venerdì 30 luglio 2021

Festeggiamenti a Mellana: non solo Concorso ed esposizione...

Qualcosa si è fatto, insomma, per la «festa di Mellana», a luglio di questo 2021, con tutte le precauzioni possibili, pur in questo scenario ancora «pandemico», tra «vaccini» (che limitano ricoveri e terapie intensive), nuove «varianti» del virus (decisamente «contagiose», il profilarsi della «quarta ondata»)... Non ci si è limitati al «Concorso Parole ed Immagini», esposizione (ancora aperta su prenotazione sin a fine agosto, telefono 340.3761714) e premiazione, del resto capace di coinvolgere ed interessare più i «forestieri» che i «locali», da sempre...

Partecipati sono stati i «momenti religiosi» della Parrocchia, culminati con la Messa solenne di domenica mattina 18... Don Beppe Laugero, sempre convinto che la sola salvezza possibile passi per la fede in Dio e nella Madonna (tanto da non capire come vi possa essere qualcuno che non si fa coinvolgere), che la sua chiesa (e la Chiesa istituzionalmente intesa) possa accogliere tutti (se non fisicamente almeno spiritualmente), ha terminato la Cerimonia come l’anno scorso, non con processione ma con momento sul sagrato, vicino alla statua della «Vergine dei Raggi»...

Per la parte «conviviale e gastronomica», neppure trascurata l’anno scorso, curando prenotazioni e «distanziamenti», si è, ancora, «tornati all’antico», alla «Osteria», dove la «festa» è partita (ripartita), negli anni Ottanta, prima che la portasse avanti la «Pro Giovani», poi diventata «Comitato Frazionale» ed, infine, «Circolo» (ACLI)... Allora ad organizzare era «l’oste», Stefano «Nino» Cavallo... Ora sono i suoi «eredi»: il giovane mellanese Marco Dalmasso («Capural») e la moglie Arianna (appena diventati «genitori»)... Con «posti limitati» (molti di più di quelle possibili son state, ogni sera, le «prenotazioni» richieste), in spazi ampi all’aperto, nei «giochi delle bocce», quest’anno anche con «copertura», si son serviti risotto ai funghi e porchetta, sabato 17, cena completa «piemontese» (dagli antipasti al «brasato» ed alle «pesche ripiene»), domenica 18, e «polentata», lunedì 19...  Particolarmente «festa di Comunità», per «mellanesi», pur con molti «forestieri» è stata l’ultima serata, con ad assistere l’oste tutta la sua famiglia, genitori in testa. Se, negli anni Ottanta, «Nino» era riuscito a far arrivare a Mellana persino la cantante emiliana di fama nazionale Orietta Berti, oltre a gruppo allora «di grido», «I Langaroli», «di casa» in emittente televisiva locale, stavolta «Marco» ha invitato la «Mezz’ora Canonica», spettacolo comico della scuola «Trelilu», il giovane «Newton Duo», i «Boogia Boogia»...

http://festeggiamentimellana.blogspot.it/

 








sabato 24 luglio 2021

Mio nonno portava il tabarro, prosa vincitrice 2021, di Elisa Marchinetti, Ely, di Noceto (Parma)

Mio nonno portava il tabarro

A  Cesare Zavattini mio nonno Mario sarebbe piaciuto.

 Ne sono convinta. Per l’incarnazione di quel mondo piccolo, padano, rurale e laborioso e per i valori forti di una terra altrettanto forte che in lui si rispecchiavano: onestà, schiettezza e determinazione.

Per quel velo di malinconia, a metà tra rassegnata accettazione e disattese speranze, che traspariva dai  suoi occhi  quando non scrutavano,  ma guardavano languidi  il giorno nascere e morire, nella  perenne  ed ineludibile ciclicità degli eventi.

Per il senso della famiglia, quel legame di vita e sacrifici  che ancora l’ esistenza  dell’uomo alla  continua, costante e generosa  offerta di sé e di un  amore sconfinato a difesa e protezione di un ideale che si fa concreta entità nei figli, sangue del proprio sangue .

Per il suo essere “uomo di fiume”, attratto dal placido scorrere delle acque del Taro e del Po  e dalle meraviglie che vi poteva trovare, lui  capace di dare tempo al tempo  nella paziente, serena e fiduciosa  attesa che un pesce abboccasse al suo amo. E se il bottino era magro, mai una lamentela o un’imprecazione, nella fatalista accettazione della vita e delle sue  innumerevoli sfumature.

