Morire in un giorno di festa
(a G. G. e G.
L. morti sul lavoro il giorno di Pasqua)
Non fa festa la morte. Non conosce
fermate né ricorrenze.
Con proditorio spregio ghermisce
braccia, gambe, sogni, destini
ogni dì scegliendo la più subdola via
per colpire.
Ha sembianze di macchine, cavi
elettrici, cisterne,
tettoie, pozzi, impalcature.
S’insinua tra rifugi di buone
intenzioni
e protocolli da approvare; faldoni da
timbrare
e organizzazioni da verificare;
fogli e intenti spersi tra le
caligini
di un tempo che non conosce tempo.
Sbeffeggia leggi che non vincono il
suo passo
lente lente riflettendo su come e
quando
iniziare la corsa per la vita, per il
divenire.
Eppure voi invece repentinamente
avevate agito
il vessillo della sicurezza alzato
lasciando in fretta visi gioiosi
la corte di affetti, la tavola colma
di abbracci
in quell’ultimo scampolo di aprile
che avreste respirato.
È successo in
un attimo.
Come deve
esser stato atroce così morire.
Un’anomalia
quell’esplosione.
È
inaccettabile. Lo avevamo detto noi che…
Un coro di voci stampate nel
quotidiano che riporta morte.
Disomogeneo impotente esercito di
parole
nel rotocalco furioso della morte.
E non rivedranno più queste due
giuste anime
la curva morbida abbracciante di un
tramonto
il verde vigoroso di un prato in
primavera
l’eleganza di un cigno che dispiega
le sue ali
il sorriso birichino di un bambino.
Si leva un pianto allucinato
uno strazio che pesca nell’amore le
sue reti
mentre una pletora di giacche ben
portate
promette giustizia e fine di dolori.
Di là da questi forse
altri due occhi stanno rimanendo
orfani.
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