venerdì 7 luglio 2023

Francesco Porcu - Cambiasca - Verbania - Segnalato prose

 

I MIEI MONDIALI DEL 1982

 

La prima volta che sentii parlare degli imminenti “Mundial” fu alla fine della terza media...

Il prologo

A quattordici anni non avevo una precisa cognizione del mio posizionamento nella realtà che mi circondava, di ciò che era il passato, di quello che accadeva, né tanto meno del futuro: il tempo pareva dilatato, quasi immobile e la vita reale lì intorno era indecifrabile. Mi sarei poi accorto, passati i diciotto, che il tempo sarebbe iniziato a correre inesorabilmente.

Tutto si sarebbe palesato sempre più lucidamente, come quella grande fregatura che è in realtà la vita. Quell'assurda kermesse a cui ero stato iscritto a mia insaputa, senza essere stato fornito delle istruzioni, né di un regolamento a cui attenermi per affrontarla. Soprattutto, per arrivare poi a scoprire tragicamente, che non c'era una via di uscita, una sorta di “andate in prigione senza passare dal via”, se non la soluzione più estrema e definitiva.

La scoperta dei mondiali avvenne quando al mio compagno, un certo Concetto Indelicato, venne concesso magnanimamente il privilegio, in sede di esame, di poter disquisire, con il personale docente esaminante, degli accoppiamenti dei gironi preliminari che avrebbero poi designato le finaliste del Mondiale.

Lo ricordo tutto sommato come un bravo ragazzo, ma assolutamente, completamente alieno alle costrizioni scolastiche. Oramai aveva sedici anni e rispetto a noi era un adulto con tanto di barba. Potrei descriverlo fisicamente come un Abbattantuono delle prime ore, solo più basso. Indossava sempre un paio di stivaletti a punta, scamosciati, che non levava mai, neanche quando andammo in gita: pare che anche in quelle tre notti passate a Venezia non se ne separò mai. Si spostava su di un rombante Fifty nero, con grasso ovunque. Lo si distingueva per via della sella e delle copri manopole di pelle di coniglio, (potremmo dire anche lapin per essere più à la page, ma nel suo caso stonerebbe...), conciata personalmente da lui. Ai tempi ne eravamo ammirati, oggi, se ci ripenso, la trovo una cosa raccapricciante. All'intervallo, in maniera bonaria, mi tiranneggiava per avere qualcuno dei cracker che mi portavo da casa, nel dubbio non osai mai andare oltre alla prima richiesta benevola.

I professori comunque apprezzarono la sua esposizione. Fummo tutti promossi, lui compreso: ci preparammo quindi per andare al mare. Al ritorno la vita sarebbe cambiata per tutti, chi alle superiori, a Omegna o a Verbania e io mi ritrovai alla Ragioneria; chi direttamente a lavorare (e noi stupidamente li invidiavamo), ai tempi era molto facile trovare un'occupazione. Concetto non l'ho più visto, pare che sia tornato in Sicilia, suo paese d'origine, me lo riferì suo fratello un certo Santo (suo nome di battesimo), la negazione della locuzione latina “Nomen Omen”

 

Loro erano e sono ancora bellissimi.

Non li puoi dimenticare nella classica foto, accasciati e in piedi. La maglia è azzurra, come il cielo e chi se ne frega dell’eredità dei Savoia. I pantaloncini, che in realtà e più prosaicamente non erano che dei grandi mutandoni, sono bianchi, come le nuvole nel cielo azzurro delle casacche, sul cuore lo scudetto tricolore dell'Italia. Lui no, Dino Zoff, il più vecchio e sempre di poche parole, il nostro portiere, la nostra sicurezza, quella più estrema, indossa la seriosa maglia grigia, l'unica dalle maniche lunghe, i pantaloncini invece sono neri. Per tutti i calzettoni azzurri.

