Mio nonno portava il tabarro
A Cesare Zavattini mio nonno Mario sarebbe
piaciuto.
Ne sono convinta. Per l’incarnazione di quel mondo
piccolo, padano, rurale e laborioso e per i valori forti di una terra
altrettanto forte che in lui si rispecchiavano: onestà, schiettezza e
determinazione.
Per
quel velo di malinconia, a metà tra rassegnata accettazione e disattese
speranze, che traspariva dai suoi occhi quando non scrutavano, ma guardavano languidi il giorno nascere e morire, nella perenne ed ineludibile ciclicità degli eventi.
Per
il senso della famiglia, quel legame di vita e sacrifici che ancora l’ esistenza dell’uomo alla continua, costante e generosa offerta di sé e di un amore sconfinato a difesa e protezione di un
ideale che si fa concreta entità nei figli, sangue del proprio sangue .
Per
il suo essere “uomo di fiume”, attratto dal placido scorrere delle acque del
Taro e del Po e dalle meraviglie che vi
poteva trovare, lui capace di dare tempo
al tempo nella paziente, serena e
fiduciosa attesa che un pesce abboccasse
al suo amo. E se il bottino era magro, mai una lamentela o un’imprecazione,
nella fatalista accettazione della vita e delle sue innumerevoli sfumature.
Per
il suo essere “uomo del freddo”. Il regista l’avrebbe sicuramente ripreso nelle
sere invernali, in quelle impregnate di nebbia fitta e densa dove solo
l’immaginazione ed il coraggio sono di sostegno nel cammino, mentre procedeva a fatica, data la mole, in sella alla sua
bicicletta lungo le strade che conosceva
da una vita e si spostava verso il ciglio al passaggio di qualche auto. Una decisa
sterzata e riprendeva il controllo del mezzo, con le gambe aperte a dare un possibile equilibrio, mentre i
lembi svolazzanti del tabarro e dei pantaloni di fustagno smuovevano l’aria.
Mio
nonno portava il tabarro ed anche questo aspetto lo rendeva figlio della sua
terra e del suo tempo. Ed anche per quell’indumento sarebbe piaciuto al
regista, ne sono altrettanto certa. Un mantello nero di tessuto pesante e ruvido con il collo in simil pelliccia, una
cappa lunga ed enorme che lo avvolgeva
in un tutt’uno, ammantandolo di
un’aura di mistero. Agli occhi miei, soprattutto.
Un
che di arcano aggravato da una specie di coppola e dalla pipa che fumava sempre dopo pranzo e
che amava tenere in bocca, anche se spenta.
“
Mi sembra il nonno “ sussurrai a mio padre una sera, indicandogli l’immagine di un brigante di fine Ottocento nel mio libro di
storia. Solo l’aspetto esteriore poteva indurre a qualche somiglianza; in realtà, un animo gentile
e semplice, dietro il cipiglio da
burbero e la seriosità dei modi. Ed i tanti non che lo contraddistinguevano.
Perché
mio nonno Mario non parlava troppo,
anzi dosava le parole che usava, soppesandone l’intenzione ed il tono, mentre
gli occhi, piccole fessure della stessa freddezza e consistenza del ghiaccio, imponevano e richiedevano
rispetto. Ma quelle poche erano di sostanza e di saggezza.
Non raccontava
storie, perché già la sua, quella della sua vita tribolata, bastava a riempire
un libro. Di aneddoti legati alla sua infanzia di miseria e fatica,
dell’esperienza di guerra in Albania, gettato allo sbaraglio insieme ai suoi
commilitoni a combattere in una terra
ostile contro nemici di pari dignità e,
una volta tornato, del duro lavoro nei campi.
E
non sorrideva nemmeno tanto perché
le vicende e le esperienze dolorose vissute, anche se ricoperte dalla polvere
del tempo, tornavano a bussare alla sua
memoria e a togliergli la serenità, ricordandogli l’estrema fragilità e precarietà della condizione umana.
Come le disgrazie che aveva
conosciuto: un figlio nato tetraplegico e la morte in giovane età della
figlia con già una prole numerosa.
La
prima, più che una disgrazia, una vergogna ed una condanna all’epoca, alla fine
degli anni ’30, quando un figlio malsano
e “sfortunato”, additato per ignoranza, andava nascosto agli occhi e alle maldicenze
altrui; quando le poche, anzi pochissime finanze non permettevano le cure
adeguate e l’inclusività era un concetto
ancora molto al di là da venire.
Per
quel figlio aveva ingoiato più di un rospo, lottato a testa china e cuore
gonfio ed insegnato ai più che l’amore, quello puro ed incondizionato, non
conosce disuguaglianze ed ostacoli. La seconda circostanza negativa, quella per
cui sembrava che il destino si fosse accanito di nuovo sulla sua famiglia,
l’aveva dapprima sprofondato nello sgomento e nello sconforto, poi indirizzato verso l’unica, vera strada da
seguire: il bene.
E
fu ciò che fece quando, d’accordo con la moglie, anche se ormai entrambi un po’
avanti con gli anni, decise di prendersi cura dell’ultima nata, un fagotto di
pochi mesi destinato all’orfanotrofio, come gli altri tre fratelli.
Un’assunzione
di responsabilità, un impegno gravoso,
ma forte e potente come il seme della vita della figlia che in quella nipotina continuava.
Ma
mio nonno non era solo semplicità,
concretezza e generosità. Era anche cocciutaggine alla stato puro.
Non si curava di sé, purtroppo, disdegnando i medici ed i
loro suggerimenti e sventagliando loro, come alla moglie, grandi orecchie da
mercante quando si trattava di salute. Di contenere il forte appetito ed il fumo non se ne parlava proprio.
