèra a-i é gnun armor se nen col dij mè pé che a minca pass a fan ësquisi la sòla dle scarpe ’n sla goma vërda dël paviment peui, drè da la pòrta dle scale, as ancamin-o a sente le vos ràuce dij vej ch’a son ricoverà; as trata nen ëd paròle ma ʼd lament giumai mach pì bësbijà chi sà da vàire temp. Ancamin chi monto jë scalin i deuv fé finta ʼd nen scoté cole vos për pa sentime an colpa dë stè bin e ʼd podèj andemne via con mie gambe quand ch’am farà còmod. Dodes ëscalin minca rampa, doe dosen-e ʼd pass ch’a smijo mila tant a-i va ʼd temp për feje. Da la cusin-a, passand për la tromba dle scale a ven su l’odor dël bròd ʼd galin-a che an costi pòst a manca mai e im ciamo se ʼdcò a mè amis cola galuparìa a-j fasa strì coma ch’a l’ha sèmper famlo a mi.

Ël prim pian a l’ha n’andor largh con na sislonga e dontré cadreghe virà vers na television che gnun a varda combin ch’a sia tacà tut ël di, fissa sël canal ch’a trasmëtt ël rosari da quàich santuari dedicà a la Madòna. Ij vej ch’a peusso përmett-se d’aussesse dal let a ven-o portà dai servent a pijé n’ora d’aria fòra da soa stansia e a fé doe paròle an tra ʼd lor. Quaidun ch’a riess ʼncora a marcé giutand-se con n’angign d’aluminio fàit coma un ghërmo, a cor (as fà për dì) a pijé pòst sla sislonga andoa ch’a peul ëspeté ij parent an vìsita.

Le ses ëstansie dël prim pian a l’han tute le pòrte sbajà e am dan la possibiltà d’intré e dé në sguard un-a a pr’un-a për vëddé s’i son bon a trové mè amis da mi sol o s’a fà dabzògn ch’i ciama un servent. Nen da fé, Cichin a smija nen esse ʼnt ësto pian, magara la monia a l’é confondusse, ma s’a l’é përparèj am toca viré coma na sòtola për trovelo; mej ciameje agiut a quaidun. N’infermera strangera, ch’a parla italian mach a soa manera, am dis ch’i son al pian giust e con ël dil am fà segn d’ntré ʼnt la stansia nùmer quatr. Chila-sì a më smija nen tuta a pòst da già ch’i son pen-a surtì da cola pòrta tutun, sicoma ch’a continua a vardeme, i preuvo torna a dé në sguard, magara na frisa mej. La nùmer quatr a l’é na stansia con doi let: ant ël prim, col pì visin a la pòrta, a deurm un monsù grand e gròss ch’a peul nen esse mè amis, ma l’òm cogià lì dacant i l’avìa già vardalo prima sensa capì che as tratava pròpi di Cichin. Ant le scur ëd cola stansia i l’avìa nen lesù ʼl nòm tacà al taulin da neuit e chiel, giumai màire për la maladìa e borenfi a càusa dle meisin-e, as conòss pì nen.

Na carëssa fàita con un pòch ëd gena, për pàu dë sbaruvelo, a lo gava da la la mesa-seugn e chiel d’istint am fà la domanda:

«Vàire ore a son?».

«Ciàu Cichin… a son ësquasi sinch ore».

«Ëd matin o ʼd sèira?».

Dòp ëd cole pòche paròle i son rendume cont che col pòvr òm a sà pì nen anté ch’a viv e che ʼnt lë scur ëd sò esse borgno, për chiel, tute j’ore dël di e dla neuit a son istesse. Riesse a fé na conversassion a l’é squasi impossìbil, Cichin a tribula a parlé e forsi a n’ha manch vàire veuja. I pijo na cadrega për seteme visin al let e i parlo mi për tuti doi arcordant cole stòrie capità an Tanzanìa ch’i l’heu scotà mila vòlte da la boca ʼd mè avzin ant j’agn ch’i stasìo ʼnt ël midem palass. An slë sguard dëstiss ëd col pòvròm as dissegna in cit soris, segn che finalment a l’ha arconossume e adess a smija vorèjme parlé:

«Ame…Mame».

