UN DUE TRE… STELLA!
Era un pomeriggio assolato
di inizio agosto e in paese quasi tutti se n’erano andati al mare o a cercare
frescura altrove. Faceva caldo, molto caldo, e io stavo sulla soglia della mia edicola-tabaccheria
perché dentro il negozio la temperatura era altissima e l’odore del piombo di
stampa dei giornali prendeva alla gola.
Era da settimane che
non si vedeva un temporale, la piazza era polverosa e le macchine parcheggiate
sembravano coperte da un sottile velo di cipria grigia che le rendeva brutte e
tristi, come abbandonate. Da lontano, il riverbero sull’asfalto ingannava gli occhi
e la mente facendo credere che la strada fosse bagnata di pioggia recente.
La vidi sbucare dal
portoncino di legno. Il vestitino di cotone, i sandaletti blu, le trecce lunghe
lunghe e le ginocchia sbucciate. Mi chiesi come diavolo facesse quella bambina
ad avere le ginocchia sbucciate: non usciva mai di casa se non per venire a
comprare le stecche di sigarette per i suoi genitori e per tutti quelli che
vivevano in quell’appartamento, proprio di fronte al mio negozio.
Era una casa vecchia,
con due locali sfitti al pian terreno e un alloggio squallido al primo piano. Quattro
finestre dai vetri non proprio puliti e un lungo balcone completavano l’abitazione
che era rimasta anch’essa sfitta per molto tempo, perché il nostro paese
offriva poco o niente, lontano dalle comodità della città.
Poi, a metà giugno,
erano arrivati loro. Erano in otto: tre coppie, un ragazzo solo e quella
bambina… e vivevano tutti insieme. Talvolta arrivava qualcuno di nuovo che si
fermava pochi giorni e poi ripartiva con lo zaino sulle spalle.
Erano persone strane,
schive e taciturne, che uscivano solo per andare a lavorare… forse. A parte la
bambina, che veniva ogni giorno nella mia tabaccheria, nessuno li aveva mai
visti negli altri negozi del paese… l’alimentari, il panettiere, la macelleria:
probabilmente compravano le provviste in città, perché mangiare dovevano pur
mangiare… Anche in chiesa non si erano mai visti e Don Giulio, che di solito
andava a benedire la casa di chi arrivava nuovo in paese, si era ben guardato dall’andare
da loro.
Una comune… così si
diceva di quella casa: una comune dove vivevano tutti insieme, in promiscuità… Dei
comunisti senza Dio…e due di loro avevano pure una bambina, magari senza neanche
essere sposati…
La gente parlava e
sparlava, ma nessuno poteva dire di conoscerli veramente.
La bambina attraversò
con passo veloce la piazza, la testa bassa di chi non vuole farsi notare.
Sapevo che era
diretta alla mia tabaccheria e mi scostai dalla porta per farla entrare. Mi
sembrò tirare un sospiro di sollievo vedendo il negozio deserto. Non parlava
con nessuno e non l’avevo mai vista giocare in piazza con gli altri bambini. Mi
chiedevo se a ottobre avrebbe frequentato la scuola del nostro paese.
«Due stecche di
sigarette… le solite…», disse in un soffio, srotolando le banconote che teneva
in tasca e porgendomele.
Poi, preso
velocemente ciò che avevo appoggiato sul banco, scappò via di corsa, senza
neppure salutare.
La vedevo tutti i
pomeriggi, sul balcone di quella casa: giocava da sola, anche se in piazza
c’erano altri bambini a cui avrebbe potuto unirsi. E invece no: li osservava, magari
avrebbe voluto essere lì con loro… ma probabilmente non le era permesso. Forse i suoi genitori temevano qualcosa.
Forse non doveva parlare con i suoi coetanei.
Chissà!
«Un due tre… stella!»,
pronunciava ad alta voce con gli occhi chiusi, girata verso il muro, per poi voltarsi
di scatto a guardare compagni di gioco immaginari e, col dito indice puntato, gridare:
«Tu… e anche tu… vi siete mossi… vi ho visto!».
Se c’erano bambini in
piazza e la sentivano, cominciavano a prenderla in giro, ma lei continuava
incurante. Una volta, uno di loro l’aveva invitata a scendere per giocare
insieme, ma lei non aveva risposto: era rientrata frettolosamente in casa e per
tutto il pomeriggio non l’avevo più vista sul balcone.
«Un due tre… stella!».
Anche quel pomeriggio, sul balcone invaso dal sole accecante di agosto, la
bambina si era messa a giocare. Ammiravo la sua fantasia e, allo stesso tempo,
mi faceva una gran pena saperla tutta sola, su quel balcone che, guardato dalla
prospettiva del mio negozio, sembrava una gabbia con dentro un animaletto
irrequieto.
«Un due tre… stella!»,
continuava imperterrita mentre la osservavo stando sempre sulla soglia della
tabaccheria… che tanto quel giorno avrei fatto meglio a chiudere, giacchè la
piazza e le strade erano deserte per il caldo.
Ad un tratto vidi aprirsi
il portoncino di legno sotto al balcone. Uscirono un uomo e una donna, quelli
che avevo immaginato fossero i genitori della bambina.