Erano, sono, e rimarranno i nostri eroi. Già così inevitabilmente uomini, nonostante i vent'anni, escluso Dino naturalmente, che ne aveva già quaranta. E la cosa appare ancora più evidente se si prova a sovrapporre le foto dell'epoca con quelle dei giocatori attuali.

 

Di calcio non ho mai capito nulla, però sono essenzialmente un gran tifoso, della Nazionale ma soprattutto della mia squadra del cuore: il Cagliari. Mi distraggo spesso nel guardare le partite, non sono mai così attento come si dovrebbe, confondo i giocatori e mi perdo le azioni. Però non posso guardare i calci di rigore perché soffrirei troppo. Nelle fasi cruciali e nei minuti finali mi sudano le mani e mi viene la tachicardia, non parlo e divento abulico. Ma è una droga di cui non posso fare a meno. Mi piace guardarlo in televisione, ma ancora di più, ascoltarlo alla radio. “Tutto il calcio minuto per minuto” rimane per me la migliore e più appassionante trasmissione radiofonica mai realizzata, che ancora coinvolge, nonostante gli anni passati e lo spezzatino di partite, divise su più orari e giorni a cui oggi dobbiamo assistere inermi.

Tanto meno lo so giocare il calcio: che poi noi si diceva il pallone e basta, calcio è già fin troppo forbito e serioso.

In cortile finivo sempre per fare il portiere, nei migliori dei casi era volante, il che mi consolava evocandomi i poteri di un supereroe, oppure se proprio girava male, mi calavo, forzatamente, nelle vesti dell'arbitro. Quando i due capitani designati per acclamazione, sceglievano i giocatori per formare le squadre, rimanevo inesorabilmente sempre l'ultimo, oppure venivo scambiato con altri per fare massa, andando a pareggiare la bravura di qualche fuori classe dell'altra squadra. Non potendo poi portare in dote quei bei palloni di cuoio tipo il “Tango”, ma solo dei “Supertele” coloratissimi, famosi per la loro traiettoria farfallina, tristemente finì per dedicarmi alla bicicletta.

Ma il calcio rimane un gioco molto coinvolgente, facilissimo da comprendere e appassionante alla prima occhiata, che va a stuzzicare i nostri istinti più atavici, il sesso e la combattività. Non per niente i termini per commentarlo finiscono sempre ad andare a parare lì: penetrare, infilare, bucare, eliminare, fare male, aggredire, difendere, combattere, aggredire, schiacciare l'avversario, ecc. ecc.

E poi è un gioco semplice, basta un prato, un cortile o un pezzo di strada; due giacche buttate a terra per segnare la porta e un qualcosa di sferico, meglio se un pallone, ma va bene anche un fagotto di stracci, della carta arrotolata tenuta insieme con lo scotch o una lattina abbandonata, raccattata chissà dove e poi schiacciata ad arte.

Il calcio è una metafora della vita, anche più forte della vita stessa, e così a volte sopravvive solo la metafora. Il calcio è un'idea, un sogno, a volte una tragedia per i suoi tifosi, un mezzo per redimersi o per venire esiliati. È una liturgia fatta di appuntamenti costanti e inflessibili, di un calendario perpetuo. C'è il pre-partita, la partita e il post-partita, il giorno delle polemiche, il momento della moviola e i vari sospetti di complottismo.

E quando tutto sembra finalmente terminato e arriva l'estate, inizia il sogno più grande: il calciomercato! È per me il momento più bello dell'anno, quello che preferisco. Si viaggia sulle ali della fantasia. Si promettono sogni impossibili, acquisti incredibili, bomber da trenta gol per campionato, difensori granatici, e centrocampisti dotati di un’intelligenza da strateghi napoleonici. Poi si ritorna a terra, è arrivato settembre. I migliori giocatori sono stati venduti, gli acquisti più roboanti si rivelano dei bidoni, e quello che si prospetta è il solito campionato di frustrazione e sofferenza.

