L ’ E R
E D I T À
D I M
A R I A
Maria era alta, forte, maestosa, con i
cerulei occhi fissi di una polena di nave. Aveva ossa grosse e fianchi
accoglienti. Sembrava il tipo adatto a sfornare figli, e invece lei e Vincenzo
figli non ne avevano avuti. Erano tempi, quelli, in cui la sterilità era solo
al femminile. Vincenzo diceva:
- Ho versato litri di seme nel tuo
grembo, e neanche uno… (e
alzava il dito indice che sembrava il Platone di Raffaello) Non uno sei stata buona di farmi!
E giù un manrovescio che per poco non ribaltava la moglie.
Per la verità Vincenzo non sapeva
nemmeno chi era Platone e Raffaello, così come Maria che non si era mai mossa
dal suo paese nemmeno si immaginava il mare, le navi e le polene.
Vincenzo era un ometto secco, basso di statura e bassa la fronte, largo
di spalle e di nuca. In paese era considerato un mezzo balordo, ma il suo
aspetto poteva ingannare. Se era necessario era agile e veloce come una lepre,
e il suo corpo minuto all’occasione poteva sviluppare la forza d’un bue. Era
furbo e prudente come una volpe, dietro gli occhi mezzo addormentati era una
vigile attenzione e un pensiero diabolicamente inquieto.
Vivevano in montagna, ad Erbonne, una frazione di poche case sotto il
Monte Generoso. Un torrente rapinoso chiamato Breggia vi passava accanto,
definendo il confine tra Svizzera e Italia.
Maria sapeva che lo sterile era lui, perché anni addietro, in un momento
di abbandono, si era concessa a Pietro, un pastore di passaggio. Una sola
volta, ma era bastata per ritrovarsi un mese dopo incinta. Fortunatamente Vincenzo
era fuori paese, sul Generoso a far carbone. Maria ne aveva approfittato per
prepararsi una tisana di prezzemolo e una bevanda di segale cornuta macerata
nel vino per ventiquattr’ore, che bevve a mezzanotte in punto. Erano mezzi noti
alla medicina popolare: a seguito di violente contrazioni uterine, in poche ore
aveva abortito. Naturalmente il marito non ne aveva saputo nulla, ma questo non
diminuiva, ogni volta che l’accusava di sterilità, il rancore della moglie, che
si mutava in odio vero e proprio quando all’ingiustizia del rimprovero facevan
seguito le botte. E Vincenzo menava così forte che, diceva Maria, i vestiti
cambiavano di colore.
La vita era dura a Erbonne, e gli erbonnesi
erano costretti ad arrangiarsi con attività di frodo come il contrabbando, lo
sfruttamento dei boschi cantonali e la caccia nei periodi e nelle zone
proibite. Il confine con la Svizzera era stato stabilito al fiume Breggia da
secoli, ma da altrettanto tempo gli erbonnesi lo traversavano per la pratica
dell’allevamento del bestiame. E l’usanza,
mai interrotta nel tempo, aveva
determinato nella mentalità dei paesani una sorta di anomia e libertà assoluta
nell’interpretazione delle leggi e dei confini. Tutti si consideravano liberi
di sfruttare la montagna secondo le loro necessità, come se un signorotto
benevolo avesse loro concesso una franchigia speciale. E forse in passato era
stato proprio così.
E così Vincenzo, che non era mai stato
allevatore e di sudare sul terreno ingrato per quattro patate non aveva proprio
voglia, arrotondava i modesti guadagni di becchino e custode del cimitero varcando
il confine e addentrandosi nei boschi molto più estesi della sponda svizzera.
Tutto l’anno cacciava di frodo e faceva sfros,
ossia contrabbando. Contrariamente agli altri paesani andava solo, portando una
bricolla di quaranta chili. Aveva inventato un modo per attenuare il rumore dei
passi: rivestiva gli scarponi con soprascarpe in iuta. Ma, maligno com’era, le
indossava quand’era già inoltrato nel bosco, perché nessuno gliele vedesse e
copiasse. Per questo e per altre sue meschinità e perfidie, non era benvisto in
paese.
I finanzieri (burlanda in
dialetto), che pure avrebbero dovuto controllare il confine, erano tolleranti.