Per il suo essere “uomo del freddo”. Il regista l’avrebbe sicuramente ripreso nelle sere invernali, in quelle impregnate di nebbia fitta e densa dove solo l’immaginazione ed il coraggio sono di sostegno nel cammino, mentre procedeva  a fatica, data la mole, in sella alla sua bicicletta  lungo le strade che conosceva da una vita e  si spostava verso  il ciglio  al passaggio di qualche auto. Una decisa sterzata e riprendeva il controllo del mezzo, con  le gambe aperte  a dare un possibile equilibrio, mentre i lembi svolazzanti del tabarro e dei pantaloni  di fustagno  smuovevano l’aria.

Mio nonno portava il tabarro ed anche questo aspetto lo rendeva figlio della sua terra e del suo tempo. Ed anche per quell’indumento sarebbe piaciuto al regista, ne sono altrettanto certa. Un mantello nero di tessuto pesante  e ruvido con il collo in simil pelliccia, una cappa lunga ed enorme  che  lo avvolgeva  in un tutt’uno,  ammantandolo di un’aura di mistero. Agli occhi miei, soprattutto.

Un che di arcano aggravato da una specie di coppola  e dalla pipa che fumava sempre dopo pranzo e che amava tenere in bocca, anche se spenta.

“ Mi sembra il nonno “ sussurrai a mio padre una sera,  indicandogli l’immagine  di un  brigante di fine Ottocento nel mio libro di storia. Solo l’aspetto esteriore poteva  indurre a qualche somiglianza;  in realtà, un animo  gentile  e semplice,  dietro il cipiglio da burbero e la seriosità dei modi. Ed i tanti non che lo contraddistinguevano.

Perché mio nonno Mario non parlava troppo, anzi dosava le parole che usava,  soppesandone l’intenzione ed il tono, mentre gli occhi, piccole fessure della stessa freddezza e consistenza  del ghiaccio, imponevano e  richiedevano  rispetto.  Ma quelle poche  erano di sostanza e di saggezza.

Non raccontava storie, perché già la sua, quella della sua vita tribolata, bastava a riempire un libro. Di aneddoti legati alla sua infanzia di miseria e fatica, dell’esperienza di guerra in Albania, gettato allo sbaraglio insieme ai suoi commilitoni  a combattere in una terra ostile  contro nemici di pari dignità e, una volta tornato, del duro lavoro nei campi.

 

 

 

 

E non sorrideva nemmeno tanto perché le vicende e le esperienze dolorose vissute, anche se ricoperte dalla polvere del tempo,  tornavano a bussare alla sua memoria  e a togliergli la serenità,  ricordandogli l’estrema fragilità  e precarietà della condizione umana.

Come  le disgrazie che  aveva  conosciuto: un figlio nato tetraplegico e la morte in giovane età della figlia con già una prole numerosa.

La prima, più che una disgrazia, una vergogna ed una condanna all’epoca, alla fine  degli anni ’30, quando un figlio malsano e “sfortunato”, additato  per ignoranza,  andava nascosto agli occhi e alle maldicenze altrui; quando le poche, anzi pochissime finanze non permettevano le cure adeguate e  l’inclusività era un concetto ancora molto al di là da  venire.

Per quel figlio aveva ingoiato più di un rospo, lottato a testa china e cuore gonfio ed insegnato ai più che l’amore, quello puro ed incondizionato, non conosce disuguaglianze ed ostacoli. La seconda circostanza negativa, quella per cui sembrava che il destino si fosse accanito di nuovo sulla sua famiglia, l’aveva dapprima sprofondato nello sgomento e nello sconforto, poi  indirizzato verso l’unica, vera strada da seguire: il bene.

E fu ciò che fece quando, d’accordo con la moglie, anche se ormai entrambi un po’ avanti con gli anni, decise di prendersi cura dell’ultima nata, un fagotto di pochi mesi destinato all’orfanotrofio, come gli altri tre fratelli.

Un’assunzione di responsabilità, un impegno  gravoso, ma forte e potente come il seme della vita della figlia  che in quella nipotina continuava.

Ma mio nonno non era solo semplicità, concretezza e generosità. Era anche cocciutaggine alla stato puro.  

