L
A B A
R Z E
L L E
T T A
D I M
A N S
O U R
Certo
che le barzellette bisogna saperle raccontare, ci diciamo asciugandoci le
lacrime dopo un exploit dei nostri grandi comici. Ma il modo di raccontarle in
realtà è diverso da paese a paese, e non è detto che il successo ottenuto in un
certo luogo sia ripetibile in un altro. Quando, per esempio, un arabo racconta
una barzelletta, non lo fa come siamo abituati a sentire noi in occidente. Non
è come se vi trovaste di fronte ad un Bramieri che già trent’anni fa raccontava
battute fulminanti della durata di dieci secondi. Non lo fa nemmeno come faceva
il grande Walter Chiari, capace di tirare in lungo il sarchiapone per dieci minuti. No, la barzelletta di un arabo dura
molto, molto di più.
Quando qualcuno in occidente inizia a
raccontare una barzelletta, tutto in noi, mente e corpo, si dispone alla
risata. I muscoli facciali si irrigidiscono pronti ad esplodere nello
sghignazzo liberatorio e questo atteggiamento del viso viene retto per qualche
tempo, quello usuale di racconto di una barzelletta. Ma se il raccontatore è un
arabo è bene rilassarsi, perché dopo cinque minuti i muscoli cominciano ad
intorpidirsi e a dolere e non reggereste quella tensione per tutta la durata
della sua barzelletta. La sua è una storia vera e propria e, se siete a tavola
come ero io quella sera al Cairo, è meglio che vi rassegnate a lasciare che il
grasso del vostro montone si rapprenda in un angolo del piatto, che il vostro
cuscus e le vostre delicate verdure di contorno si raffreddino del tutto,
mentre voi vi appoggiate allo schienale della sedia e con la faccia più seria
di questo mondo aspettate che la barza
si sviluppi e prenda forma, coi tempi necessari al narratore e conformi alla
tradizione, fino alla conclusione che non procura mai uno sguaiato scoppio di
risa, ma tutt’al più un increspamento di labbra in una smorfia sorridente.
Avevo invitato a cena Mansour, un
personaggio importante che dovevo tenermi buono se ci tenevo a prendere dal
cliente egiziano un importante ordine di dissalatori. Eravamo in un ristorante
a Zamalek, un’isola in mezzo al Nilo, un elegante quartiere di ambasciate e
ricche residenze immerse nel verde. Mansour era un signore raffinato e discendente
da nobili lombi. Preferiva esprimersi in francese che considerava lingua molto
più adatta all’occasione, evitando la sguaiataggine dell’inglese, che riteneva
la lingua degli affari: quella sera non si parlava di affari. Aveva
atteggiamenti e stile raffinato da ambasciatore d’antan, un’abilità e un fascino nella conversazione che ricordava
quello in uso nel ’700. Eravamo seduti ad un tavolo presso il ramo orientale
del Nilo, in quattro: Mansour, la moglie e un’amica della moglie che lui aveva
avuto la finezza di invitare:
Mi sono permesso di invitare anche la signora Tal dei Tali, mi aveva detto, sa,
per l’equilibrio della conversazione.
L’equilibrio
della conversazione: una gentilezza nei riguardi miei e della moglie, una cosa
a cui io, che avevo invitato solo Mansour e signora, non avrei mai pensato.
Era metà ottobre: la brezza che veniva dal
fiume era fresca, le signore tenevano uno scialle a proteggersi le spalle nude.
Le chiacchiere fluivano leggere nel ricercato francese di Mansour che teneva
banco con arte sopraffina, variando discorsi seri a leggeri, domande
cerimoniose a risposte gentili. La sua conversazione spaziava su argomenti
disparati, senza mai soffermarsi su ciascuno più del tempo necessario a
renderlo noioso.
Venne a parlare dei tempi antichi in cui
l’Egitto era sottoposto al governo dei califfi turchi.
A questo proposito c’è una graziosa storia che ricordo, disse.
Quasi ‘une blague’,
aggiunse, una barzelletta. Volete che ve la racconti?
Domanda retorica, che però la sua cortesia
gli imponeva. Abbandonammo le posate sul piatto e ci apprestammo ad ascoltare
una storia che per quanto Mansour la accorciasse tenendo conto dei miei gusti
occidentali non poteva durare meno di venti minuti.
Si svolge ai tempi della dominazione turca. Ibrahim Pascià, califfo
dell’Impero, era in viaggio nel deserto con la sua lunga carovana di cammelli.
Nella ricca città di Asyut lo aspettava il Gran Visir Harun-al-Wahda per un
importante affare. Erano già molti giorni che marciava a tappe forzate perché
il Gran Visir gli aveva ordinato di raggiungerlo il più in fretta possibile. Il
cammino era lungo e faticoso, ma Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e
saggio e ne sopportava pazientemente i disagi.
