martedì 15 agosto 2017

Opera vincitrice di Alessandro Cuppini (Bergamo) - satira 2017

L   A          B   A   R   Z   E   L   L   E   T   T   A          D   I          M   A   N   S   O   U   R




   Certo che le barzellette bisogna saperle raccontare, ci diciamo asciugandoci le lacrime dopo un exploit dei nostri grandi comici. Ma il modo di raccontarle in realtà è diverso da paese a paese, e non è detto che il successo ottenuto in un certo luogo sia ripetibile in un altro. Quando, per esempio, un arabo racconta una barzelletta, non lo fa come siamo abituati a sentire noi in occidente. Non è come se vi trovaste di fronte ad un Bramieri che già trent’anni fa raccontava battute fulminanti della durata di dieci secondi. Non lo fa nemmeno come faceva il grande Walter Chiari, capace di tirare in lungo il sarchiapone per dieci minuti. No, la barzelletta di un arabo dura molto, molto di più.
   Quando qualcuno in occidente inizia a raccontare una barzelletta, tutto in noi, mente e corpo, si dispone alla risata. I muscoli facciali si irrigidiscono pronti ad esplodere nello sghignazzo liberatorio e questo atteggiamento del viso viene retto per qualche tempo, quello usuale di racconto di una barzelletta. Ma se il raccontatore è un arabo è bene rilassarsi, perché dopo cinque minuti i muscoli cominciano ad intorpidirsi e a dolere e non reggereste quella tensione per tutta la durata della sua barzelletta. La sua è una storia vera e propria e, se siete a tavola come ero io quella sera al Cairo, è meglio che vi rassegnate a lasciare che il grasso del vostro montone si rapprenda in un angolo del piatto, che il vostro cuscus e le vostre delicate verdure di contorno si raffreddino del tutto, mentre voi vi appoggiate allo schienale della sedia e con la faccia più seria di questo mondo aspettate che la barza si sviluppi e prenda forma, coi tempi necessari al narratore e conformi alla tradizione, fino alla conclusione che non procura mai uno sguaiato scoppio di risa, ma tutt’al più un increspamento di labbra in una smorfia sorridente.
   Avevo invitato a cena Mansour, un personaggio importante che dovevo tenermi buono se ci tenevo a prendere dal cliente egiziano un importante ordine di dissalatori. Eravamo in un ristorante a Zamalek, un’isola in mezzo al Nilo, un elegante quartiere di ambasciate e ricche residenze immerse nel verde. Mansour era un signore raffinato e discendente da nobili lombi. Preferiva esprimersi in francese che considerava lingua molto più adatta all’occasione, evitando la sguaiataggine dell’inglese, che riteneva la lingua degli affari: quella sera non si parlava di affari. Aveva atteggiamenti e stile raffinato da ambasciatore d’antan, un’abilità e un fascino nella conversazione che ricordava quello in uso nel ’700. Eravamo seduti ad un tavolo presso il ramo orientale del Nilo, in quattro: Mansour, la moglie e un’amica della moglie che lui aveva avuto la finezza di invitare:
    Mi sono permesso di invitare anche la signora Tal dei Tali, mi aveva detto, sa, per l’equilibrio della conversazione.
L’equilibrio della conversazione: una gentilezza nei riguardi miei e della moglie, una cosa a cui io, che avevo invitato solo Mansour e signora, non avrei mai pensato.
   Era metà ottobre: la brezza che veniva dal fiume era fresca, le signore tenevano uno scialle a proteggersi le spalle nude. Le chiacchiere fluivano leggere nel ricercato francese di Mansour che teneva banco con arte sopraffina, variando discorsi seri a leggeri, domande cerimoniose a risposte gentili. La sua conversazione spaziava su argomenti disparati, senza mai soffermarsi su ciascuno più del tempo necessario a renderlo noioso.
   Venne a parlare dei tempi antichi in cui l’Egitto era sottoposto al governo dei califfi turchi.
   A questo proposito c’è una graziosa storia che ricordo, disse.
   Quasi ‘une blague’, aggiunse, una barzelletta. Volete che ve la racconti?
   Domanda retorica, che però la sua cortesia gli imponeva. Abbandonammo le posate sul piatto e ci apprestammo ad ascoltare una storia che per quanto Mansour la accorciasse tenendo conto dei miei gusti occidentali non poteva durare meno di venti minuti.
   Si svolge ai tempi della dominazione turca. Ibrahim Pascià, califfo dell’Impero, era in viaggio nel deserto con la sua lunga carovana di cammelli. Nella ricca città di Asyut lo aspettava il Gran Visir Harun-al-Wahda per un importante affare. Erano già molti giorni che marciava a tappe forzate perché il Gran Visir gli aveva ordinato di raggiungerlo il più in fretta possibile. Il cammino era lungo e faticoso, ma Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e ne sopportava pazientemente i disagi.
Una sera la carovana stava entrando in un piccolo villaggio per fermarsi per la notte. Ibrahim Pascià era appollaiato sul suo cammello, circondato dalle sue guardie. Percorrendo uno stretto vicolo, una persiana si aprì all’improvviso e colpì al volto proprio lui, Ibrahim Pascià. L’incidente gli procurò un piccolo taglio sulla fronte. Il califfo scese dal cammello. Poiché era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira, si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Vedete dunque il volere del Misericordioso: dovrò fare giustizia di tutto questo. Conducetemi nella Sala di Giustizia.’