«Mamma… papà… ciao!»,
li salutò infatti lei dal balcone, per poi riprendere subito il suo gioco… Un
due tre… stella! Un due tre… stella!
I genitori non alzarono
neppure lo sguardo verso di lei.
Li adocchiai
incuriosito: non uscivano mai a metà pomeriggio, ma solo la mattina presto, all’ora
in cui io aprivo il negozio. Sembrava che si sentissero osservati, seguiti,
perché, mentre stavano andando a prendere l’auto, una Fiat 127 verde oliva
parcheggiata lì nella piazza, si guardavano intorno come intimoriti.
«Un due tre… stella…»
fu l’ultima cosa che sentii prima delle sirene spiegate.
Tre volanti della
Polizia fecero irruzione nella piazza andando a rompere quel silenzio fatto di
sole e di polvere e di caldo.
Io, d’istinto,
scappai dentro il negozio ma, nonostante la paura, una curiosità prepotente mi
fece rimanere fermo dietro la porta a vetri, per vedere cosa stava succedendo.
Dalle auto scesero
diversi uomini, tutti col giubbotto antiproiettile e le pistole in pugno.
«Mani in alto!
Polizia!».
I miei occhi andarono
alla bambina sul balcone. Aveva smesso di giocare e guardava attenta cosa stava
succedendo di sotto, accovacciata dietro la ringhiera, la faccia incredula.
Strano, ma sembrava che accanto a lei, messi nella stessa posizione, ci fossero
i suoi amici immaginari, quelli che giocavano a “un due tre… stella” e che
immancabilmente si facevano sorprendere mentre si muovevano.
Quando il mio sguardo
tornò alla piazza, partì il colpo di pistola verso l’uomo che aveva tentato
un’inutile fuga. La donna, con le braccia alzate e un’arma puntata contro, cominciò
a urlare vedendo il suo compagno a terra, inerme. La bambina sul balcone, no! Dalla
sua bocca non uscì una sola sillaba. Scorsi solo i suoi occhi spaventati che sembravano
voler schizzare via dal volto che era diventato mostruoso per l’orrore.
Il suono delle sirene
delle volanti fu sostituito da quello dell’ambulanza. Non so chi l’avesse
chiamata… forse qualcuno di quella casa, magari nella speranza di salvare il
loro compagno…
L’uomo a terra pareva
un fantoccio di pezza: le braccia scomposte, la posizione innaturale. Fu
caricato su una lettiga e, dopo che il medico gli tastò il collo e scosse la
testa, l’ambulanza ripartì con a bordo non un ferito ma un morto.
Poi, dopo quei momenti
lunghi il tempo di una vita spezzata, la piazza fu di nuovo, soltanto, un posto
assolato, pieno di polvere e di macchine coperte dal sottile velo di cipria
grigia. Come non fosse successo nulla. E la bambina sul balcone era scomparsa.
Il suo gioco si era interrotto, come la sua infanzia.
Brigatisti! Così
titolarono i giornali il giorno dopo… quei giornali che io vendevo nel mio
negozio.
Brigatisti, quelli
della comune! Così disse la gente.
Erano gli “anni di
piombo”… con questo nome sarebbero stati consegnati alla Storia… e per questo
nessuno si stupì, nemmeno del fatto che fosse successo in un paese piccolo come
il nostro, estraneo ai cortei studenteschi e agli scioperi, lontano dalle
grandi città e dalle occupazioni di università e fabbriche. Nessuno si stupì
perché si sapeva che le Brigate Rosse ormai avevano rami ovunque.
Ma, nei giorni
successivi, i racconti su quanto era successo si moltiplicarono, ricamati con
sempre nuovi particolari. Dissero che le due persone arrestate avevano
partecipato a numerose rapine e addirittura al sequestro di “quello degli
spumanti”[1] di Canelli. Dissero che
avevano piazzato bombe e ucciso persone. Dissero che anche quel giorno avevano
sparato, per non farsi arrestare. Dissero che qualcuno li aveva “traditi”
facendoli cadere nella trappola della Polizia.
Dissero tante cose… ma
in fondo nessuno sapeva nulla di loro, e quel giorno nella piazza non c’era anima
viva: solo io e la bambina sul balcone. Quell’arsura provvidenziale li aveva
portati tutti al mare o li aveva chiusi in casa, davanti al ventilatore acceso…
quasi a voler risparmiare loro l’incontro con un piccolo pezzo di Storia di
quegli anni terribili.
Nessuno però parlò
della bambina… La bambina che giocava sul balcone e che aveva visto tutto. Che
aveva visto arrestare sua madre e morire suo padre.
La bambina che era
stata costretta a vivere in un mondo di soli adulti.
La bambina che stava
pagando le scelte scellerate dei suoi genitori e di una generazione che parlava
di “lotta di liberazione della classe operaia” e lo faceva con le armi e con le
bombe, con il sangue e con la morte.
Sembrava non essere
mai esistita, quella bambina, anche se io continuai per giorni, mesi, anni, a
sentire la sua voce squillante provenire da quel balcone ormai privo del suo
gioco.
Un due tre… stella!
[1] Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato dalle Brigate Rosse il 4 giugno 1975.
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