Una fame “lupina”, quasi atavica, il retaggio, forse, di quella
che aveva patito a lungo. Così che nel caffelatte affogava più di una micca di pane, in molto burro varie uova, nel brodo un bicchiere di vino
rosso e negli intingoli, se molto unti e bisunti ancora meglio, se stesso. E le
sue porzioni, raccomandava alla moglie, dovevano
sempre tracimare dal piatto. In nome, certamente, di quell’abbondanza agognata
per anni.
Poi
con calma e cura spazzolava piatti e
posate fino a farli brillare, mentre mia
nonna, a testa leggermente china ed in ossequioso silenzio, osservava
da sotto le lunghe ciglia quel rito quotidiano compiersi. Ed aspettava, rassegnata, il segnale di fine pasto, quel “rutto”
liberatorio che mio nonno esalava portandosi una mano alla bocca per
tamponare, in parte e con scarso successo, la sonora emissione e l’altra
sulla pancia piena, dove i bottoni della
camicia, già in tensione, lasciavano intravedere asole assai slabbrate e piccoli lembi di pelle.
“Ma
Mario, insomma!”, tuonava immancabilmente mia nonna quando il fragore andava
oltre il consentito.
“Tutta
sanità”, replicava lui tranquillo e soddisfatto, mentre mi faceva l’occhiolino ed allargava i palmi
delle mani come a giustificarsi. Forse uno dei rari momenti in cui un sorriso
si disegnava sul suo volto.
Allora
io mi facevo piccola, piccola, abbassavo la testa verso il piatto e tentavo con
la mano di trattenere quella risata che, ingabbiata in gola per pudore, cercava
finalmente un degno sfogo. Poi l’incrocio complice di sguardi fra noi tre era
fatale perché io mi sciogliessi in una grassa, sonora espressione d’ilarità.
Dal
fumo aveva una vera e propria dipendenza; che si trattasse di sigarette, sigari e tabacco per la pipa non
faceva alcuna differenza. Le tasche dei pantaloni, delle camicie e del
panciotto traboccavano, infatti, di mozziconi di sigarette e filamenti di tabacco sminuzzati.
E frammenti si trovavano disseminati un po’ ovunque, in ogni stanza, tanto che
la casa ormai trasudava di un profumo dolciastro e pungente; a volte,
specialmente nelle giornate gravate da
una stringente cappa d’umidità,
addirittura nauseante.
Un
aroma che era diventato elemento
imprescindibile della sua personalità, una scia odorosa che lo
preannunciava a distanza o testimoniava un suo precedente passaggio. Un vizio che,come spesso ripeteva,
l’accompagnava sin da ragazzo, quando con gli amici “poveri in canna” come lui,
avvolgeva
gli scarti delle foglie di tabacco che trovava nei campi in sottili veline, per poi fumarle di nascosto a pieni polmoni e con il gusto del
proibito tra le narici. Per poi ritrovarsi piegato in due a tossicchiare e a sputacchiare
l’imprudenza, mentre gli occhi lacrimavano l’inesperienza.
I
segnali dell’accanito fumatore mio nonno li aveva tutti e li portava con la fierezza
del tempo vissuto e con una certa noncuranza: da quella macchia giallastra
tendente al marrone che gli ricopriva i denti e le parti interne delle labbra, all’ispessimento
della cute dell’indice e del medio della mano destra, nonchè ai
baffi fitti ed ispidi spruzzati delle varie sfumature di ocra.
Ed
a quei baffi pungenti che mi sfioravano la guancia ancora oggi torno
con la memoria, a quei dolci rimandi di rari
momenti d’intimità con lui. Capitava a trovare mio padre nella sua officina nel
primo pomeriggio e, seduto su una panca,
osservava per ore e in silenzio, ma
con gli occhi che risplendevano di sano orgoglio paterno e di rivalsa
nei confronti di una vita che non era stata certo prodiga con lui, l’attività del figlio. Poi, sul calar della
sera, dopo un lieve commiato espresso con una mano a sferzare l’aria, inforcava
la bicicletta verso casa.
Ed
io non aspettavo altro che quel momento.
“Nonno,
mi porti con te?” gli chiedevo, strattonandogli i pantaloni.
Forse
se lo aspettava. Anzi, senza dubbio. Un cenno d’assenso, poi allungava le sue braccia poderose, mi
sollevava da terra con facilità e mi posizionava sulla canna della bicicletta.
La ricerca dell’equilibrio richiedeva qualche secondo d’assestamento fra
dondolii e sterzate della ruota anteriore.
“Metti
le mani sul manubrio, qui”, suggeriva le
prime volte mostrandomi la giusta posizione e sovrastandomi con il suo capo.
Poi con una leggera spinta s’immetteva in strada.
Una
zaffata di tabacco m’investiva stordendomi un poco, mentre i suoi baffetti mi
solleticavano il volto facendomi sorridere. Lungo il percorso me ne stavo
incuneata sotto il suo torace a godere di
quel guscio protettivo, in quel porto sicuro.
Ne
sono certa. Zavattini ci avrebbe ripreso al tramonto, d’Estate, quando il
giorno, ormai stanco cede il passo alle sera
che un po’ sbarazzina avanza, sgomitando
fra le luci smerigliate che s’attardano a morire. E si sarebbe soffermato sui nostri visi per
cogliere quell’intesa fra di noi, silenziosa, ma tenace e tutta la
carica affettiva che nascondeva.
Elisa
Marchinetti di Noceto (Parma)
Pseudonimo: Ely
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