mercoledì 24 aprile 2019

Giuseppe Mandia - Morire in un giorno di festa


Morire in un giorno di festa
(a G. G. e G. L. morti sul lavoro il giorno di Pasqua)


Non fa festa la morte. Non conosce fermate né ricorrenze.
Con proditorio spregio ghermisce braccia, gambe, sogni, destini
ogni dì scegliendo la più subdola via per colpire.
Ha sembianze di macchine, cavi elettrici, cisterne,
tettoie, pozzi, impalcature.
S’insinua tra rifugi di buone intenzioni
e protocolli da approvare; faldoni da timbrare
e organizzazioni da verificare;
fogli e intenti spersi tra le caligini
di un tempo che non conosce tempo.
Sbeffeggia leggi che non vincono il suo passo
lente lente riflettendo su come e quando
iniziare la corsa per la vita, per il divenire.
Eppure voi invece repentinamente avevate agito
il vessillo della sicurezza alzato
lasciando in fretta visi gioiosi
la corte di affetti, la tavola colma di abbracci
in quell’ultimo scampolo di aprile che avreste respirato.
È successo in un attimo.
Come deve esser stato atroce così morire.
Un’anomalia quell’esplosione.
È inaccettabile. Lo avevamo detto noi che…
Un coro di voci stampate nel quotidiano che riporta morte.
Disomogeneo impotente esercito di parole
nel rotocalco furioso della morte.
E non rivedranno più queste due giuste anime
la curva morbida abbracciante di un tramonto
il verde vigoroso di un prato in primavera
l’eleganza di un cigno che dispiega le sue ali
il sorriso birichino di un bambino.
Si leva un pianto allucinato
uno strazio che pesca nell’amore le sue reti
mentre una pletora di giacche ben portate
promette giustizia e fine di dolori.
Di là da questi forse
altri due occhi stanno rimanendo orfani.



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