Ritratto ‘e femmena a’ fenesta
La finestra
è serrata, chiusa, nessuno in giro. Curiuso!
Come ogni
mattina, mi ero alzato presto per preparare ad arte ‘na tazzulella ‘e cafè e
darmi una prima poderosa strigliata, seguita dai gesti di rito che accompagnano
il risveglio e subito dopo via, per chiudere in bellezza da Ciro ‘o zuccariello
con l’irrinunciabile sfogliatella, rigorosamente quella riccia come vuole la
tradizione.
Infine, di
corsa ‘ncoppa o’ motorino verso il travaglio quotidiano sfidando traffico e i
clacson, che in questa città non suonano come altrove a mo’ di rimprovero, di
sollecito a togliersi di mezzo, ma sono soprattutto messaggi per richiamare
l’attenzione su una presenza: ci stongo pur’io, statte accort!
Prima di
ogni altra cosa era d’obbligo una capatina veloce sotto la finestra di donna
Filumena.
Per
arrivarci occorreva attraversare l’androne di un palazzo in via Foria, e dopo
essere passato indenne dal controllo del guardiano, salire una mezza rampa di
scale, l’ascensore c’era, ma per pura bellezza, e attraversare un corridoio con
il soffitto a volta per ritrovarsi in un giardino interno: nu muorz’ e’ Paravis’
e di silenzio, lontano dal vociare di strada e dal traffico, un tappeto d’erba
sempre ben curata con amaca, piante, fiori, sedie e tavolini dove poter
sorseggiare un caffè se la giornata era buona e stare senza pensieri almeno per
un po’. I muri bianchissimi aumentavano la luminosità di quel teatro a cielo
aperto, dove gli attori sembravano muoversi al rallentatore e sfumare in una
nebbiolina irreale, come in un sogno dove il tempo diventa pura astrazione, un
mero accessorio.
Su questa
oasi di pace si affacciava lei, taciturna, lenta e precisa nei pochi movimenti
che si concedeva con molta parsimonia. Sembrava un ritratto a mezzo busto su un
fondale scuro.
Donna
Filumena con il suo fare discreto, le sue rivelazioni, aveva inconsapevolmente
stimolato il nascere di nuove professioni, nate certamente non per arricchire
le tasche, ma l’anema.
Il
guardiano, che in origine era uno dei tanti proprietari di un appartamento nel
palazzo, pensionato ma facente funzione, controllava l’ingresso. Poi d’un
tratto si era votato mente e corpo alla nuova occupazione, con il consenso
degli altri condomini che tolleravano pazientemente il cambio di ruolo,
sperando in qualche piccolo favoritismo nelle code di attesa.
Il suo
compito consisteva nel disciplinare il flusso quasi ininterrotto di persone in
visita e far osservare un minimo di riservatezza nei colloqui privati,
trattenendo a debita distanza i questuanti.
Col tempo,
la grande affluenza di visitatori aveva imposto naturalmente che il portone
sulla strada rimanesse aperto da mattina presto a tarda sera.
Sul pianerottolo
qualche sedia in plastica spartana, frutto della sopraffina arte di arrangiarsi
del popolo napoletano, consentiva una sosta più confortevole agli astanti.
Nell’attesa
era severamente vietato fumare.
Serbo ancora
con tenerezza il ricordo di una donna riccamente impellicciata, dal portamento
severo e aristocratico, coperta d’oro comme ‘na Maronna, che si misurò con
questa proibizione condivisa, ma non detta: ci provò mettendosi in un angolo
tra la muta disapprovazione dei presenti.
Sigaretta in
una mano e accendino nell’altra.
Si guardò
attorno, poi rassegnata ripose tutto in buon ordine nella borsa e bofonchiò «Nun
è cosa.»
In
quell’ordinatissimo caos vigeva un’altra regola non espressa, ma accettata da
tutti, per cui fino ad una certa ora della mattina non veniva rispettato
l’ordine di arrivo: la precedenza veniva concessa con equità a chi tenev’
pressa e doveva correre al lavoro.
Gli altri,
pensionati e disoccupati o mal occupati, arrivavano comunque presto per
scambiare qualche chiacchiera nell’attesa.
In cerca di
notizie, mi affacciai all’ingresso del B&B, al bancone i due giovani
conduttori parlottavano a bassa voce, il giardino delle meraviglie era di loro
pertinenza.
«Dove sono
finiti tutti quanti?»
«Come, nun
‘o sapit’?. Nisciuno vi ha ditt’ niente?»
«E che è
stato?»
«Donna
Filumena se ne è iuta!»
«Iuta? E
addo’ se ne è iuta?»
«Se n’è iuta
da ’o Padreterno. L’hanno trovata alla finestra, senza vita. Se ne è accorto
uno dei suoi visitatori abituali perché incurante ad ogni richiamo, non
rispondeva. Sembrava assente.»
A questo
punto è doverosa una spiegazione.
Donna
Filumena era la reincarnazione della Sibilla cumana con la variante antica e
moderna del silenzio.
Nessuno si
ricordava di averla mai sentita parlare, né il suo tono di voce.
Rispondeva
con semplici cenni della mano e con il movimento della testa.
Il suo era
un “sì” o un “no” ad una e una sola domanda al giorno per persona, come una
medicina da assumere una sola volta prima o dopo i pasti.
Lei non si
sbagliava e pochi avevano provato ad ingannarla, del resto inutilmente.
Quanto più
la domanda era ben formulata, tanto più la risposta lapidaria era precisa.