 

 

L'ouverture

Noi partimmo tutti schiacciati nella nostra Alfasud blu procida. La nostra era la 5M con cinque marce appunto, che ai tempi era una macchina grintosa, peccato che si dissolse nella ruggine come del resto tutte le Alfasud assemblate a Pomigliano d'Arco, dove, dicono i detrattori, gli operai disertassero le catene di montaggio per dedicarsi ad altro, per esempio quando era di stagione, alla campagna dei pomodori.

Si stava stretti lì dentro, il libretto di circolazione diceva che c'era posto per cinque, ma specialmente dietro, in tre, non si stava benissimo. Non c'era l'aria condizionata e come radio si portava quella a transistor di casa, che emetteva più che altro distorti suoni gracchianti. Mio padre usava la cartina solo quando era troppo tardi. Per questo non era raro che ci perdessimo e che quindi fossimo costretti a inversioni a U o a improbabili tratti in retromarcia in autostrada, per riagganciare lo svincolo fallito. In un modo o nell'altro a Genova ci arrivammo e ci imbarcammo per la Sardegna. Allora il porto non era quella meraviglia di adesso, ma uno scalo maleodorante separato dalla città da alte mura. Non so perché ma noi il biglietto non ce l'avevamo mai, così finivamo per sfinirci in enormi code, sperando, a volte supplicando, che ci facessero salire su quelle enormi navi bianche e blu della Tirrenia.

Scendemmo a Olbia e costeggiammo la costa, prima di inerpicarci sul Gennargentu per raggiungere Tonara, il paese originario di mio padre. Papà ebbe l'intuizione di fermarsi in quel paese che si allarga come un liquido sversato sul tavolo, nella pianura alluvionale creata dal Cedrino: Orosei. Parlando in sardo, mio padre ci mise poco a trovare una sistemazione, proprio entrando in paese.

Si stava in una casa affittata dalla gente del posto, come usava ai tempi. Io e mio padre dormivamo nella cucina/soggiorno in una sorta di dependance della casa principale, mia mamma e le mie sorelle in una camera della casa dei proprietari, nella quale, al piano terra, avevano anche una sorta di emporio. Ci vendevano di tutto, senza che avessero frigo o metodi ortodossi di conservazione dei cibi. Ci potevi trovare anche le uova delle loro galline, che allevavano in una sorta di campo di lavoro per pennuti, allestito nel retro della casa: a volte l'odore era insopportabile. Di notte, nel buio, sui muri caldi apparivano numerosi i gechi, fosforescenti come la madonnina che troneggiava sul comodino di mia nonna. Non li avevo mai visti e li trovavo raccapriccianti, e siccome si dormiva con la porta aperta per il caldo, avevo paura che nella notte qualcuno di loro si potesse intrufolare nel mio letto.

