Una speciale normalità
C’era odore di neve quella notte nell’aria, in quel cielo bianco che a malapena riuscivo a intravedere sopra le cime delle querce del bosco. Niente luna, quella notte.
E dopo l’amore, accoccolata nel letto, all’improvviso la certezza che c’eri, che ti avevo dato inizio. E la gioia, grande, ma anche una paura sottile che sentivo entrare sotto la pelle, un’angoscia silenziosa. E poi il sonno, che cancella tutto.
Era vero, lo sapevo, lo sentivo, dentro di me. Ti aspettavo. Ed era stato proprio quella notte ai primi di febbraio.
La nausea e il vomito, prima ancora di essere sicura che tu esistessi. E le contrazioni da subito, mai avute tre anni prima, quando aspettavo Erica. E allora il riposo, le medicine, quelle accortezze e quelle premure che mi fanno sentire malata.
L’estate caldissima con il tuo pancione che pesa. Al mare con Erica, che mi accarezza la pancia e ti parla. Non vede l’ora di conoscerti. E’ felice. Siamo felici.
Martedì 16 ottobre. Mi svegli con la tua fretta di arrivare, con la tua impazienza di vedere il mondo, questo mondo così sereno così caldo, questo cielo così azzurro così pulito.
Ehi, ma come sarai? La voglia sconfinata di vederti, la curiosità, ma anche il timore dell’incontro con chi non si conosce ancora.
Il mio bimbo maschio, già…lo so che sei un maschio. Erica voleva una sorellina, e prima di arrendersi alla realtà aveva detto: “un fratellino lo butto nel secchio della spazzatura”. Ma poi la gioia, l’euforia del nuovo, la scelta del nome, il fingere con un bambolotto.
Sei nato di corsa. Non ho sentito dolore. Tanta la voglia di te.
La sala parto piena di luce e di azzurro. Il sole forte di mezzogiorno che batte sulla tua testina dai capelli ramati, quando sopra il mio petto apri gli occhi. Sono di un grigio piombo e per un attimo infinito sembri scrutarmi, interrogarmi, come a chiedermi se ti voglio ancora. Poi le tue labbra aperte incontrano il mio mento e i nostri occhi non si lasciano più. Che bello che sei.
Non mi accorgo di niente.
Ma quasi subito, impalpabili sensazioni, un’occhiata dell’ostetrica, uno sguardo del medico, un’alzata di spalle dell’infermiera. “Qualcosa non va?”. “Tutto a posto, signora, stia tranquilla”.
E allora la gioia la felicità l’allegria, da raccontare subito a Erica perché impari a volerti bene.
Dentro, la voglia di correre saltare cantare tornare a casa con te.
La notte felice e senza sonno, colma di idee progetti cose da fare insieme.
Ma quell’angoscia sottile che non se ne va, ogni volta che sfioro lo sguardo di un’infermiera o di un medico. Passano oltre, e i loro occhi di vetro sembrano non vedermi. Ma perché?
E la mattina dopo, pronta per tornare a casa con te in braccio. Ma senza nessuno che mi dica se possiamo andare, se va tutto bene.
All’improvviso una stanza grigia, vuota, fredda, troppo fredda, e mio marito che senza voce mi dice che sei un bimbo Down.
Erica per mano, con i suoi tre anni e i suoi occhioni blu pieni di paura, che in silenzio mi chiedono cosa vuol dire. E il mio sguardo sbarrato, che si perde in un vuoto spaventoso e non sa rispondere. Le mie braccia che ti serrano al petto per dirmi “no, non è possibile, non è vero, no, proprio a me, proprio a te, perché?”. E girare per i corridoi tenendoti stretto, e fermarmi a tutte le finestre a guardare quell’azzurro che non c’è più, quel sole che si è spento. E continuare a scrutarti, a cercare imperfezioni, somiglianze, a trovare tratti normali, a notare mancanze ed errori.
Ma poi quel tuo corpicino così morbido, il viso tondo tondo, quei capelli biondi e quegli occhi grigi senza fondo che sembrano interrogarmi di continuo.
NO, tu sei Roberto, il mio bimbo bello. Ti ho tanto voluto. Non può essere.
E torniamo a casa, io e te, Erica e il tuo papà. Ma il tuo cesto è così pesante, pesante di un dolore senza fine, di una tristezza immensa e grigia, di una mancanza incolmabile. E’ pesante di un vuoto senza nome e di una paura smisurata. E’ tutto così scuro intorno, così freddo. Poi però ti guardo e mi sento sciogliere. Credo di cominciare a volerti bene.
Ma dentro di me continuo a
cancellare la tua identità sbagliata, non sono capace di accettare quel
cromosoma in più, quei tuoi occhi a mandorla che non riesco a vedere, quel tuo
collo tozzo che a me sembra solo cicciotto.
E’ difficile, terribile, dover spiegare a Erica perché non c’è quell’allegria, quel clima di festa che le avevamo annunciato, perché non ci sono amici e parenti che vengono a trovarci, a portare regali, ma c’è solo un’aria pesante, muta, immobile.