L’assenza di
risposta non doveva essere fraintesa come mancanza di cortesia, ma
semplicemente come non possibile, perché l’interrogazione non poteva ammettere
esiti diversi dai due soli consentiti. In questo era una moderna, inconsapevole
antesignana del linguaggio binario.
Era nato
tutto per caso, quasi per scherzo, quando un abitante del palazzo le aveva
rivolto la parola per togliersi la curiosità di sapere perché mai trascorresse
tanto tempo immobile alla finestra.
Lei non
rispose e non lo degnò nemmeno di uno sguardo sfuggente.
«Maronna mia
quanto site scuntrusa.»
Ritornò
all’attacco nei giorni successivi andando nel giardino con il fermo proposito
di affrontarla, per ottenere soddisfazione alla sua curiosità.
Lei non
batté ciglio fino al giorno in cui il cocciuto provocatore le rivolse quasi per
caso una domanda che lo riguardava personalmente, ma stavolta nel modo
corretto.
Ricevette in
risposta un gesto di assenso.
In ufficio
si ricordò della donna alla finestra e si comportò come gli era stato
laconicamente indicato.
Di fronte al
dubbio, nell’incertezza di come comportarsi seguì il consiglio e si trovò bene.
Così fece
anche nei giorni successivi con identico risultato.
La fama di
questa donna profetica si diffuse velocemente dal palazzo al quartiere, alla
città e così ebbe inizio la leggenda.
Donna
Filumena o semplicemente Filù non si scomponeva, mai.
Il nome le
era stato affibbiato da un cliente che così l’aveva battezzata di sua
iniziativa e la cosa incontrò subito il favore di tutti.
Nessuno,
stranamente, aveva mai chiesto a lei o ai parenti quale fosse il suo nome vero,
per discrezione, per la pigrizia di tentare con combinazioni di nomi a cui
avrebbe risposto nel solito modo fino a che qualcuno avesse azzeccato quello
giusto.
Stava alla
finestra che le faceva da cornice, immobile, consapevole della sua missione e
quando concedeva i suoi oracoli rammentava molto la Gioconda nella posa delle
braccia, nello sguardo enigmatico, meno sorridente ma ugualmente ironico;
l’ironia di chi sa di sapere senza farne un inutile sfoggio. Nessuno l’aveva sentita
proferire parola, dare un minimo di confidenza e su questo aspetto le ipotesi
si disperdevano in mille rivoli: forse era muta dalla nascita e pareggiava quel
debito che madre natura aveva contratto con lei vedendo chiaro nel futuro di
tutti, forse lo era diventata per uno spavento o per scelta.
Nessuno
aveva un ricordo certo di quando Filù fosse comparsa a quella finestra.
C’era chi
giurava su quanto avesse di più caro che era lì già negli anni dei
bombardamenti degli alleati e che la casa fosse stata risparmiata grazie a lei.
Si era sempre rifiutata di muoversi dal suo posto ogni volta che risuonava
l’allarme aereo, mentre tutti gli altri si precipitavano nei rifugi e per
questo doveva esserci una buona ragione: lei sapeva che la casa non sarebbe stata
colpita.
Il
“professore” che abitava due piani sopra di lei aveva avuto il suo bel daffare
per convincere quegli sprovveduti che era questione di pura probabilità, ma
questo gli era valso un progressivo isolamento e una serie di battutine salaci
ogni volta che andava e tornava dal suo appartamento, bollato dalla fama di
eretico e miscredente.
Tra i
frequentatori affezionati ed uno dei più acerrimi oppositori del “professore”,
c’era addirittura un immigrato dal nord che col tempo aveva assunto aspetto e
abitudini che lo rendevano indistinguibile da un partenopeo verace, se non
quando apriva bocca per citare una sua massima, raccogliendo consensi più per
solidarietà che per convinzione: «Chesta città nun ammett’ vie e’ miez’ o l’ami
o l’odi.»
Così diceva raccogliendo
il consenso tacito e cortese dei presenti ormai rassegnati, tolleranti della
sua pedanteria, ma anche gradevolmente meravigliati del suo indomito desiderio
di sentirsi parte della loro città, città aperta e mai esclusiva.
Su questo
variegato panorama di vite e culture tanto diverse, lei vegliava silenziosa;
affacciata a quella finestra dormiva con la guancia appoggiata al palmo aperto
della mano, lì consumava pasti frugali, lì stava con il caldo, con il freddo,
con il sole e con la pioggia, anche nelle feste comandate.
Ora invece
non c’era più, gettando tutti nello sconforto.
Sapevamo
tutti dov’era sepolta, nonostante le esequie fossero state celebrate in forma
privatissima. Malgrado la malcelata riluttanza dei familiari, sulla lapide era
stata appiccicata una fotografia scattata di soppiatto, ma così reale che
sembrava parlasse.
Era proprio
lei e il mito di Filumena la veggente poté continuare indisturbato.
La gente non
smise di andare a trovarla al cimitero di Poggioreale per porle i propri omaggi
e sottoporle quesiti e così anch’io, quando potevo andarci nel rispetto degli
orari di aperura.
Circolavano
voci che fossero in corso trattative più o meno ufficiali con i custodi, che
per motivi di forza maggiore avrebbero potuto averla vinta sulla rigidità del
regolamento.
Alla domanda
precisa rivolta alla nostra Sibilla, i presenti giuravano di aver visto l’immagine
di Filù chinare il capo in avanti, segno di un deciso, inequivocabile e
accorato “sì”.
Giuseppe Raineri
(Irneari) di Bergamo
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