Orosei ai tempi era un paese agricolo, che ancora non aveva capito l'importanza della sua costa; infatti, la Marina distava tre o quattro chilometri da percorrere in un lungo rettilineo diviso in due tratte, che solitario attraversava i campi per raggiungere finalmente una sconfinata spiaggia sabbiosa. Ma alla spiaggia, però, ci potevi arrivare solo attraversando una sorta di terrapieno a più gobbe, che permetteva di ovviare a una sorta di stagno che separava il mare dalla Marina di Orosei. Passavamo le ore lì, sdraiati sotto il sole nell'aspettare che scadesse il termine inflessibile e perentorio delle tre ore, fissato da quel carabiniere, di nome e di fatto, che all'epoca era mio padre. Dopo il pranzo scattava il countdown, ma lo scorrere del tempo era lentissimo, così mi perdevo nell'osservare, che è ciò che ancora adesso so fare meglio. Tutt'intorno a noi una galassia eterogenea: mucche allo stato brado; famiglie con le donne in costume tipico; sparuti gruppi di avventurieri tedeschi; bellimbusti dall'età indefinita che cercavano di destreggiarsi con palloni che il più delle volte il vento si portava via lontano, fin dove l'orizzonte del mare diventava di un blu notte; ragazzini neri come il carbone; signorinelle nelle loro prime estati di pubertà, irrequiete come una bottiglia di gazzosa appena stappata; emuli della Paris-Dakar che percorrevano in velocità la battigia con vecchie Toyota o con moto chiassose e fumanti; indigenti ragazzini, magri come esuli di campi di prigionia, che dai paesi limitrofi, si stabilivano lì in baracche che loro stessi erigevano ai primi caldi; a volte un cavallo con il suo cavaliere in gambali, più spesso qualche asino con un uomo in berritta; tanti sardi che tornavano dal continente, dalla Francia, dal Belgio o dalla Germania; un nostro amico che faceva il sub, che amava il reggae (all'epoca non sapevo che cosa fosse) e che diceva che come radio-amatore parlasse con il mondo intero, anche con il Brasile; degli altri ragazzi che avevano un gatto che si chiamava Cosmonauta; un cane spelacchiato, in lontananza qualche gabbiano che sgranchiva le zampe, passeggiando sulla sabbia; pensionati che coi nipotini giocavano alle bocce di plastica; mia mamma seduta sulla sua sedia di plastica sotto l'ombrellone, assisa come toro seduto, guai a farsi raggiungere dal sole, l'avrebbe ustionata; noi tre fratellini nati in fila, frugali e disciplinati come solo allora si era da bambini; mio padre già abbronzato e nerboruto, matto e testardo, come solo un sardo può essere... c'era davvero spazio per tutti e comunque la spiaggia appariva lo stesso come vuota e desolata, talmente era sconfinata. Con lo sguardo, in quei giorni di vento che rendeva terso l'orizzonte, potevi abbracciare l'intero Golfo di Orosei.

 

 

29 giugno, l'Argentina

Fino a luglio inoltrato il mare rimaneva freddo, e non erano rare le giornate che alternavano piogge e schiarite. Spesso si alzava il vento, che diventava talmente forte, dal far incazzare pure il mare. Nel golfo si riversavano onde altissime che noi aspettavamo audacemente a riva cercando di saltarle. Quando inevitabilmente si rivelavano più alte di noi e a nulla serviva il nostro disperato colpo di reni, allora ti soverchiavano. Ti ritrovavano dentro a una centrifuga, non sapendo quando avresti finito di girare e se il fiato immagazzinato ti sarebbe bastato. Poi, passati interminabili secondi ti ritrovavi scaravento a riva, come un naufrago su di un atollo sconosciuto. L'acqua salatissima era entrata dovunque, dal naso e dalla bocca. La gola pizzicava e gli occhi erano iniettati di sangue, offesi dal sale e soprattutto dalla sabbia, che te la ritrovavi dappertutto, nei capelli e in maggior parte nel costume, tanto che quando mi rialzavo, mi sembrava orgogliosamente di essere un superdotato.

Il mare al largo faceva ordine e pulizia e a forza cacciava di tutto dentro il golfo, come se volesse nasconderlo sotto il tappetto di casa. Ti ritrovavi così a turbinare nelle onde insieme a ogni sorta di residuo, da quelli naturali, ai rifiuti, come i numerosi sacchetti di plastica. Quando ti sfioravano restavi col fiato sospeso, terrorizzato dal pensiero che potesse essere il tocco fatale di una di quelle gigantesche meduse rosate, che erano sempre numerose.