I capisso nen, col che an mia testa a smija un lament forsi a l’é na preghiera a soa mare e s’a l’é parèj am fà ʼncora pì sgiaj përchè vàire vòlte i l’heu sentì conté che ij moribond a ciamo soa mama quand ch’a s trata ʼd rende l’ànima. Cichin però a dà nen l’impression d’esse malandàit a sta mira e donca im avzin-o për sente mej, chiel a më strenz la man e con në sfòrs, për feme capì, am dis tre paròle bastansa ciàire:

«Mass-me për piasì».

I l’heu nen ël corage ʼd ciameje d’arpete cola frase che për mi a l’é stàita na vera cotlà. Con tenerëssa i ambrasso mè amis sercand ʼd nen feje mal… la sola ròba ch’i peul ancora fé për chiel.      

 

La mia prima volta al cottolengo.

 

La maggior parte dei giovani sposi quando va a vivere per conto proprio viene presa sotto la tutela di qualche vicino, già pratico del “ménage” familiare, che con i suoi consigli, molte volte riesce a levala dagli impicci. Come diceva mia madre: «È una ruota che gira» e lei spesso mi raccontava le curiose avventure accadutele appena sposata, quando non sapeva cucinare e meno ancora meno governare la casa. Per fortuna mamma aveva Giuseppe e Giovanna, due vicini di casa considerati già anziani seppur fossero più giovani di quanto sia io adesso, i quali, magari scuotendo la testa, non mancavano mai di aiutarla per risolvere i tanti problemi quotidiani.

Proprio per non contraddire mia madre devo ammettere che anche io e mia moglie abbiamo avuto la fortuna di essere aiutati da una coppia di angeli custodi che vivevano in un appartamento confinante con quello in cui ci siamo stabilito subito dopo il matrimonio. I nostri Giuseppe e Giovanna si chiamavano Francesco e Teresa e già dal primo giorno si rivelarono come una preziosa risorsa per noi sposi che non conoscevano alcuna di quelle regole, scritte e non scritte, che consentono di convivere in maniera tranquilla in un condominio abitato da una ventina di inquilini.

Teresa si era presentata, con una torta di benvenuto appena sfornata, accompagnata dal marito che teneva in mano una bottiglia di vino bianco conservata da anni nel buio dell’armadio e stappata appositamente per quella importante occasione. Da quel giorno l’amicizia con i vicini di casa crebbe a tal punto che ben presto incominciammo a considerarli di famiglia, proprio come fosse dei parenti stretti, tanto da venire a conoscere, poco per volta, tutti i particolari della loro stupefacente vita. Teresa si era sempre occupata di accudire la casa e tener testa ad un uomo che non si era privato di qualche “distrazione” come egli stesso definiva le troppe signorine che nella sua carriera da Casanova aveva avuto modo di frequentare. Francesco era stato un grande lavoratore, prima impiegato in piccole officine del suo paese, successivamente alla Fiat reparto “Grandi Motori” e per tanti anni, sempre in servizio presso la medesima azienda, trasferito nei vari stabilimenti sorti in Africa, specialmente nello stato della Tanzania. Mi viene da sorridere pensando a quando quel signore raccontava qualche episodio della sua permanenza in terra d’Africa e al fatto che ogni volta rischiava di prendersi una ciabattata da parte di Teresa dato che lei, anche da anziana, era ancora sempre gelosa perfino dei ricordi del marito.

La nostalgia del nostro Piemonte il desiderio di vivere la loro vecchiaia vicino ai parenti erano state le molle che li avevano spinti a tornare nel “Bel Paese” acquistando quelle quattro mura del condominio “Le betulle”.

Per tutti i cinque anni della nostra permanenza in quel palazzo Francesco e Teresa sono state due figure importanti per me e mia moglie, poi la vita ha diviso le nostre strade, ma anche se ristrutturando la casa dei miei vecchi abbiamo portato la nostra residenza in un altro paese i rapporti con loro non sono cambiati continuando a far loro visita ogni volta che il lavoro ce lo permetteva e cercando di restituirgli le cortesie ricevute dato che i loro figli, ormai adulti abitavano una in America e l’altro in Italia, ma molto distante da padre e madre. Abbiamo vissuto con loro la tragedia di Francesco quando per una strana e rara malattia ha perso la vista da un occhio e condiviso le preoccupazioni di Teresa che a seguito di una caduta dalle scale si era rotta una gamba e una spalla, ma che caparbiamente continuava a voler cucinare per il marito incapace, a suo dire, di prepararsi nemmeno una minestrina.