Non si curava  di sé, purtroppo, disdegnando i medici ed i loro suggerimenti e sventagliando loro, come alla moglie, grandi orecchie da mercante quando si trattava di salute. Di contenere il forte  appetito ed il fumo non se ne parlava proprio. Una fame “lupina”, quasi atavica, il  retaggio, forse,  di  quella  che  aveva patito a lungo. Così che  nel caffelatte affogava  più di una micca di pane, in  molto burro  varie uova, nel brodo un bicchiere di vino rosso e negli intingoli, se molto unti e bisunti ancora meglio, se stesso. E le sue  porzioni, raccomandava alla moglie, dovevano sempre tracimare dal piatto. In nome, certamente, di quell’abbondanza agognata per anni.

Poi con calma e cura  spazzolava piatti e posate fino a farli brillare, mentre  mia nonna, a testa leggermente china ed in ossequioso silenzio,  osservava  da sotto le lunghe ciglia quel rito quotidiano  compiersi. Ed aspettava,  rassegnata, il segnale di fine pasto, quel “rutto”  liberatorio che mio nonno  esalava portandosi una mano alla bocca per tamponare, in parte e con scarso successo, la sonora emissione e l’altra sulla  pancia piena, dove i bottoni della camicia, già in tensione, lasciavano intravedere asole assai slabbrate  e piccoli lembi di pelle.

“Ma Mario, insomma!”, tuonava immancabilmente mia nonna quando il fragore andava oltre il consentito.

“Tutta sanità”, replicava lui tranquillo e soddisfatto,  mentre  mi faceva l’occhiolino ed allargava i palmi delle mani come a giustificarsi. Forse uno dei rari momenti in cui un sorriso si disegnava sul suo volto.

Allora io mi facevo piccola, piccola, abbassavo la testa verso il piatto e tentavo con la mano di trattenere quella risata che, ingabbiata in gola per pudore, cercava finalmente un degno sfogo. Poi l’incrocio complice di sguardi fra noi tre era fatale perché io mi sciogliessi in una grassa, sonora espressione d’ilarità.

Dal fumo aveva una vera e propria dipendenza; che si trattasse di  sigarette, sigari e tabacco per la pipa non faceva alcuna differenza. Le tasche dei pantaloni, delle camicie e del panciotto  traboccavano, infatti,  di mozziconi di sigarette e  filamenti di tabacco sminuzzati.

 

 

 

 

 E frammenti si trovavano   disseminati un po’ ovunque, in ogni stanza,  tanto che  la casa  ormai  trasudava di  un profumo dolciastro e pungente; a volte, specialmente nelle giornate  gravate da una stringente  cappa d’umidità, addirittura  nauseante.

Un aroma che  era diventato elemento imprescindibile della sua personalità, una scia odorosa  che  lo preannunciava a distanza o testimoniava un suo precedente  passaggio. Un vizio che,come spesso ripeteva, l’accompagnava sin da ragazzo, quando con gli amici “poveri in canna” come lui,

avvolgeva gli scarti delle foglie di tabacco che trovava nei campi in sottili veline,  per poi fumarle  di nascosto a pieni polmoni e con il gusto del proibito tra le narici. Per poi ritrovarsi piegato in due a tossicchiare e a sputacchiare l’imprudenza, mentre gli occhi lacrimavano l’inesperienza.

I segnali dell’accanito fumatore mio nonno  li aveva tutti e li portava con la fierezza del tempo vissuto e con una certa noncuranza: da quella macchia giallastra tendente al marrone che gli ricopriva i denti e le parti interne delle labbra, all’ispessimento della cute  dell’indice e del  medio della mano destra, nonchè  ai  baffi fitti ed ispidi spruzzati delle varie sfumature di ocra.

Ed a quei baffi pungenti  che  mi sfioravano la guancia ancora oggi torno con la memoria, a quei dolci rimandi  di rari momenti d’intimità con lui. Capitava a trovare mio padre nella sua officina nel primo pomeriggio e, seduto su una panca,  osservava per ore e in silenzio, ma  con gli occhi che risplendevano di sano orgoglio paterno e di rivalsa nei confronti di una vita che non era stata certo prodiga con lui,  l’attività del figlio. Poi, sul calar della sera, dopo un lieve commiato espresso con una mano a sferzare l’aria, inforcava la bicicletta verso casa.