Era una di queste giornate, quando quel pomeriggio l'Italia giocò contro l'Argentina. Non mi ero interessato di nulla, quindi non sapevo come il cammino della nostra Nazionale l'avesse portata sino a quel punto. Tanto meno ero a conoscenza delle polemiche contro gli azzurri, del fatto che il nostro Mister Enzo Bearzot fosse stato addirittura accostato a una scimmia, o di quella boutade della stampa scandalistica che insinuava di una storia d'amore tra Rossi e Cabrini, e che poi tutto questo fosse sfociato nel famoso silenzio stampa della nostra squadra. In effetti si veniva da un momento difficile, di cui ai tempi non ero informato. C'era stato lo scandalo del calcio-scommesse, e la squalifica di Rossi, comunque selezionato da Bearzot nonostante il lungo tempo di inattività. Sapevo sì, che si giovava in Spagna, che ai tempi era il paese della cuccagna: chi poteva andava lì in vacanza, raccontando meraviglie e che tutto costasse niente, tanto era forte la nostra Lira contro la bistrattata Peseta. Così per analogia, Rossi, il riabilitato, diventò Pablito, sia per la nazione dove si disputava il Mondiale, sia per fare il verso ai conclamati campioni sudamericani. La radio a transistor era passata dal ruolo temporaneo di autoradio a quello di unico mezzo di informazione nel nostro appartamento; pertanto, non veniva spostata per essere portata in spiaggia. Nelle folate di vento che si sollevano improvvise, ci arrivavano sferzate di sabbia, ma anche a tratti la voce di un commentatore calcistico, che giungeva fino a noi dalla radio dell'ombrellone vicino. Sembrava, ma pareva incredibile, che l'Italia stesse vincendo contro l'Argentina. Eravamo tutti euforici, noi piccoletti e quei pochi che erano resistiti sulla spiaggia.

Poi, drammaticamente la radio smise di ricevere la frequenza: piombammo nell'inconsapevolezza di cosa sarebbe stato, né fummo informati che l'Argentina, dopo i nostri due, riuscì a fare a sua volta un gol. Passarono minuti interminabili, sino a quando, strombazzanti e chiassose, giunsero da Orosei, sino alla Marina, caroselli di numerose auto, soprattutto 127 che andavano per la maggiore, completamente avvolte di carta igienica, con qualche bandiera tricolore svolazzante. Presto, nel piazzale della marina, abbandonate le auto dove capitava, si creò un piccolo capannello di folla, che si dissolse nei due bar che ai tempi fungevano da “Finis Terrae”, dopo c’era solo il Mediterraneo. La festa, che penso terminò a notte inoltrata, ebbe inizio: fiumi di bionda Ichnusa si riversarono tra le sedie e i tavoli di plastica dei due chioschi; i cinquanta lire che non dovevano mai mancare, alimentarono sino allo sfinimento i due juke-box, che diffusero nell'aria sino all'oblio, le hit di quell'estate.

Avevamo vinto contro l'Argentina!

 

 

2 luglio, il Brasile

E tutto cambiò. La gente tornò a riavvicinarsi con entusiasmo alla nazionale, e da lì il passo seguente: ora tutti si sentivano orgogliosi di riscoprirsi italiani. Si era incredibilmente fieri di sventolare il tricolore, senza per questo essere tacciati come reazionari, fascisti o nostalgici risorgimentali. Dimenticati il terrorismo, i conflitti politici e di classe, che avevano scavato dei solchi tra la gente, e invece che ricomporsi, il paese dopo la guerra, se possibile, si era smembrato ulteriormente. Anche mio padre venne preso dalla smania, e iniziò ad interessarsi dei nostri possibili avversari, degli eventuali incroci tra le squadre che si sarebbero materializzate nei prossimi possibili scontri per poi infine perdersi in calcoli matematici complessi, nella speranza di capire, se mai fosse poi stato possibile, arrivare in finale.