Il sindaco del villaggio profondendosi in mille scuse lo accompagnò nella Sala di Giustizia dove abitualmente si svolgevano i processi.
‘Convocate l’inquilino di quella casa’, disse Ibrahim Pascià.
Fu portata l’inquilina Fatima che piangendo si gettò ai piedi del califfo dicendo:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Fatima, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Fatima:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che donna misera sono! La casa è di proprietà di Omar e non io ho stabilito che fosse aperta una finestra sul vicolo ad un’altezza così pericolosa. E tuttavia le finestre sono fatte per essere aperte, soprattutto al tramonto quando l’aria rinfresca. Vorrai forse ritenermi responsabile di avere aperta una finestra per dare aria alla stanza ove abito?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario della casa.’
Gli fu portato il proprietario Omar che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Omar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Omar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La casa io l’ho acquistata così com’era dall’architetto Fatir. E tuttavia, poiché non mi serviva, l’ho subito ceduta in affitto. Vorrai forse ritenermi responsabile di un incidente avvenuto in una casa che io non ho costruito né abitato mai?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate l’architetto della casa.’
Gli fu portato l’architetto Fatir che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Fatir, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Fatir:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La casa io l’ho costruita solida ed ampia. E tuttavia non potevo ignorare le disposizioni di prevedere una finestra per ogni stanza, come prescritto dal sindaco di questo villaggio. Vorrai forse ritenermi responsabile per aver rispettato le leggi  della Sacra Porta?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il sindaco del villaggio.’
Gli fu portato il sindaco Akbar che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Akbar, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Akbar:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Ho dato disposizione di prevedere una finestra per ogni stanza. E tuttavia non potevo ignorare che agli abitanti di questo villaggio puzzano molto i piedi perché mangiano il formaggio di Mehmet il capraio. Vorrai forse ritenermi responsabile per aver evitato che una famiglia, di notte, morisse di soffoco?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il capraio del villaggio.’
Gli fu condotto Mehmet il capraio che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Mehmet, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Mehmet:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Produco un ottimo formaggio che però fa puzzare molto i piedi di coloro che lo mangiano. E tuttavia le mie capre si nutrono dell’erba che cresce nel campo di Zelabdim; vorrai forse ritenermi responsabile per non aver fatto morire di fame le mie greggi?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del campo.’
Gli fu condotto il proprietario Zelabdim che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Zelabdim, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Zelabdim:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! La mia famiglia vive dell’affitto di quel campicello. E tuttavia lo annaffio tutti i giorni con l’acqua del pozzo di Abu Fazel l’acquaiolo, senza la quale l’erba seccherebbe. Vorrai forse ritenermi responsabile di aver voluto sfamare i miei bambini innaffiando il campo?’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Convocate il proprietario del pozzo.’
Gli fu condotto Abu Fazel l’acquaiolo che piangendo gli si gettò ai piedi ed esclamò:
‘Abbi pietà, Luce del Firmamento!’
Ma Ibrahim Pascià passandosi le dita nel folto della barba disse:
‘Il Gran Visir Harun-al-Wahda mi ha comandato di raggiungerlo al più presto nella ricca città di Asyut e tu vedi ora, Abu Fazel, come questo incidente ritardi il mio cammino. Io infatti dovrò fare giustizia di questo, dopodiché potrò riprendere il mio viaggio. Che hai da dire a tua discolpa?’
Rispose Abu Fazel:
‘Vedi, Luce d’Oriente, che uomo misero io sono! Per rendere l’acqua potabile io aggiungo polvere di safran, radici di mandragola e scaglie di fatipur azzurro.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Tagliategli la testa.’
A sentire la sentenza Abu Fazel balzò sul davanzale della finestra e si gettò nel buio; le guardie subito corsero fuori e presero a rincorrerlo tra i vicoli del villaggio. Intanto Ibrahim Pascià, soddisfatto di aver reso giustizia e sicuro che l’acquaiolo sarebbe presto stato catturato, si mise a letto e subito s’addormentò.
Ma Abu Fazel non per niente era acquaiolo e conosceva tutti i pozzi e le fogne del villaggio; per sfuggire all’inseguimento si era perciò gettato in un labirinto di cunicoli in mezzo ai quali presto le guardie si erano perdute. Il mattino dopo il capo delle guardie e il sindaco del villaggio si presentarono a Ibrahim Pascià tutti tremanti:
‘Vedi dunque, Luce del Firmamento, il volere dell’Altissimo: Abu Fazel l’acquaiolo ci è sfuggito.’
Ibrahim Pascià era un uomo molto giusto e saggio e lento all’ira; si passò le dita nel folto della barba e disse:
‘Giustiziatene un altro!’



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