Erano tutti meridionali, in maggioranza siciliani e con i contrabbandieri
avevano in comune la stessa precarietà di vita. Si erano arruolati nella
Guardia di Finanza per sfuggire alla fame e all’emigrazione all’estero ed erano
finiti ad Erbonne, che dall’estero distava pochi metri. Sapevano cosa voleva dire
non avere abbastanza da riempirsi lo stomaco. A volte nel tardo pomeriggio si
trovavano all’osteria per un grappino, tutti insieme, burlanda e sfrusaduu
(contrabbandieri). Poi uscivano al tramonto e tutti sapevano cosa andavano a
fare: gli sfrusaduu a caricarsi della
bricolla sulla spalle e i burlanda a
far finta di ispezionare i sentieri che portavano in val di Muggio. Tutto
questo in barba alle leggi sul contrabbando che, in tempi di autarchia,
Mussolini aveva voluto fossero inasprite.
In realtà i finanzieri controllavano il sentiero che portava alla ripida
sponda del Breggia e all’unico guado ufficiale
per la Svizzera, ma bastava traversare un breve tratto di bosco a monte del
paese per trovare molti altri punti di passaggio. Naturalmente i burlanda lo sapevano benissimo e di
tanto in tanto, per salvare la faccia e soprattutto quand’erano a corto di sigarette,
aspettavano i contrabbandieri al ritorno e sequestravano parte del carico,
giusto quanto serviva per il loro fumare.
A Vincenzo non sequestravano mai niente
perché lui non faceva mai mancare la lepre al brigadiere quando la caccia di
frodo era buona. Per questa, il pericolo era rappresentato dalle guardie
cantonali. Lui sistemava le trappole la sera, e spesso il giorno dopo non le trovava
più, benché le macchie di sangue sul terreno dimostrassero che avevano ben
funzionato. Erano passate le guardie svizzere che si erano prese la preda
sequestrando anche la trappola, anche loro per dimostrare ai capi la loro
solerzia nel reprimere la caccia di frodo. Vincenzo non se la prendeva, sapeva
che quello era il modo per non avere problemi anche coi cantonali.
Lo
sfros funzionava in maniera perfettamente equilibrata: in Svizzera
passavano bricolle di riso, mentre al ritorno gli sfrusaduu portavano caffè crudo in grani e sigarette. Ad Erbonne
nessuno si azzardava a tostarlo: il profumo nella piccola conca in cui giaceva
il paese si sarebbe sparso subito fino alla casermetta dei finanzieri,
obbligandoli ad un’ispezione e alla requisizione della roba.
Vincenzo non portava mai a casa la
merce, né quella per la Svizzera né quella di ritorno. La lasciava fuori paese,
in una caverna che chiamava il buco della
volpe. L’aveva scoperta suo padre ora defunto e la conoscevano solo lui e
Maria. Era di difficile accesso, per le dimensioni ridotte dell'entrata e perché si trovava
in un tratto scosceso. Vincenzo ne aveva mascherato l’ingresso con sterpi e
pietre e, benché molti avessero provato a seguirlo per carpirgli il segreto,
era sempre riuscito a sviare i curiosi. Anche questo espediente contribuiva
all’immunità di cui godeva presso i burlanda:
se a loro veniva in mente una perquisizione nelle case dei contrabbandieri in
cerca di merce di frodo, e a volte il Comando di Como ordinava loro di
eseguirlo, da lui non si trovava mai niente.
Maria si occupava della casa, dell’orto, del minuscolo campo di patate, delle
caprette e dei formaggi che faceva col loro latte. Per quanto riguardava lo sfros, portava le bricolle a valle, dove
l’oste di Occagno si incaricava della distribuzione della merce e la riforniva
di riso. D’estate, poi, aiutava Vincenzo a fare
il carbone nelle belle faggete sulle pendici del Monte Generoso.
Andavano insieme in una località nel
bosco che, in assenza di picchetti, non avrebbero saputo dire se era di qua o
di là del confine. C’era un’antica piazza
(come veniva chiamato il luogo dove i carbonai costruivano la catasta di legna
da trasformare in carbone) che il padre di Vincenzo aveva inaugurato
sessant’anni prima. Si mettevano, marito e moglie, a tagliare i faggi, erigendo
la tipica cupola della carbonaia. Accendevano il fuoco che andava sorvegliato
giorno e notte per quasi una settimana per ottenere sei o sette quintali di
carbone, che poi veniva trasportato a valle. Insieme, in più viaggi, con la bastina in testa portavano i sacchi in
paese, e in seguito a Occagno. Era un lavoro sporco e faticoso. Qualche volta
Maria aveva proposto a Vincenzo di comprare un mulo, per evitare queste fatiche
da bestia. Ma quando s’era accorta che la richiesta era occasione per la solita
rimostranza col seguito di botte, ossia la mancanza di figli in aiuto, aveva
cessato di esprimerla.
