FURAHA
Era rannicchiata nella radura: piccola, un insieme di ossa fragili, sola, con gli occhi aperti ma spenti. La scimmietta aspettava la morte, ormai le speranze per lei erano finite. Abbandonata dalla madre o chissà, sottratta al branco da qualche disgraziato. Il suo piccolo, piccolissimo corpo si stava arrendendo, quando, mio zio la vide.
Anime simili a stracci vecchi e sbiaditi in corpi stanchi, marciavano verso la costa. Finalmente la guerra era finita e i vivi potevano attraversare di nuovo il mare e tornare nel calore delle loro case e cercare di imbastire e ricucire ciò che era, ed impastare il tutto con un’idea di pace che potesse permettere loro di andare avanti. I morti, loro sì, erano in pace ovunque i loro corpi giacessero: in patria, in terra nemica o nelle colonie.
Quanto era stato anelato quel momento! Finalmente la libertà. Ne parlavano sommessi, alcuni piangevano. Basta atrocità, orrore, infamia. Sofferenza e morte erano stati i loro compagni di viaggio in quella terra lontana. Alcuni avevano lasciato sul campo di battaglia dei pezzi di corpo: tutti avevano lasciato dei pezzi di anima. Ma ora si tornava a casa. Potevano piangere e sorridere: tra poco, tra pochissimo avrebbero riabbracciato i loro affetti. Mogli, figli, genitori, fratelli: tutti a casa ad attendere il loro ritorno.
Mio zio afferrò quel corpicino malandato, lo infilò sulla pelle, sotto la camicia e con fare indifferente continuò a marciare. Di nascosto provò a nutrirlo, lo pulì come poté. Era una scimmietta femmina: il cuore batteva ma lei non muoveva nulla come se la vita fosse un affare che non le appartenesse. Solo dopo molte ore il corpo iniziò a reagire a quelle cure rudimentali.
Le brutture della guerra trasformarono lo zio in un uomo silenzioso: spesso i suoi occhi si fermavano a guardare cose che solo lui poteva vedere.
Lo zio! Alto, di stazza imponente con quegli occhi liquidi e bovini. Le cattiverie e le barbarie non erano riuscite a scalfire il suo animo buono. Ringraziando Iddio rimase puro e semplice per tutta la vita. Non raccontava della guerra: quando qualcuno chiedeva, lui rispondeva semplicemente che la guerra la capisce solamente chi l’ha vissuta. Poi se ne andava nella stalla. Lo sentii spesso parlare con gli animali: bisbigliava in dialetto, a volte piangeva.
Per tutto il viaggio la scimmietta lottò tra la vita e la morte ed infine decise per la vita. Nel cuore della notte, mentre la nave viaggiava serena in alto mare e il vento non fiatava, mentre i soldati dormivano o fumavano silenziosi sul ponte, mentre la terra d’Africa si allontanava come si allontanano i presagi peggiori, mentre la guerra pareva lontana e finita da una vita intera, lo zio sussurrò all’orecchio della scimmietta il nome che aveva scelto per lei: “Furaha”. Sapeva che significava “fortuna”, aveva sentito tra la folla di una città delle donne ripetere quella parola; gli era parso un suono dolce tanto che non se l’era più scordato. Ora, in quella notte che segnava la fine, sentiva una necessità fisica di fortuna.
Costretti a sprecare anni preziosi a rincorrere il nulla, ad imbracciare fucili, prendere ordini da uomini mossi da sentimenti cattivi, veder soffrire e veder morire. Doveva per forza iniziare un periodo di pace dove ognuno, a modo suo, avrebbe potuto costruirsi una normalità, una vita. “Furaha!” ripeteva sorridendo. Il suono acquistava un sapore dolce, zucchero per l’anima. Leniva e curava.
Una volta giunto in famiglia, lo zio, donò quel mucchietto d’ossa a sua madre come una reliquia, un pezzo d’Africa strappata alla disumanità. Divenne il simbolo del ritorno a casa. La nonna pensava addirittura che quell’esserino fosse un dono del cielo, un talismano. Il figlio era tornato sano e salvo, senza mutilazioni, senza un graffio apparente. Il suo corpo era integro e questo, ad un genitore, a volte basta. Durante le lunghe notti insonni, la sagoma dello zio si stagliava contro la collina e il fumo del sigaro saliva verso le stelle, la casa dormiva. Nessuno sapeva.
Mia nonna accudì con amore la scimmietta e accettò lo strano nome che il figlio aveva scelto per lei. Furaha era la sua ombra: dove c’era una, immediatamente compariva l’altra. La nutriva con pazienza e spesso le piccole mani rugose della scimmietta si avvinghiavano al suo collo e tra le sue braccia dormiva serena. Da frugoletto fragile ed indifeso divenne in pochi anni una grossa scimmia dal manto scuro, dallo sguardo profondo con denti ed unghie affilati.
L’amore che provava per la nonna era assoluto: la adorava. Si sedeva in cucina con lei nelle lunghe sere invernali. La nonna la vezzeggiava. Lei emetteva versi di felicità. Spesso si intendevano con uno sguardo. Erano complici a modo loro. Ma col passare del tempo Furaha iniziò a cambiare atteggiamento. Non gradiva che le persone si avvicinassero alla nonna, non vedeva di buon occhio i bambini. Aveva sviluppato una sorta di amore a senso unico: la nonna era sua, sua soltanto. La mole di Furaha divenne importante, era alta e pesante e quando pensava di dover proteggere la nonna diventava una furia.
A quel punto intervennero gli uomini di famiglia: la decisione fu presa in modo sbrigativo. Poco valsero le proteste e i pianti di mia nonna. Erano tempi ruvidi, in cui alle donne non competevano le decisioni. L’uomo portava i pantaloni e questo bastava a far sì che la donna piegasse la testa al suo volere. Lo diceva la moglie in chiesa il giorno in cui si sposava: con una formula concisa giurava fedeltà e sottomissione. E per tutta la vita quella frase ripetuta davanti a Dio e stampata a fuoco nell’anima, diveniva Vangelo. Quel mattino quando la nonna entrò in cucina, Furaha le dava le spalle: il volto guardava desolato il muro, gli occhi erano spenti. Non mangiò. Nel pomeriggio i braccianti del circo arrivarono presso la cascina dei nonni: legarono Furaha. Come un prigioniero che inesorabile cammina verso la sua esecuzione, raggiunse la gabbia “a testa alta”. Non un lamento. Non si voltò, quasi temesse di incrociare gli occhi di quella donna che per lei era diventata una madre. Non voleva aggiungere e amplificare il dolore immenso che provava e allo stesso tempo, non voleva acuire il dolore della nonna.
Mite si rannicchiò nella gabbia. Nonna pianse per molto tempo la perdita di quella “figlia”. Il suo carattere duro e forgiato di donna a cui la vita non aveva risparmiato alcun dolore, divenne fragile. Perse la sua bellezza fiera. Come suo figlio, guardava ciò che noi non potevamo vedere. Furaha le appariva spesso in sogno come appaiono le anime a cui si è legati da un amore privilegiato. In uno di quei sogni la scimmietta consolò mia nonna, la cullò dolcemente e la portò via con lei.
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