E così comincia, questa mia vita con te, cancellando… accettando…il tuo essere così. Questa vita tutta da inventare. Questo bambino da imparare ad amare. Ma come sei? Cosa provi? Cosa c’è in te di così diverso rispetto agli altri? Io non riesco a vederlo. Come sarai?
Allora inizio a leggere, a studiare la Sindrome di Down. Per capire, per imparare ad accettare quella parte sconosciuta di te che forse in fondo ancora non riesco a mandar giù.
Tu così diverso. Tu così uguale. Tu così normale.
A fatica piano piano comincio ad uscire. Vado in mezzo alla gente. Tu nel marsupio, sul cuore. La gente mi conosce e sa. Ma mi guarda come se non mi vedesse. Ti ignora come se tu non esistessi. Come se io fossi lì e avessi le braccia piene di vuoto. Ma nelle mie braccia ci sei TU.
Perché non ti guardano? Cosa fa paura in te bimbo mio? Che la gente scappa e fugge con gli occhi?
Mi domando se le mie braccia potranno stringerti e proteggerti sempre. Ma fino a quando?
Allora sono io che inizio a fermare chi vedo e a chiedergli se sa di te. Mi abbasso per mostrarti, per far nascere un sorriso, una carezza. E qualche volta ci riesco. Di fronte al mio coraggio i timori degli altri sembrano svanire. Sono felice. La sento quasi come una sfida. E comincia a piacermi. Siamo noi i più forti, sai. Ce la faremo, piccolino.
E poi quel giorno speciale in cui mi hai sorriso. Non sapevo. Non ci speravo. Temevo che non sarebbe successo. Dentro di me, un lago di gioia senza confini. Una felicità che mi ubriaca.
Ti voglio bene Roberto.
Ma quanti ostacoli e quante difficoltà, l’asilo nido, la scuola materna, i mille confronti quotidiani con gli altri bambini, ma soprattutto con le altre mamme. I loro sguardi, le loro occhiate di nascosto, quelle sì che bruciano, perché io le vedo comunque, come riesco a sentire i loro commenti pieni di compassione. Non la voglio, la loro compassione. Devo essere forte, per te.
E le tue conquiste, piccole piccole ma per me grandissime. Mi riscaldano dentro e mandano via il gelo di quelle occhiate, di quelle frasi feroci: “Il mio Giulio sa già vestirsi da solo”, “Letizia legge già dieci parole”.
E’ una sfida quotidiana con la normalità. Ma dove finisce la normalità e diventa diversità?
Ancora non capisco che devo avere rispetto di questa tua diversità. Devo lasciarti vivere i tuoi tempi, le tue lentezze senza fine, devo lasciarti giocare respirare vivere con i tuoi ritmi. Anche se sono così diversi, e così lunghi. Ma chi ha detto che siano sbagliati?
Ancora non capisco che non devo metterti fretta. Non capisco che volerti bene significa accettarti come sei, con le tue mille diversità, con la tua normalità speciale.
Finché il confronto con gli altri bambini mi farà male, finché piangerò ogni volta che non sai fare qualcosa, finché misurerò il divario, sempre più grande, fra ciò che fai e ciò che “dovresti fare”, allora vuol dire che non ti voglio ancora veramente bene.
Tu cresci. Tua sorella come un faro nel tuo cammino, compagna di mille giochi, corse e risate, modello di ogni apprendimento. Il tuo amore assoluto per lei. Il suo amore assoluto per te.
E diventi sempre più Roberto, con la tua forza la tua caparbietà la tua ostinazione, ma anche con la tua dolcezza e la tua sensibilità. Uniche. Sei il primo ad accorgerti quando qualcosa non va, quando crollo e non ne posso più. Le tue “antenne emotive”, le chiamo. Vieni vicino e mi abbracci. Anche senza parlare riesci a consolare, tranquillizzare, far sorridere.
Il tuo cuore è sempre aperto. Sul tuo viso un sorriso stampato di luce come un sole. Regali tutto quello che hai. Dimentichi ovunque le tue cose. Per strada ti fermi e saluti ogni persona che incontri. Dici tutto quello che senti, nel bene e nel male. Senza sovrastrutture né bugie. Sei quella verità che ognuno di noi vorrebbe sempre poter dire, ma che per condizionamenti socio-culturali non può esprimere. Sei trasparente come un mattino terso d’inverno. Irruento come un’onda di mare.
Non sai dosare la forza dei tuoi abbracci, l’entusiasmo delle tue carezze, l’urgenza dei tuoi baci, il fragore delle tue risate, la spontaneità di certi tuoi comportamenti
Sei diverso? Me lo chiedo tantissime volte. E mi ripeto sempre la stessa domanda: ma dov’è il limite che separa la normalità dalla diversità?
E arriva Federico, un piccolo fratello che tu adori. E dopo tre anni, arriva anche Alessandro, che tu, a undici anni, sai custodire e curare con un amore infinito.
Sei bravo in atletica. Fortissimo in piscina. Vinci una gara dopo l’altra e sei convinto che sarà sempre così, che arriverai sempre primo. Ma non c’è rivalità in te. E quando vinci, sei quasi dispiaciuto per i tuoi amici.