Vincenzo quando non era in giro per lavoro
passava le giornate all’osteria e tornava a casa ubriaco. Aveva la sbronza
cattiva, e la maggior parte delle sere cercava e trovava ogni minimo appiglio per
menare Maria. Poi andava a letto e si avvicinava alla moglie che gli dava la
schiena pretendendo la prova d’amore.
Maria aveva imparato che era meglio restare immobile e lasciarlo fare per non
subire altri maltrattamenti. Tanto la cosa si concludeva in fretta.
Era una mattina d’inverno. Il gelo era arrivato un giorno di dicembre
con un sole bugiardo appeso in un cielo ipocritamente sereno. Le notti erano
fredde come un coltello, la rugiada congelava nelle crepe dei sassi. Le stelle
erano gocce di ghiaccio lontane, brillanti nel mare nero. Maria non ne aveva
mai viste tante: a miriadi si affollavano come se tutte le lucciole di tutti i
mondi in cui vivono le lucciole si fossero date appuntamento lassù. Ma quella
mattina il cielo era pieno di nuvole grigie, lente e pesanti. Portavano
tempesta.
Maria uscì. La sua casa era un po’
fuori dal paese, vicino al cimitero e giù per il sentiero che portava al guado.
Salì al lavatoio. Era l’alba, In giro non c’era ancora nessuno. Una brezza
gelida e robusta, calando giù lungo il pendio del Monte Generoso, arruffava il
verde degli abeti a zampate. Si strinse nello scialle. Lavò rapidamente i
piatti e sgurò e riempì d’acqua il paiolo della polenta, poi tornò in casa.
Vincenzo
s’era alzato e scendeva le scale barcollando, le palle e il resto in bella
evidenza sotto un paio di calzoni sbrindellati allacciati in vita con una
corda. Maria notò il sudore innaturale sulla sua bassa fronte e sulle guance,
vide gli occhi iniettati di sangue e capì che la sbronza non era passata. La
sera prima era tornato e s’era buttato sul letto addormentandosi di colpo. Per
una volta il rito dell’accoppiamento le era stato risparmiato.
Mentre
Maria con le molle rimescolava le braci per riattizzare il fuoco, Vincenzo si
mise a pisciare nel paiolo, tenendo quel cilindro bianco tra il medio e il
pollice, le altre dita sollevate, con una mossa delicatamente arcuata, come
fosse l’archetto di un violino. Poi scrollò e ripose con cautela.
-
Ma cosa fai, porco!,
urlò la donna.
Lui fece per darle un pugno in faccia ma lei si girò a tempo e il colpo
la raggiunse sulla schiena. Poi Maria si chinò per soffiare con la canna di
ferro sulle braci. A vederla così piegata in due, Vincenzo sentì il desiderio
montargli dentro. L’afferrò per i fianchi, le spinse la testa in basso con le
mani, le sollevò le gonne e fece per montarla.
Allora Maria non ci vide più. Afferrò
saldamente la canna a due mani, si girò di scatto e colpì il marito sul cranio
con un colpo violento. Vincenzo cadde, forse più per la sorpresa che per il
dolore o la forza del colpo, ma quella fu la sua fine. Seduto per terra,
impacciato dai calzoni che aveva attorcigliati attorno alle caviglie, annaspava
in cerca di un appiglio per risollevarsi.
-
Brutta troia!,
esclamò.
Ma un secondo colpo sulla bocca lo fece ammutolire e cadere disteso.
Allora rapidissima Maria con la paletta prese un mucchietto di braci e gliele
gettò sul petto. L’uomo urlò di dolore contorcendosi. La moglie gli mise un
piede sul collo e prese a menare colpi con la canna sul suo viso e sulle
spalle. Vide volare qualche dente, vide il sangue sprizzare, udì le grida del
marito piano piano divenire sempre più flebili, vide la forza abbandonare le
sue membra, finché non crollò a occhi chiusi e gambe divaricate per terra.