Ed io non aspettavo altro  che quel momento.

“Nonno, mi porti con te?” gli chiedevo, strattonandogli i pantaloni.

Forse se lo aspettava. Anzi, senza dubbio. Un cenno d’assenso, poi  allungava le sue braccia poderose, mi sollevava da terra con facilità e mi posizionava sulla canna della bicicletta. La ricerca dell’equilibrio richiedeva qualche secondo d’assestamento fra dondolii e sterzate della ruota anteriore.

“Metti le mani sul manubrio, qui”, suggeriva  le prime volte mostrandomi la giusta posizione e sovrastandomi con il suo capo. Poi con una leggera spinta s’immetteva in strada.

Una zaffata di tabacco m’investiva stordendomi un poco, mentre i suoi baffetti mi solleticavano il volto facendomi sorridere. Lungo il percorso me ne stavo incuneata sotto il suo torace a godere di   quel guscio protettivo, in quel porto sicuro.

Ne sono certa. Zavattini ci avrebbe ripreso al tramonto, d’Estate, quando il giorno, ormai stanco  cede il passo alle sera che un po’ sbarazzina  avanza, sgomitando fra le luci smerigliate che s’attardano a morire.  E si sarebbe soffermato sui nostri visi per cogliere quell’intesa fra di noi, silenziosa, ma tenace e tutta  la  carica affettiva che  nascondeva.

 

Elisa Marchinetti di Noceto (Parma)

Pseudonimo: Ely

Ritratto ‘e femmena a’ fenesta - Giuseppe Raineri (Irneari) di Bergamo - Segnalato

 

Ritratto ‘e femmena a’ fenesta

La finestra è serrata, chiusa, nessuno in giro. Curiuso!

Come ogni mattina, mi ero alzato presto per preparare ad arte ‘na tazzulella ‘e cafè e darmi una prima poderosa strigliata, seguita dai gesti di rito che accompagnano il risveglio e subito dopo via, per chiudere in bellezza da Ciro ‘o zuccariello con l’irrinunciabile sfogliatella, rigorosamente quella riccia come vuole la tradizione.

Infine, di corsa ‘ncoppa o’ motorino verso il travaglio quotidiano sfidando traffico e i clacson, che in questa città non suonano come altrove a mo’ di rimprovero, di sollecito a togliersi di mezzo, ma sono soprattutto messaggi per richiamare l’attenzione su una presenza: ci stongo pur’io, statte accort!

Prima di ogni altra cosa era d’obbligo una capatina veloce sotto la finestra di donna Filumena.

Per arrivarci occorreva attraversare l’androne di un palazzo in via Foria, e dopo essere passato indenne dal controllo del guardiano, salire una mezza rampa di scale, l’ascensore c’era, ma per pura bellezza, e attraversare un corridoio con il soffitto a volta per ritrovarsi in un giardino interno: nu muorz’ e’ Paravis’ e di silenzio, lontano dal vociare di strada e dal traffico, un tappeto d’erba sempre ben curata con amaca, piante, fiori, sedie e tavolini dove poter sorseggiare un caffè se la giornata era buona e stare senza pensieri almeno per un po’. I muri bianchissimi aumentavano la luminosità di quel teatro a cielo aperto, dove gli attori sembravano muoversi al rallentatore e sfumare in una nebbiolina irreale, come in un sogno dove il tempo diventa pura astrazione, un mero accessorio.

Su questa oasi di pace si affacciava lei, taciturna, lenta e precisa nei pochi movimenti che si concedeva con molta parsimonia. Sembrava un ritratto a mezzo busto su un fondale scuro.

Donna Filumena con il suo fare discreto, le sue rivelazioni, aveva inconsapevolmente stimolato il nascere di nuove professioni, nate certamente non per arricchire le tasche, ma l’anema.

Il guardiano, che in origine era uno dei tanti proprietari di un appartamento nel palazzo, pensionato ma facente funzione, controllava l’ingresso. Poi d’un tratto si era votato mente e corpo alla nuova occupazione, con il consenso degli altri condomini che tolleravano pazientemente il cambio di ruolo, sperando in qualche piccolo favoritismo nelle code di attesa.

Il suo compito consisteva nel disciplinare il flusso quasi ininterrotto di persone in visita e far osservare un minimo di riservatezza nei colloqui privati, trattenendo a debita distanza i questuanti.