Con il rientro della figlia dall’America e con il figlio che si era poi stabilito nel medesimo palazzo dei genitori per poter accudire la madre durante la lunga convalescenza, le nostre visite si diradarono per non infastidire quella famiglia nella quale i parenti più stretti di Teresa e Francesco parevano essere un po’ infastiditi dalla nostra presenza. Nei primi tempi andavamo a trovali ogni due settimane, poi una volta al mese e poi, con l’arrivo della pandemia che ci ha rinchiusi tutti in casa ci siamo sentiti solo più per telefono.

Sempre per telefono ero venuto a sapere da Teresa che la malattia del marito gli aveva danneggiato anche l’atro occhio e che non era più in gradi di camminare per conto proprio. Dover dipendere dall’aiuto di una badante era stato ciò che aveva gettato quell’uomo nella più nera depressione, tanto da privarlo perfino del desiderio di sentirmi al telefono, anzi era dispiaciuto che sua moglie me ne parlasse dunque, per questo motivo, ci siamo accordati affinché fosse lei a chiamarmi come e quando lo avesse ritenuto possibile.

A distanza di quasi un anno non ho avuto più alcuna notizia, sei mesi addietro ero sì andato a trovarli di persona, ma i vicini di casa mi avevano informato del fatto che il figlio aveva traslocato portando con sé i genitori per accudirli meglio, nessuno però aveva saputo indicarmene l’indirizzo. Né Francesco né Teresa avevano mai imparato a usare un telefono cellulare quindi per quel motivo non ho più avuto loro notizie fino a questa mattina quando al mercato ho incontrato un loro cugino e da lui ho appreso la più brutta notizia: Teresa se n’era andata già da tre mesi e il marito a causa di un incidente domestico si era rotto la spina dorsale restando completamente paralizzato.

È vero che di tutto ciò non sono responsabile, tuttavia non posso fare a meno di sentirmi un poco in colpa per non essere stato presente in un momento tanto delicato. Francesco è ricoverato in una casa di riposo che porta il nome del Beato Cottolengo nella quale gli infermieri, specializzati nell’accudire persone che si trovano nella sua condizione, tentano di dargli tutta l’assistenza possibile, ma forse ciò di cui quell’uomo ha più bisogno è la possibilità di conversare un poco con una voce amica. Almeno questo mi sento in dovere di garantirglielo e per questo motivo, già oggi pomeriggio voglio andare a trovarlo.

Una telefonata al centralino della casa di riposo è bastata per avere conferma che Francesco può ricevere visite e per capire a che ora posso andare senza arrecare disturbo.

Ore sedici, siamo quasi a metà dicembre e le giornate si sono accorciate molto, oggi il cielo è carico di nuvole bianche che preannunciano neve dando un’atmosfera natalizia al paesaggio. Le luminarie nella strada si sono appena accese facendo compagnia a piccole luci appese al cancello della casa di riposo. Dovrebbe essere un momento di gioia invece mentre pigio il campanello per annunciarmi vengo assalito da una sorta di magone che mi impedisce di parlare. La suora che fa da portinaia mi osserva dalla sua guardiola intuendo che è la mia prima volta in quel luogo:

«Venga pure avanti, vuole dirmi chi ha piacere di andare a trovare?»

«Francesco– le dico io – il marito di Teresa… non cammina più ed è anche cieco… poveruomo».

«Si ho capito di chi parla. Firmi qua… primo piano stanza numero quattro… si metta la mascherina e mi raccomando faccia in modo di non disturbare gli altri ricoverati».

Chissà se per quel lavoro sono state individuate le suore più scorbutiche, quelle già antipatiche di natura, o se magari diventino cosi con il passare del tempo. Ad ogni modo ho saputo quel mi interessava e non mi resta che trovare quell’amico che da troppo tempo non ho più frequentato.

