venerdì 29 marzo 2019

Gabriele Andreani SECONDO SEZIONE PROSA


Soltanto un lupo





Nel sogno che feci la notte in cui venni deportato a Bergen-Belsen, qualcuno che aveva la mia voce di fanciullo mi bisbigliò all’orecchio:

“Con la spensieratezza del bimbo che è in te, metti le ali all’anima e librati in volo come un uccello senza peso.”

Faticai non poco per liberare quello che restava di me dalle ossa fratturate, cartilagini scollate, brandelli di epidermide e mucose ricoperte di piaghe, nasi, padiglioni delle orecchie, giunture scricchiolanti, unghie, legamenti e uteri sconosciuti che, nella fossa comune in cui era stata scaricata la mia carcassa, premevano gli uni contro gli altri fino a formare un’irriconoscibile poltiglia che stillava ininterrottamente liquido bluastro dai vasi sanguigni e dalle croste ematiche.

Ma in un’esaltazione della mente, un delirio onirico, per quanto agonizzante e chimerico, inverosimile e caotico, anche l’impensabile può trascendere l’orrore e disserrare allo sguardo il cielo che civilissimi animali sociali con gli occhi spiritati avevano sigillato con l’infamia.

Con quelle che credevo fossero le dita di una mia mano, riuscii ad aprirmi un minuscolo varco tra neonati con la stella di David, bambini con il volto cianotico, ragazzi ai quali erano stati strappati gli occhi, vecchi con gli sguardi ingessati, donne di ogni età prive del grembo materno, e, dopo essermi brevemente raccolto in preghiera, riuscii a spiccare il volo fin oltre le nuvole che dall’alto assistevano immobili, come paralizzate, alla tortura e allo sterminio di centinaia di migliaia di esseri umani nelle camere a gas e nei forni crematori.



Incantevole era dall’alto la vista di Bergen-Belsen! Tutto, visto da lassù, appariva meravigliosamente irreale, prodigiosamente folle. Il campo di concentramento era un castello di sabbia brulicante di buffi insetti in uniforme che si muovevano di continuo da un punto all’altro lanciando in aria i loro sgargianti berretti verdi; il filo spinato intorno al campo era un fiocco intrecciato con rose verde acqua che riflettevano i raggi sghembi del sole incandescente; le vette delle montagne, stagliate contro il cielo trasparente, sembravano punti esclamativi immersi nel biancore del latte materno; gli specchi d’acqua, velati d’azzurro, occhi ardenti di adolescenti innamorati; i campanili delle chiese, con il loro portamento flessuoso e sottile, steli di giunco che sfioravano, quasi toccandoli, orizzonti di fuoco; le case, screziate di giallo e con i tetti in ardesia, dimore per cuccioli di uomini che, nei pomeriggi di primavera, sgambettavano allegri per i prati sotto lo sguardo attento delle nonne camuffate da fate che, sedute le une accanto alle altre sui rami degli alberi in fiore, dalle tasche delle sottane partorivano per i nipotini caramelle e confetti.

Ammaliato da quella vista, saltellavo tutto festante sulle nuvole, bianche e leggere come le anime dei figli dei contadini che si rincorrevano nel verde della campagna; salutavo, agitando le braccia, gli uomini e le donne del castello di sabbia, che, con lo sguardo puntato verso il sole, immenso e caldo come un frutto estivo sulla tavola di Dio, seguivano in silenzio le mie belle piroette per non disturbare il battito del mio cuore.

Trattenendo a fatica il respiro come fa il bambino quando sale per la prima volta sul suo cavallo a dondolo, con l’anima inebriata dallo spettacolo che avevo davanti, mi spingevo sempre più in alto, tenendomi ben stretto, per non perdere l’orientamento, alla colonna di fumo grigia della ciminiera della fabbrica di saponette e di bottoni che si perdeva lontano, molto lontano, fino a toccare gli immensi spazi della volta celeste.

Il profumo di Dio e delle sue creature che mi giungeva dal basso mi riempiva i polmoni, cullava la mia carcassa, rendeva ebbro di felicità ogni mio respiro. Facevo fatica a immaginare un pezzo di paradiso più bello di quello che in quel momento il mio sguardo riusciva a malapena ad afferrare. “Possibile”, domandai al primo uccello che incontrai, una giovane cicogna nera con il triangolo blu[1] impresso sul becco, “che sulla terra, il primo scalino verso l’eternità, succedano per opera dell’uomo cose talmente bestiali e inumane da far impallidire persino un animale come il lupo, la bestia più feroce che, quando credevo ancora alle favole e alle fiabe, popolava tutte le notti i miei incubi?”

Mentre la cicogna mi mostrava il marchio che alcuni fanatici avevano impresso agli uccelli migratori, feci un altro sogno, un sogno terribile: un lupo, dopo aver lottato a lungo con un altro lupo, gemendo e torcendo le zampe al cielo, offriva la sua gola al lupo che l’aveva battuto, perché questi, com’era suo diritto, potesse azzannarlo a morte. Ma il vincitore, lo sguardo fiero, il pelo gonfio d’orgoglio, le zampe ripiegate su se stesse, invece di azzannare alla gola il perdente, lesto si girava dalla parte opposta e scompariva tra le fronde impenetrabili della foresta. Poco più in là, su un viottolo umido e polveroso, un uomo stremato che si torceva in una pozza di sangue, con un filo di voce implorava pietà a un altro uomo armato di coltello, il quale, indifferente a quella supplica, gli squarciava con violenza brutale il petto.

Quando il vento gelido del Baltico mi destò da questo spaventoso sogno, mi sorprese il desiderio irrefrenabile di mutarmi immediatamente in lupo e di vomitare l’uomo che era in me.

“Se l’uomo”, riflettei, scuotendo il capo, “fosse soltanto un lupo, se come il lupo fosse guidato dall’istinto e non dalla ragione, se nelle sue vene non scorresse il cromosoma del male, Bergen-Belsen, Buchenau, Dachau, Mauthausen e molte altre città dei morti, non sarebbero mai state costruite.”



Quando, alle prime luci del mattino, cercai di rientrare nel mio corpo, corpo n. 176934, non ci riuscii. Il n. 176934 non era che un mucchietto di polvere, un minuscolo mucchietto in una sterminata montagna di polvere.



[1] Nei campi di concentramento nazisti, il triangolo di colore blu identificava gli emigrati.

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