Maria però non si fermò: ansimante continuava a vibrare colpi su ogni parte del
corpo, e l’ultimo tremendo fu sui genitali che spuntavano dai calzoni. Vincenzo
non ebbe reazioni. Allora si fermò, col braccio ancora alzato che brandiva la
canna deformata dal combattimento.
In quel momento una luce abbagliante saettò dalla finestra, e si
rifletté nello specchio appeso alla parete opposta al camino, di modo che la
stanza venne invasa da un bagliore cristallino. Ad essa seguì un fragore come
se qualcuno avesse strofinato un milione di familiari, e l’odore di zolfo fu
paragonabile. Fu così straordinariamente crepitante che il tuono sincrono,
simile ad una cannonata, parve del tutto secondario.
Era scoppiato un temporale come fosse
estate. La luce e il rumore riscossero Maria dallo sbigottimento che l’aveva
presa nel vedere il marito morto ai suoi piedi. Abbassò il braccio armato, si
sedette sul gradino del camino e la prima cosa che fece fu di raddrizzare la
canna, secondo l’antica prassi contadina che ogni oggetto andava recuperato se
appena si dimostrava ancora utile.
Poi si tirò su per osservare il tempo
alla finestra. Il fulmine aveva rotto le nuvole e aveva cominciato a nevicare a
fiocchi radi.
Ebbe subito chiaro cosa fare, come se avesse avuto il piano in testa da
tempo. Diede ancora qualche colpo sul viso del morto per sfigurarlo e renderlo
irriconoscibile. Asciugò il sangue sparso, denudò il marito, gli tolse la
catenina che portava al collo. Vincenzo aveva una brutta cicatrice tra polso e
avambraccio, frutto di una bruciatura che aveva subito nel fare carbone, anni prima,
ma per quella Maria non ci poteva far niente. Mise i vestiti sporchi di sangue,
la giacca a vento e gli scarponi del marito in un sacco. Coprì il cadavere con
una vecchia coperta, poi uscì per lavare alla fontana il paiolo, lo riempì
d’acqua e mise sul fuoco la polenta. Si impose di vivere la giornata come
sempre, per mostrare anche a sé stessa, oltre che ad un possibile visitatore,
la normalità di un giorno qualunque. Nella stalla accudì alle sue capre e si
mise a fare il formaggio. Tornata in casa spazzò il pavimento della grande
camera al piano terra che fungeva da cucina, soggiorno e camera da pranzo
insieme. Salì le scale per rassettare la camera da letto. Pranzò con formaggio,
un cavolo bollito e la polenta. Riparò un’imposta pencolante e aspettò la sera.
Al tramonto era caduta neve per un’altezza
di tre dita. Avvolse il cadavere in una grande coperta fatta di sacchi di iuta
cuciti assieme, meravigliata che fosse ancora tiepido. Poi rifletté che le
pietre attorno al camino l’avevano tenuto al caldo. Si mise gli scarponi e le
soprascarpe di iuta. Prese una pila meccanica, di quelle, che, strette e
rilasciate tra il palmo e le dita, danno una piccola luce traballante. Si
affacciò all’uscio. Era buio fitto, non si vedeva nessuno. La neve cadeva ancora,
lenta, con una sorta di grazia monotona e sterile. I fiocchi s’andavano a
posare sulle maniche della sua giacca a vento, e ognuno prima di sciogliersi
mostrava alla luce della pila la propria stupenda simmetria esagonale.
Trascinando il corpo discese il
sentiero fino al guado. L’acqua era gelida ma poca. Traversò facilmente sulle
pietre lisce e arrivata sull’altra sponda cominciò la difficoltà di salire la
proda scoscesa. Per fortuna lei era forte e Vincenzo, più piccolo di lei, tutto
sommato non troppo pesante. Aveva legato una corda alla bocca della specie di
sacco in cui l’aveva avvolto e salì adagio e a strattoni il sentiero. Quando fu
bene in alto, abbandonò il sentiero e si inoltrò tra gli alberi a mezzacosta,
aprendosi un varco nel sottobosco. Il sacco lasciava una scia nella neve, tra
gli aghi di pino e i rami secchi. Tornò a casa per prendere la pala e una
vanga. Scelse un posto sotto un grande larice e cominciò a scavare. Il terreno
era soffice e leggero. Preparò rapidamente una fossa profonda una trentina di
centimetri e seppellì il cadavere. Ricoprì il rigonfiamento del terreno con muschio,
aghi e terriccio, e sopra tutto un enorme ramo di larice stroncato dal fulmine.