A scuola fai fatica. Ma sai anche che nello sport sei molto più forte dei tuoi compagni. Lo sai, che possiedi abilità diverse. E piano piano sembri accettarlo.
Sei diventato un ragazzo grande ormai. La tua voglia di autonomia e di indipendenza mi spaventa, mi rattrista, mi chiude la gola. Come spiegarti che non potrai avere la patente, che non potrai guidare la moto? E quel momento arriva. E mi si stringe il cuore doverti dire che non puoi prendere il patentino per il motorino come tutti i tuoi amici, come i tuoi fratelli.
Le tue gare di nuoto ti portano in giro per il mondo, lontanissimo da noi, Taiwan, Portogallo, Messico. Sei nella nazionale italiana paralimpica. I tuoi trionfi ci portano medaglie gioia orgoglio.
I tuoi progetti, i tuoi sogni. Non posso soffocarli, non è giusto. Devo lasciarti lo spazio, almeno per sognare. Ma devo anche riportarti a terra. Non posso alimentare le tue illusioni, così lontane dalla realtà, perché ti farei ancora più male.
Provi sentimenti nuovi. Ti batte il cuore per le ragazze e soffri da morire. Con angoscia mi chiedo se la troverai mai, una ragazza, se riuscirai a vivere un amore e quanto ci starai male. Come vorrei poterti evitare dolori e delusioni.
Quanto tempo da quando eri quel batuffolo biondo in quel cesto di vimini.
Quanto tempo da quando ho imparato a fare i conti con la diversità, a lottare con gli altri perché riuscissero a capirla e piano piano a viverla nei suoi aspetti “normali”. Quanto tempo da quando i tuoi occhi a mandorla e il tuo modo goffo di parlare non mi fanno più male, da quando non mi fermo più a misurare quanta distanza c’è fra te e gli altri.
Tu mi hai fatto capire l’importanza di dare un valore diverso ad ogni cosa, anche alle più piccole. Mi hai insegnato ad apprezzare ogni conquista, anche con i suoi tempi infiniti, a sorridere anche solo davanti a una frase, a una carezza. Hai rivoluzionato le mie priorità.
E quanto ci manchi Roberto, quando non ci sei. E quanto spesso ci chiediamo come faremmo senza di te. Ci manca la tua euforia, la tua voglia di vivere, la tua sincerità che a volte disarma, ci mancano le tue risate per niente, i tuoi capricci, le tue prese di posizione irremovibili, le tue paure apparentemente immotivate, la tua felicità davanti ad ogni nuovo giorno.
Sei già un uomo ormai, hai trentasei anni, sei adulto, e questo è qualcosa che sottolinei sempre con forza. La tua barba da radere, i baffi che vuoi far crescere, il profumo in cui ti immergi, gli allenamenti in acqua, il cellulare sempre in tasca, tu perennemente connesso su Facebook, il lavoro in piscina, lo stipendio da riscuotere in banca, la ragazza che hai da sei anni.
Il mondo degli adulti ti accetterà? O resterai sempre un grande bambino per loro? Ce la farai a conquistarti un posto in questa società che va ogni giorno più in fretta, che sembra non avere più tempo neanche per sorridere, per emozionarsi, o semplicemente per vivere un affetto e una risata?
Questo mi dà angoscia. Vorrei poterti proteggere e difendere, sempre. Vorrei attutire tutte le tue delusioni, le frustrazioni, le sconfitte. Vorrei che nessuno ti facesse male. Ma so che non posso. Devi farcela da solo adesso.
Quanto tempo è passato. E quanto in fretta. A volte ancora mi ritorna, violento come un pugno nello stomaco, quel dolore così forte quando ho saputo di te, quel senso di perdita, quell’angoscia profonda che, inconsapevolmente, mi ero portata dentro per nove mesi.
Ma anche e comunque quella gioia immensa non appena sei uscito da me. Non la posso dimenticare. E forse in fondo in fondo quel primo sguardo fra me e te mi è rimasto dentro come un regalo prezioso, un tesoro immenso, che niente e nessuno ha mai potuto cancellare.
A volte mi domando se forse mi manca la realtà di Roberto non Down. Chissà, in un angolino di me forse è accucciata ancora l’ombra del desiderio che tutto fosse andato diversamente. Ti guardo vicino ai tuoi fratelli e vedo quella somiglianza fraterna che va al di là del cromosoma in più, quei tratti che sono geneticamente nostri, quelle sfumature che comunque vi accomunano, e che, a chi vi guarda, fa dire “sì, sono fratelli”.
Mi chiedo come sarebbe la mia vita senza di te. Senza di te così. Mi chiedo se ti vorrei più bene se tu fossi “normale”.
Ma poi guardo la tua speciale normalità, il tuo normale voler bene, guardo come sei, la tua serenità nel vivere, le tue conquiste quotidiane, tutto quello che riesci a fare, i rapporti che hai con il mondo, i traguardi che hai raggiunto, e mi dico che in fondo … va bene così.
Nessun commento:
Posta un commento