Il corridoio di questo posto è tutto pulito e ordinato, con piante e fiori di plastica che fanno la loro bella figura sotto la tremante luce dei neon. Il profumo dei disinfettanti usati per lavare i pavimenti da quel tocco che mancava per rendere l’ambiente più simile ai quei bazar moderni gestiti dai Cinesi piuttosto che a un ospizio. Al pianterreno non c’è alcun rumore se non quello dei miei piedi che ad ogni passo fanno stridere la suola delle scarpe sulla gomma verde del pavimento poi, dietro alla porta delle scale si iniziano a sentire le voci rauche dei vecchi che sono ricoverati; non si tratta di parole ma di lamenti ormai solo più bisbigliati chissà da quanto tempo. Salendo gli scalini devo far finta di non ascoltare quelle voci per non sentirmi in colpa di star bene e di potermi allontanare con le mie gambe quando lo riterrò opportuno. Dodici scalini ogni rampa, due dozzine di passi che sembrano mille talmente tanto tempo mi ci vuole per salire. Dalla cucina, passando per la tromba delle scale viene su l’odore del brodo di gallina che in questi posti non manca mai e mi chiedo se anche al mio amico quella squisitezza faccia schifo come l’ha sempre fatto a me.

Il primo piano ha un largo corridoio con un divano e alcune sedie rivolte verso un televisore che nessuno guarda sebbene sia acceso e sintonizzato, tutto il giorno, su di un canale che tramette il rosario da qualche santuario dedicato alla Madonna. I vecchi che possono permettersi di alzarsi dal letto vengono portati dai parenti a prendere un ora d’aria fuori dalle loro camere e far due chiacchiere tra loro. Qualcuno è ancora in grado di camminare aiutandosi con il girello e corre (si fa per dire) a prendere posto sul divano dove può attendere la visita dei parenti. Le sei stanze del primo piano hanno tutte le poste socchiuse e mi permettono di entrare a dare un’occhiata, una per una per controllare se sono in grado di trovare da solo il mio amico o se devo chiedere aiuto ad un inserviente. Nulla da fare Francesco sembra che non sia in questo piano, magari la suora si è confusa, ma se è così mi toccherà girare come una trottola per rintracciarlo; meglio domandare a qualcuno. Un’infermiera straniera, che parla un italiano stentato, mi conferma che sono al piano esatto e con il dito mi indica di entrare là nella camera numero quattro. Costei mi pare un po’ matta dato che sono appena uscito da quella porta, tuttavia, siccome continua a guardarmi, provo nuovamente a dare uno sguardo, magari più attento. La numero quattro è una stanza con due letti: nel primo, quello più vicino alla porta, dorme un corpulento signore che non può essere il mio amico, ma l’uomo sdraiato lì accanto lo avevo già guardato prima senza capire che si trattava proprio di Francesco. Nel buio di quella stanza non avevo letto il nome attaccato al comodino e lui, ormai magro per la malattia e gonfio a causa delle medicine non si riconosce più.

Una carezza fatta timidamente, per timore di spaventarlo, lo ridesta dal suo torpore e lui d’istinto mi fa la domanda:

«Che ore sono?».

«Ciao Francesco… sono quasi le cinque».

«Di mattina o di sera?».

Ascoltando quelle poche parole mi sono reso conto che quell’uomo non sa più dove vive e che nel buio della sua cecità, per lui tutte le ore del giorno o della notte sono uguali. Riuscire a fare una conversazione è quasi impossibile, Francesco parla a fatica e forse non ne ha nemmeno voglia. Prendo una sedia per accomodarmi vicino al letto e parlo io per tutti due ricordando quelle vicende accadute in Tanzania che ho ascoltato tante volte dalla bocca del mio vicino negli anni in cui abitavamo lo stesso palazzo. Nello sguardo spento di quel poveruomo si disegna un piccolo sorriso, segno che finalmente mi ha riconosciuto e ora pare volermi parlare:

«Ame…Mame».

Non capisco, quello che nella mia testa sembra un lamento forse è una preghiera rivolta a sua madre e se così è la cosa mi fa ancora più senso perché ho più volte sentito dire che i moribondi chiedono della madre quando stanno per rendere l’anima a Dio. Francesco però non mi dà l’impressione di essere malandato a tal punto e dunque mi avvicino per ascoltare meglio, lui mi stringe la mano e con uno sforzo, per farmi capire, pronuncia tre parole abbastanza chiare:

«Uccidimi per favore».

Non ho il coraggio di fargli ripetere quella frase che per me è stata una vera coltellata. Con tenerezza abbraccio il mio amico cercando di non fargli male… la sola cosa che posso ancora fare per lui.