Col tempo, la grande affluenza di visitatori aveva imposto naturalmente che il portone sulla strada rimanesse aperto da mattina presto a tarda sera.  

Sul pianerottolo qualche sedia in plastica spartana, frutto della sopraffina arte di arrangiarsi del popolo napoletano, consentiva una sosta più confortevole agli astanti.

Nell’attesa era severamente vietato fumare.

Serbo ancora con tenerezza il ricordo di una donna riccamente impellicciata, dal portamento severo e aristocratico, coperta d’oro comme ‘na Maronna, che si misurò con questa proibizione condivisa, ma non detta: ci provò mettendosi in un angolo tra la muta disapprovazione dei presenti.

Sigaretta in una mano e accendino nell’altra.

Si guardò attorno, poi rassegnata ripose tutto in buon ordine nella borsa e bofonchiò «Nun è cosa.»

In quell’ordinatissimo caos vigeva un’altra regola non espressa, ma accettata da tutti, per cui fino ad una certa ora della mattina non veniva rispettato l’ordine di arrivo: la precedenza veniva concessa con equità a chi tenev’ pressa e doveva correre al lavoro.

Gli altri, pensionati e disoccupati o mal occupati, arrivavano comunque presto per scambiare qualche chiacchiera nell’attesa.

In cerca di notizie, mi affacciai all’ingresso del B&B, al bancone i due giovani conduttori parlottavano a bassa voce, il giardino delle meraviglie era di loro pertinenza.

«Dove sono finiti tutti quanti?»

«Come, nun ‘o sapit’?. Nisciuno vi ha ditt’ niente?»

«E che è stato?»

«Donna Filumena se ne è iuta!»

«Iuta? E addo’ se ne è iuta?»

«Se n’è iuta da ’o Padreterno. L’hanno trovata alla finestra, senza vita. Se ne è accorto uno dei suoi visitatori abituali perché incurante ad ogni richiamo, non rispondeva. Sembrava assente.»

A questo punto è doverosa una spiegazione.

Donna Filumena era la reincarnazione della Sibilla cumana con la variante antica e moderna del silenzio.

Nessuno si ricordava di averla mai sentita parlare, né il suo tono di voce.

Rispondeva con semplici cenni della mano e con il movimento della testa.

Il suo era un “sì” o un “no” ad una e una sola domanda al giorno per persona, come una medicina da assumere una sola volta prima o dopo i pasti.

Lei non si sbagliava e pochi avevano provato ad ingannarla, del resto inutilmente.

Quanto più la domanda era ben formulata, tanto più la risposta lapidaria era precisa.

L’assenza di risposta non doveva essere fraintesa come mancanza di cortesia, ma semplicemente come non possibile, perché l’interrogazione non poteva ammettere esiti diversi dai due soli consentiti. In questo era una moderna, inconsapevole antesignana del linguaggio binario.

Era nato tutto per caso, quasi per scherzo, quando un abitante del palazzo le aveva rivolto la parola per togliersi la curiosità di sapere perché mai trascorresse tanto tempo immobile alla finestra.

Lei non rispose e non lo degnò nemmeno di uno sguardo sfuggente.

«Maronna mia quanto site scuntrusa.»

Ritornò all’attacco nei giorni successivi andando nel giardino con il fermo proposito di affrontarla, per ottenere soddisfazione alla sua curiosità.

Lei non batté ciglio fino al giorno in cui il cocciuto provocatore le rivolse quasi per caso una domanda che lo riguardava personalmente, ma stavolta nel modo corretto.

Ricevette in risposta un gesto di assenso.

In ufficio si ricordò della donna alla finestra e si comportò come gli era stato laconicamente indicato.

Di fronte al dubbio, nell’incertezza di come comportarsi seguì il consiglio e si trovò bene.

Così fece anche nei giorni successivi con identico risultato.

La fama di questa donna profetica si diffuse velocemente dal palazzo al quartiere, alla città e così ebbe inizio la leggenda.

Donna Filumena o semplicemente Filù non si scomponeva, mai.

Il nome le era stato affibbiato da un cliente che così l’aveva battezzata di sua iniziativa e la cosa incontrò subito il favore di tutti.