Ma alla fine si tornava sempre a punto e a capo. Com'era possibile scavalcare quell'ostacolo insormontabile? Era uno scherzo del destino, un vezzo beffardo del fato, un incubo raccapricciante. Il nostro prossimo avversario era il Brasile. Forse la nazionale carioca più forte di tutti i tempi, anche di quella di Pelé. Il Brasile era sinonimo oltre che di Samba, carnevale, e certo fantastici fondoschiena femminili roteati al suono della musica, di calcio. Il Brasile era il pallone, la fantasia, l'estro. Era ed è la gioia nel giocare al calcio. Se pensavi al Brasile immaginavi schiere di campioni votati al calcio offensivo, cross, goleade, giocate da fuoriclasse, altro che il nostro difensivo catenaccio. Ricordo che infatti un mio compagno di classe era talmente bravo a giocare a pallone, che ormai veniva chiamato solo Brazil, dimenticando il suo nome di battesimo.

Sì, certo le prospettive erano proibitive, ma la febbre nell'attesa dell'evento cresceva. Non avendo noi la televisione nella nostra modesta abitazione, mio padre, in sortite serali dopo cena, si intrufolava nella hall del “Su Barchile”, ai tempi l'unico albergo di Orosei. Nella sua pragmatica strategia, prima fece capolino dai finestroni che davano sulla via, come un gatto che appare sul davanzale scacciato dai padroni. Poi infilando un piede alla volta, a mo’ di un cane dall'occhio umido, che una zampina alla volta guadagna spazio vitale alla volta del salotto, riuscì ad accaparrarsi una poltrona in posizione strategica davanti alla televisione. Lì tra una birretta e qualche chiacchiera in limba con il titolare, poté godersi qualche spezzone registrato delle nostre partite, rari stralci di immagini delle imprese dei nostri avversari, ma soprattutto si alimentò delle analisi tecniche, farneticazioni, polemiche ecc. ecc. dei tanti giornalisti sportivi e opinionisti improvvisati, che da lì in poi iniziarono a essere l'unica cosa che si potrà poi vedere in chiaro sulle televisioni generaliste, in merito all'argomento calcio.

E infatti ormai il pallone è solo chiacchiere, parole sgrammaticate che incensano e poi abbattono, esaltano o distruggono, dirigenti, squadre, allenatori e giocatori, da una domenica all'altra, salvo ritrattare tutto e cambiare opinione in caso di un risultato diverso nella prossima partita.

Ma venne il giorno, allo stadio di Sarrià. Quello che poi per la nazionale verde oro divenne la Tragedia del Sarrià. Il mondiale era affare loro, era scritto. Noi eravamo solo un fastidioso, un trascurabile ostacolo, da superare velocemente a piè pari, per correre in finale: ma così non andò.

I brasiliani schieravano campioni come Cerezo, Junior, Socrates, Zico, Falcao... tutti fuoriclasse che poi imparammo a conoscere nel nostro campionato. Che potevamo contro di loro? Le radioline ora erano tantissime in spiaggia. Segnò Rossi per primo, e poi in totale ne fece addirittura tre e divenne definitamente Pablito. Dopo la paura dall'essere continuamente raggiunti dai nostri avversari, i soliti bagnanti, spalmati sugli asciugamani sotto un sole che stava finalmente diventando quello sardo e cocente che ci aspettavamo, si riunirono in un ideale abbraccio di euforia.

Era accaduto l'impossibile. Presto giunsero fino a lì i conosciuti caroselli di auto avvolte come sempre nella carta igienica. Le bandiere tricolori era diventate tantissime, la gente iniziava a crederci.

Facemmo fatica a tornare a casa. Una volta percorsi i lunghi rettilinei dalla Marina, passata la caserma della Polizia Stradale e arrivati all'incrocio che immette nella statale, nei pressi dell'altra caserma, quella dei Carabinieri, trovammo un caos indescrivibile. Ovunque uomini euforici, già visibilmente alticci, in giro per la strada con bicchieri e bottiglie in mano; folle di motorini, che ai tempi erano simili a quelli che avevamo al nord, ma solo più bassi con delle ruote piccole piccole; anziani nei loro vestiti di fustagno con le berritte in testa; donne con le loro gonne lunghe a pieghe; ragazze e ragazzi; bambini con i piedi neri dalla pelle scura come il carbone... Stavamo tutti impazzendo dalla gioia. Trafelati riuscimmo a fare breccia in quella follia collettiva, che aveva invaso quel paese apparentemente immobile, che ai tempi era più agricolo che turistico, e guadagnammo casa, dove mi aspettavano le galline e più tardi i gechi.

