Cherso,
mia patria
Era
di maggio, tempo di barbarie.
La
falce della guerra si abbatteva
su
gente senza colpa, tranne quella
di
frequentare un idioma sgradito.
Era
di maggio, e il padre a dorso nudo,
lo
sguardo opaco senza il pince-nez,
segnato
a sangue dalle mani ostili
e
sommerso dall’odio si smarriva
nel
buio di un andar senza ritorno.
Di
lui ci resta una fotografia
e
ricordi da bimbi, e il suo sorriso
se
ci osservava cavalcare il mulo
e
i giorni della festa, quando ognuno
in
famiglia scioglieva la sua gioia.
Niente
più. Poi la fuga nella notte
sul
bragozzo per Pola, ed era maggio
quando
crollava un mondo e salutavo
l’isola
patria per l’ultima volta
e
gli affetti infantili frantumati.
E
solo nei frammenti
della
memoria rivivo quei giorni
e
mi sovviene il sapore mielato
degli
acini dorati sotto il sole,
i
fichi dolci reclini sul ramo
e
l’aroma di salvia e rosmarino.
Era
di maggio, quando mi han rubato
il
futuro possibile e la casa,
la
cisterna del tempo di Colombo,
la
nonna che affacciata alla finestra
mi
sorrideva dolce, il giardinetto
della
magnolia dalle foglie lucide
e
i pesci rossi nella vasca tonda.
E’
lontana nel tempo e nello spazio
quest’isola,
che torna alla memoria
quando
accarezzo l’onda leggera
e
ripenso alla tenue trasparenza
del
mare che ho lasciato, alla ghiaia
di
lucido calcare levigato,
alle
reti approntate per la pesca.
E
vedo ancora, con gli occhi d’allora,
i
muri a secco e gli ulivi d’argento
nutriti
dall’argilla, e nei recinti
pecore
in cerca di un cibo povero.
E
poi non vedo più, perchè si bagna
di
lacrime lo sguardo, e mi abbranca
l’animo
il desiderio del ritorno.
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