Una sera la carovana stava entrando in
un piccolo villaggio per fermarsi per la notte. Ibrahim Pascià era appollaiato
sul suo cammello, circondato dalle sue guardie. Percorrendo uno stretto vicolo,
una persiana si aprì all’improvviso e colpì al volto proprio lui, Ibrahim
Pascià. L’incidente gli procurò un piccolo taglio sulla fronte. Il califfo
scese dal cammello. Poiché era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira,
si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Vedete dunque il volere del
Misericordioso: dovrò fare giustizia di tutto questo. Conducetemi nella Sala di
Giustizia.’
Il sindaco del villaggio profondendosi
in mille scuse lo accompagnò nella Sala di Giustizia dove abitualmente si
svolgevano i processi.
‘Convocate l’inquilino di quella casa’,
disse Ibrahim Pascià.
Fu portata l’inquilina Fatima che
piangendo si gettò ai piedi del califfo dicendo:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Fatima, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò
fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da
dire a tua discolpa?’
Rispose Fatima:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che donna misera
sono! La casa è di proprietà di Omar e non io ho stabilito che fosse aperta una
finestra sul vicolo ad un’altezza così pericolosa. E tuttavia le finestre sono
fatte per essere aperte, soprattutto al tramonto quando l’aria rinfresca.
Vorrai forse ritenermi responsabile di avere aperta una finestra per dare aria
alla stanza ove abito?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario della casa.’
Gli fu portato il proprietario Omar che
piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Omar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare
giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire
a tua discolpa?’
Rispose Omar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! La casa io l’ho acquistata così com’era dall’architetto Fatir. E
tuttavia, poiché non mi serviva, l’ho subito ceduta in affitto. Vorrai forse
ritenermi responsabile di un incidente avvenuto in una casa che io non ho
costruito né abitato mai?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate l’architetto della casa.’
Gli fu portato l’architetto Fatir che
piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Fatir, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare
giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire
a tua discolpa?’
Rispose Fatir:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! La casa io l’ho costruita solida ed ampia. E tuttavia non potevo
ignorare le disposizioni di prevedere una finestra per ogni stanza, come
prescritto dal sindaco di questo villaggio. Vorrai forse ritenermi responsabile
per aver rispettato le leggi della Sacra
Porta?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il sindaco del villaggio.’
Gli fu portato il sindaco Akbar che
piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Akbar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare
giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire
a tua discolpa?’
Rispose Akbar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! Ho dato disposizione di prevedere una finestra per ogni stanza. E
tuttavia non potevo ignorare che agli abitanti di questo villaggio puzzano
molto i piedi perché mangiano il formaggio di Mehmet il capraio. Vorrai forse
ritenermi responsabile per aver evitato che una famiglia, di notte, morisse di
soffoco?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il capraio del villaggio.’
Gli fu condotto Mehmet il capraio che
piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Mehmet, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò
fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da
dire a tua discolpa?’
Rispose Mehmet:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! Produco un ottimo formaggio che però fa puzzare molto i piedi di
coloro che lo mangiano. E tuttavia le mie capre si nutrono dell’erba che cresce
nel campo di Zelabdim; vorrai forse ritenermi responsabile per non aver fatto
morire di fame le mie greggi?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del campo.’
Gli fu condotto il proprietario
Zelabdim che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Zelabdim, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò
fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da
dire a tua discolpa?’
Rispose Zelabdim:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! La mia famiglia vive dell’affitto di quel campicello. E tuttavia lo
annaffio tutti i giorni con l’acqua del pozzo di Abu Fazel l’acquaiolo, senza
la quale l’erba seccherebbe. Vorrai forse ritenermi responsabile di aver voluto
sfamare i miei bambini innaffiando il campo?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del pozzo.’
Gli fu condotto Abu Fazel l’acquaiolo
che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita
nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha
comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi
ora, Abu Fazel, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò
fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da
dire a tua discolpa?’
Rispose Abu Fazel:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero
io sono! Per rendere l’acqua potabile io aggiungo polvere di safran, radici di
mandragola e scaglie di fatipur azzurro.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Tagliategli la testa.’
A sentire la sentenza Abu Fazel balzò
sul davanzale della finestra e si gettò nel buio; le guardie subito corsero
fuori e presero a rincorrerlo tra i vicoli del villaggio. Intanto Ibrahim
Pascià, soddisfatto di aver reso giustizia e sicuro che l’acquaiolo sarebbe
presto stato catturato, si mise a letto e subito s’addormentò.
Ma Abu Fazel non per niente era
acquaiolo e conosceva tutti i pozzi e le fogne del villaggio; per sfuggire
all’inseguimento si era perciò gettato in un labirinto di cunicoli in mezzo ai
quali presto le guardie si erano perdute. Il mattino dopo il capo delle guardie
e il sindaco del villaggio si presentarono a Ibrahim Pascià tutti tremanti:
‘Vedi dunque, Luce del Firmamento, il
volere dell’Altissimo: Abu Fazel l’acquaiolo ci è sfuggito.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto
e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Giustiziatene un altro!’
Nessun commento:
Posta un commento