Nessuno, stranamente, aveva mai chiesto a lei o ai parenti quale fosse il suo nome vero, per discrezione, per la pigrizia di tentare con combinazioni di nomi a cui avrebbe risposto nel solito modo fino a che qualcuno avesse azzeccato quello giusto.

Stava alla finestra che le faceva da cornice, immobile, consapevole della sua missione e quando concedeva i suoi oracoli rammentava molto la Gioconda nella posa delle braccia, nello sguardo enigmatico, meno sorridente ma ugualmente ironico; l’ironia di chi sa di sapere senza farne un inutile sfoggio. Nessuno l’aveva sentita proferire parola, dare un minimo di confidenza e su questo aspetto le ipotesi si disperdevano in mille rivoli: forse era muta dalla nascita e pareggiava quel debito che madre natura aveva contratto con lei vedendo chiaro nel futuro di tutti, forse lo era diventata per uno spavento o per scelta.

Nessuno aveva un ricordo certo di quando Filù fosse comparsa a quella finestra.

C’era chi giurava su quanto avesse di più caro che era lì già negli anni dei bombardamenti degli alleati e che la casa fosse stata risparmiata grazie a lei. Si era sempre rifiutata di muoversi dal suo posto ogni volta che risuonava l’allarme aereo, mentre tutti gli altri si precipitavano nei rifugi e per questo doveva esserci una buona ragione: lei sapeva che la casa non sarebbe stata colpita.

Il “professore” che abitava due piani sopra di lei aveva avuto il suo bel daffare per convincere quegli sprovveduti che era questione di pura probabilità, ma questo gli era valso un progressivo isolamento e una serie di battutine salaci ogni volta che andava e tornava dal suo appartamento, bollato dalla fama di eretico e miscredente.

Tra i frequentatori affezionati ed uno dei più acerrimi oppositori del “professore”, c’era addirittura un immigrato dal nord che col tempo aveva assunto aspetto e abitudini che lo rendevano indistinguibile da un partenopeo verace, se non quando apriva bocca per citare una sua massima, raccogliendo consensi più per solidarietà che per convinzione: «Chesta città nun ammett’ vie e’ miez’ o l’ami o l’odi.»

Così diceva raccogliendo il consenso tacito e cortese dei presenti ormai rassegnati, tolleranti della sua pedanteria, ma anche gradevolmente meravigliati del suo indomito desiderio di sentirsi parte della loro città, città aperta e mai esclusiva.

Su questo variegato panorama di vite e culture tanto diverse, lei vegliava silenziosa; affacciata a quella finestra dormiva con la guancia appoggiata al palmo aperto della mano, lì consumava pasti frugali, lì stava con il caldo, con il freddo, con il sole e con la pioggia, anche nelle feste comandate.

Ora invece non c’era più, gettando tutti nello sconforto.

Sapevamo tutti dov’era sepolta, nonostante le esequie fossero state celebrate in forma privatissima. Malgrado la malcelata riluttanza dei familiari, sulla lapide era stata appiccicata una fotografia scattata di soppiatto, ma così reale che sembrava parlasse.

Era proprio lei e il mito di Filumena la veggente poté continuare indisturbato.

La gente non smise di andare a trovarla al cimitero di Poggioreale per porle i propri omaggi e sottoporle quesiti e così anch’io, quando potevo andarci nel rispetto degli orari di aperura.

Circolavano voci che fossero in corso trattative più o meno ufficiali con i custodi, che per motivi di forza maggiore avrebbero potuto averla vinta sulla rigidità del regolamento.

Alla domanda precisa rivolta alla nostra Sibilla, i presenti giuravano di aver visto l’immagine di Filù chinare il capo in avanti, segno di un deciso, inequivocabile e accorato “sì”.

 

Giuseppe Raineri (Irneari) di Bergamo

 

mercoledì 21 luglio 2021

Abruzzo, poesia terza classificata, di Massimiliano (Oliva) Bortolozzi, Santa Maria Capua Vetere (Caserta)

 Abruzzo

E' notte tutto trema,

trema il vento che sferza questa terra,

trema la mia vita in un attimo distrutta,

trema il mio cuore in un attimo di paura,

trema ogni goccia del mio sangue,

trema la voce di mia madre mentre urla,

mentre la vedo scomparire

tra le macerie della casa ,

che mi ha visto nascere,

ed ora l'ha vista morire,

trema la mia terra ormai ferita,

tremo anche io mentre le pietre mi coprono,

e il respiro si fa flebile,

tremo mentre mi vedo bambino con mia madre,

poi il buio e tutto smette di tremare.