-
Fungerà da croce per te, senzadio, mormorò.
Poi tornò a casa. Nevicava fitto, ora, e avrebbe coperto tutto.
Andò a letto. Non sentiva il minimo
rimorso.
La notte successiva prese i vestiti sporchi di sangue e scendendo lungo
il torrente li sparse in luoghi diversi, fermandoli con qualche pietra sul
fondo. L’acqua li avrebbe presto lavati e fatti marcire. Tornata in paese portò
la bricolla di Vincenzo al buco della volpe e la nascose al fondo della
caverna: era un peccato buttarla via, e sarebbe venuta buona quando la scomparsa
del marito fosse passata nel dimenticatoio.
Nei tre giorni seguenti si comportò normalmente. Come faceva quando
Vincenzo era fuori per lavoro. Al quarto giorno andò a denunciarne la scomparsa
ai burlanda.
-
È andato in Svizzera, solo. Doveva tornare la notte dopo. Non s’è visto…
I finanzieri le dissero che avrebbe avvisato i carabinieri ad Occagno.
Venne su un brigadiere che fece qualche domanda a Maria e in giro, per
poi tornarsene a casa portando una denuncia di scomparsa. I carabinieri
informarono i colleghi di Mendrisio della sparizione di uno sfrusaduu, verosimilmente nei loro
confini. Gli svizzeri presero atto senza far nulla, probabilmente pensarono: Uno di meno…
Passò l’inverno senza ulteriori sviluppi. Maria aveva continuato la sua
vita, curando l’orto e le caprette, facendo formaggi che vendeva all’oste di
Occagno, campando di latte e polenta. Un paio di volte aveva fatto anche un po’
di sfros, portando riso in Svizzera e
tornando con caffè e sigarette.
Venne la primavera. Appena la neve fu sciolta, una notte Maria tornò al
luogo della sepoltura con alcune piantine di menta del suo orto, e le piantò
sulla tomba di Vincenzo. Avrebbero servito a distrarre i cani qualora la
Polizia cantonale si fosse messa a cercare lo scomparso.
Non successe nulla per quasi tutta l’estate, finché un giorno una donna
del paese, in caccia di funghi sulla proda di destra del Breggia, portò la
notizia che c’era un corpo semisepolto fuori dal sentiero. La puzza di marcio
si sentiva da lontano. La gente del paese si recò a vedere e constatò che le
volpi e i topi avevano spolpato qua e là il corpo, ormai in disfacimento e
pieno di vermi. Non aveva segni di riconoscimento. Le braccia, una coscia e una
gamba erano stati mangiati o si erano dissolti, e così la bruciatura non venne
individuata. La testa era maciullata e anche mezza divorata dai vermi. Ci misero
sopra una croce fatta di rami e tornarono in paese. Tutti sospettavano che si
trattasse di Vincenzo, unica persona che era scomparsa dal paese, anche se non
si spiegavano il perché fosse nudo, senza bricolla, come fosse morto e perché
era stato seppellito proprio lì, a pochi decine di metri da casa.
I cantonali, avvisati dai carabinieri,
andarono sul posto, fecero fotografie e chiamarono il medico legale, che
certificò che il cadavere presentava forti ecchimosi e una frattura cranica
all’osso parietale sinistro. Poi i resti furono nuovamente seppelliti.
Tornò il brigadiere dei carabinieri ad
interrogare Maria, ma lei si attenne alla precedente dichiarazione, non aveva
più visto il marito dopo quella sera che era partito per lo sfros.
La cosa finì lì. Dopo due anni il Tribunale emise una dichiarazione di
assenza, tramutata dopo altri otto anni in dichiarazione di morte presunta,
autorizzando Maria, unica erede, ad impossessarsi dei beni del marito. Lei naturalmente
già da tempo si era appropriata delle povere cose di Vincenzo, tra l’altro
utilizzando la sua bricolla per fare contrabbando.
Maria morì all’improvviso nel suo letto, ai primi giorni d’estate 1947.
Fu trovata da una vicina preoccupata di non vederla come al solito al lavatoio
a strofinare il paiolo della polenta. Fu avvisata una lontana cugina che venne ad
Erbonne per il funerale e valutare la convenienza di accettare l’eredità. Nel
materasso trovò ventiduemila Lire anteguerra. Grazie alla svalutazione,
bastarono appena per pagare il funerale.
Sandro Cuppini
Bergamo
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