 

 

8 luglio, la Polonia

Quel pomeriggio c'era la Polonia: e chi l'aveva mai sentita nominare quella squadra? Nonostante l'avessimo già incontrata nei preliminari, io neanche mi ero mai posto il problema che la Polonia potesse avere una Nazionale.

Si prospettava come tutto molto facile, solo una formalità, una pratica da sbrigare molto velocemente. In effetti, chi poteva fermarci se avevamo già schiantato in serie, Argentina e Brasile? E poi a loro mancava pure un certo Boniek, un biondino che pareva essere il migliore, uno che poi avremmo tutti conosciuto molto meglio: il Bello Di Notte, come lo soprannominò l'Avvocato per le sue imprese nelle coppe.

Ma come si sa, specialmente nel calcio, ciò che è più facile diventata pericoloso e a volte ci si può anche complicare la vita da soli. Gli almanacchi sono pieni di aneddoti dove la squadra meno titolata, l'outsider uscita da chissà dove, fa lo sgambetto alla squadra più blasonata. In effetti una certa apprensione in spiaggia c'era: tutti cercavano di tradire il nervosismo, si era tutti terrorizzatati che dopo le imprese che avevamo compiuto si potesse inciampare nell'ostacolo più facile. Allora per scaramanzia si dava più valore di quello che in effetti aveva a quella Nazionale del nord Europa. Si voleva imbrogliare il destino che chissà perché avrebbe potuto giocarci un brutto scherzo, e far sì che potesse verificarsi il più terribile di tutti gli incubi: gabbati in vista della terra promessa da una squadretta... proprio noi, l'Italia!

Ma in realtà niente avrebbe potuto fermare la squadra che ora era diventata l'Italia. Infatti, sbrigammo molto bene il compitino, quasi un allenamento: Rossi ne fece altre due, andavamo in finale! Peccato per Antognoni che si infortunò e si perse l’occasione unica di disputare la finale.

 

 

11 luglio, la Finale, la Germania Ovest

Il sabato e la domenica lo passavamo a Tonara, dove ci aspettavano la vecchia nonna e lo zio. Nonostante in linea d'aria la distanza fosse irrisoria, in realtà quello che compivano per raggiungere quel paese di montagna sul Gennargentu, era un'impresa epica. Il viaggio era lunghissimo e noioso. All'inizio si viaggiava abbastanza velocemente nei rettilinei costeggiati dagli oleandri, ma presto ci si inerpicava sui fianchi dell'Ortobene per raggiungere Nùoro. Gli asfalti delle strade erano come lava e l'orizzonte traballava per l'aria rovente. Intorno qualche quercia da sughero e i tantissimi fichi d'india. Si pregava di non trovare sulla strada qualche camion o peggio un trattore, altrimenti sarebbe stato impossibile sorpassarli. Poi un tratto di superstrada, di nuovo i tornanti per raggiungere il lago artificiale che ha colmato la valle e di nuovo interminabili tornanti, mentre intorno la vegetazione si faceva sempre più fitta man mano che si saliva. Finalmente, dopo il caldo che ti appiccicava ai sedili, il mal d'auto che ti rendeva debole e indolente, arrivavamo a mille metri sul livello del mare, raggiungendo Tonara.