"Un palato semplice (Palinodia)" vincitore ex aequo satira di Francesco Masini, Genova

 

                      UN  PALATO  SEMPLICE   (Palinodia) 

 

                                           (“Errai, chef e gourmet!”)

 

 

Caso mirabile,

imprevedibile,

oggi mi capita

sì, proprio qui:

 

esser discepolo

della più nobile,

lieta combriccola

del mezzodì.                            

 

Stupito, in estasi,

tra tanti interpreti

d’una finissima

gastronomia

 

che, destri, trattano 

ricette e pentole                                                               

con invidiabile,                                                                                                                                                                                                                                                     rara maestria,

 

quasi trasecolo

per l’ineffabile

splendido scibile

che m’incantò

 

e, ringraziandovi,

la mia inflessibile

palinodia

or v’offrirò.

 

Se ambrosia e nettare 

semplici viveri

a me sembrarono,

in verità,

 

vivande utili,

da ingoiar subito

con istantanea

celerità,

 

a queste nobili

e dotte dispute

il mio carattere

s’ingentilì:

 

a gusti facili

e discutibili

s’impose insolita

sensiblerie”.

 

Certo a distinguere

mai, mai fui abile:

mosso da rustica

voracità,

 

tutto l’edibile

trovai accettabile,

solo escludendone

il baccalà.

 

Ora, con trepida

sollecitudine,

i vostri fulmini

affronterò

 

e inconfessabili

colpe e punibili

qui, “coram populo”,

rivelerò.

 

Più “divorabile”,

che “degustabile”,

il commestibile

apparve a me,

 

ingerii impavido

l’indigeribile

con modi ruvidi,

incolti, ahimè!

 

Inginocchiandomi,

venia chiedendovi

per innegabile

lesa maestà,

 

per fatti espliciti,

inoppugnabili,

certi, che offendono

la qualità,

 

ammetto umile

l’inammissibile

uso di eccedere

in quantità,

 

riconoscendomi

incauto e debole,

per una simile

enormità.

               

Fu errore ignobile,

imperdonabile,

quel che (incredibile!)

spesso macchiò

 

mio agire semplice,

inconsapevole,

degno d’un pargolo,

sì, sì, lo so!

 

Grana passabile,

moscio e friabile,

Camembert candido

sopravanzò

 

e vino nobile

brillante, nitido,

con Coca torbida

non la spuntò.

 

Dacché, evolvendomi,

io volli rompere

col Tavernello

per il Bordeaux,

 

d’innumerevoli

vini pregevoli

fan fedelissimo

sono e sarò.

 

Ma io fermandomi

alla sua immagine

guardavo il vivido

rosso liquor,

 

voi addentrandovi

nella sua anima,

vibranti, fervidi

di sacro ardor.

 

Mai pIù allo splendido

nettare bacchico

con fatuo animo

m’accosterò,

 

qualificandolo

buono”, o anche “ottimo”,

“discreto”, “valido”;

no, no, dirò:

 

“amico”, “timido”,

“flessuoso”, “morbido”,

“pugnace”, “intrepido”

o, perché no?

 

“ostile”, “ostico”,

ma poi “arrendevole”,

“con quel femmineo

gusto retrò”.

 

Non meno insipido,

gramo, fallibile,

risultò l’esito

che mi toccò

 

quando la fregola

d’esser gastronomo,

a piatti e pentole

m’avvicinò.

 

Forse illudendomi

d’esser idoneo,                          

estemporaneo

cuoco gourmet,

 

con prove equivoche,         

goffe, ridicole,

resi immangiabile

pure il puré,

 

o, teso al compito

che la mia coniuge

pensò affidabile

persino a me,

 

sventato, inabile,

con far risibile,

stimai “bollibile

nell’acqua il .

 

Or, congedandomi,

grazie rendendovi,

radiose fiaccole

d’urbanità,                 

 

un chiaro simbolo

di simpatetica,

forte e durevole       

affinità

 

sia questo brindisi:

“Se un che d’ironico

dalla mia predica

affiorerà,

 

s’alzino i gomiti

ed ogni acredine

l’amato Dioniso

discioglierà”.