Soltanto
un lupo
Nel sogno che feci la notte in cui
venni deportato a Bergen-Belsen, qualcuno che aveva la mia voce di fanciullo mi
bisbigliò all’orecchio:
“Con la spensieratezza del bimbo che è
in te, metti le ali all’anima e librati in volo come un uccello senza peso.”
Faticai non poco per liberare quello
che restava di me dalle ossa fratturate, cartilagini scollate, brandelli di
epidermide e mucose ricoperte di piaghe, nasi, padiglioni delle orecchie, giunture
scricchiolanti, unghie, legamenti e uteri sconosciuti che, nella fossa comune in
cui era stata scaricata la mia carcassa, premevano gli uni contro gli altri
fino a formare un’irriconoscibile poltiglia che stillava ininterrottamente
liquido bluastro dai vasi sanguigni e dalle croste ematiche.
Ma in un’esaltazione della mente, un
delirio onirico, per quanto agonizzante e chimerico, inverosimile e caotico, anche
l’impensabile può trascendere l’orrore e disserrare allo sguardo il cielo che
civilissimi animali sociali con gli occhi spiritati avevano sigillato con
l’infamia.
Con quelle che credevo fossero le dita
di una mia mano, riuscii ad aprirmi un minuscolo varco tra neonati con la
stella di David, bambini con il volto cianotico, ragazzi ai quali erano stati
strappati gli occhi, vecchi con gli sguardi ingessati, donne di ogni età prive
del grembo materno, e, dopo essermi brevemente raccolto in preghiera, riuscii a
spiccare il volo fin oltre le nuvole che dall’alto assistevano immobili, come
paralizzate, alla tortura e allo sterminio di centinaia di migliaia di esseri
umani nelle camere a gas e nei forni crematori.
Incantevole era dall’alto la vista di
Bergen-Belsen! Tutto, visto da lassù, appariva meravigliosamente irreale, prodigiosamente
folle. Il campo di concentramento era un castello di sabbia brulicante di buffi
insetti in uniforme che si muovevano di continuo da un punto all’altro
lanciando in aria i loro sgargianti berretti verdi; il filo spinato intorno al
campo era un fiocco intrecciato con rose verde acqua che riflettevano i raggi
sghembi del sole incandescente; le vette delle montagne, stagliate contro il
cielo trasparente, sembravano punti esclamativi immersi nel biancore del latte
materno; gli specchi d’acqua, velati d’azzurro, occhi ardenti di adolescenti
innamorati; i campanili delle chiese, con il loro portamento flessuoso e
sottile, steli di giunco che sfioravano, quasi toccandoli, orizzonti di fuoco;
le case, screziate di giallo e con i tetti in ardesia, dimore per cuccioli di
uomini che, nei pomeriggi di primavera, sgambettavano allegri per i prati sotto
lo sguardo attento delle nonne camuffate da fate che, sedute le une accanto alle
altre sui rami degli alberi in fiore, dalle tasche delle sottane partorivano
per i nipotini caramelle e confetti.
Ammaliato da quella vista, saltellavo
tutto festante sulle nuvole, bianche e leggere come le anime dei figli dei
contadini che si rincorrevano nel verde della campagna; salutavo, agitando le
braccia, gli uomini e le donne del castello di sabbia, che, con lo sguardo
puntato verso il sole, immenso e caldo come un frutto estivo sulla tavola di
Dio, seguivano in silenzio le mie belle piroette per non disturbare il battito
del mio cuore.
Trattenendo a fatica il respiro come fa
il bambino quando sale per la prima volta sul suo cavallo a dondolo, con
l’anima inebriata dallo spettacolo che avevo davanti, mi spingevo sempre più in
alto, tenendomi ben stretto, per non perdere l’orientamento, alla colonna di
fumo grigia della ciminiera della fabbrica di saponette e di bottoni che si
perdeva lontano, molto lontano, fino a toccare gli immensi spazi della volta
celeste.
Il profumo di Dio e delle sue creature che
mi giungeva dal basso mi riempiva i polmoni, cullava la mia carcassa, rendeva
ebbro di felicità ogni mio respiro. Facevo fatica a immaginare un pezzo di
paradiso più bello di quello che in quel momento il mio sguardo riusciva a malapena
ad afferrare. “Possibile”, domandai al primo uccello che incontrai, una giovane
cicogna nera con il triangolo blu[1] impresso sul becco, “che sulla
terra, il primo scalino verso l’eternità, succedano per opera dell’uomo cose
talmente bestiali e inumane da far impallidire persino un animale come il lupo,
la bestia più feroce che, quando credevo ancora alle favole e alle fiabe, popolava
tutte le notti i miei incubi?”
Mentre la cicogna mi mostrava il
marchio che alcuni fanatici avevano impresso agli uccelli migratori, feci un
altro sogno, un sogno terribile: un lupo, dopo aver lottato a lungo con un
altro lupo, gemendo e torcendo le zampe al cielo, offriva la sua gola al lupo
che l’aveva battuto, perché questi, com’era suo diritto, potesse azzannarlo a
morte. Ma il vincitore, lo sguardo fiero, il pelo gonfio d’orgoglio, le zampe
ripiegate su se stesse, invece di azzannare alla gola il perdente, lesto si
girava dalla parte opposta e scompariva tra le fronde impenetrabili della
foresta. Poco più in là, su un viottolo umido e polveroso, un uomo stremato che
si torceva in una pozza di sangue, con un filo di voce implorava pietà a un
altro uomo armato di coltello, il quale, indifferente a quella supplica, gli
squarciava con violenza brutale il petto.
Quando il vento gelido del Baltico mi
destò da questo spaventoso sogno, mi sorprese il desiderio irrefrenabile di
mutarmi immediatamente in lupo e di vomitare l’uomo che era in me.
“Se l’uomo”, riflettei, scuotendo il
capo, “fosse soltanto un lupo, se come il lupo fosse guidato dall’istinto e non
dalla ragione, se nelle sue vene non scorresse il cromosoma del male, Bergen-Belsen,
Buchenau, Dachau, Mauthausen e molte altre città dei morti, non sarebbero mai
state costruite.”
Quando, alle prime luci del mattino,
cercai di rientrare nel mio corpo, corpo n. 176934, non ci riuscii. Il n.
176934 non era che un mucchietto di polvere, un minuscolo mucchietto in una
sterminata montagna di polvere.
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