La partita della finale era fissata per la domenica sera, dopo cena. Per le otto avevamo già sparecchiato ed eravamo pronti ad incollarci alla tele. Venne levata quella sorta di coperta o tovaglia che la proteggeva, ancora quell'elettrodomestico non era diventato il despota in cui si sarebbe trasformato negli anni successivi, e quindi non aveva ancora preso le redini dei discorsi e delle conversazioni familiari. Il televisore se ne stava ancora lì buono, se non interpellato, del tutto ignorato, placidamente spento per la maggior parte delle ore della giornata.

Ma era arrivato il suo momento, quindi accesi il trasformatore che stava nel piano inferiore del carrello su ruote, che immancabile in ogni casa sorreggeva sul piano superiore di vetro anche il televisore stesso. Finalmente, con grande ritardo, lo schermo si accese, tanto che ci stavamo già dimenticando di averlo avviato. In realtà la visione non era delle migliori, in un bianco e nero sfuocato ed alquanto soffuso, le figure si materializzarono definendosi confusamente. Si faceva fatica ad afferrare i contorni del campo e le fisionomie dei calciatori che erano già in campo. Nelle inquadrature da lontano era poi praticamente impossibile riconoscere la palla, che non era che un punto bianco tra le varie sfumature di nero e grigio. A quel tempo noi non avevamo mai avuto la televisione a colori, e io mi ero talmente assuefatto all'assenza di colore, che la mia fantasia mi fece apprezzare comunque l'azzurro delle maglie sul verde del campo. Il commento era dell'immancabile Nando Martellini. La sua voce pareva lontanissima, come se parlasse al telefono; infatti, avevo la stessa sensazione di quando chiamavo i miei nonni materni in continente, nella cabina a gettoni della piazza. Mia nonna era analfabeta e parlava quasi sempre in sardo, anche se in realtà quando faceva dei rari discorsi in italiano era grammaticalmente irreprensibile, merito della lingua sarda che aiuta a coniugare i verbi e costruire le frasi in modo ineccepibile. Nel suo costume sardo totalmente tinto di nero perché era vedova da anni, con i suoi manoni che sembravano due pale da panettiere, usava sedere nella sua seggiola di legno e paglia vicino alla tele. Dovevamo spiegarle tutto, anche quando guardavamo i film insieme, anche i più semplici. Poi lei immancabilmente finiva sempre per parteggiare per l'assassino o il cattivo di turno, apostrofandolo con il vezzeggiativo di meschineddu, non capendo che non era il protagonista buono, ma che in realtà era il contrario.

Quella sera lei ci notava inspiegabilmente agitati e osservava con sospetto quella fibrillazione che serpeggiava tra noi fratellini. Dovemmo spiegarle per filo e per segno quello che stava accadendo. Eravamo soli, io e le mie due sorelle: i miei erano scesi al Noccioleto, un albergo che gestiva uno dei miei zii.

Che poi in effetti erano tutti zii e io non ci capivo mai niente, perché la parola Tiu in sardo, (con la variante Tia al femminile), identifica sia lo zio che il generico signore. In campo, contro le maglie azzurre dell'Italia c'erano schierate quelle bianche, ortodosse e granitiche della Germania Ovest: i pantaloncini era neri.

Per mio padre, per evitare confusioni e con l'intento, (a sua totale discrezione), di renderci la vita più facile, quella era più semplicemente la Germania buona, l'altra la Democratica, nonostante il nome, era quella cattiva. E chi l'avrebbe detto a quel tempo, quando non si faceva che leggere di rocambolesche fughe dall'altra parte del muro o vedere decine di film di spionaggio ambientati a Berlino, che poi si sarebbero riunite, e che per la terza volta negli ultimi anni, una volta di nuovo insieme, i tedeschi sarebbero tornati a dettare legge in Europa.

Iniziò subito male, sullo zero a zero sbagliammo un rigore: panico! Intanto Oriali era sempre a terra venendo continuamente malmenato dai perfidi tedeschi. Bruno Conti, con i suoi capelli lunghi, pareva Cavallo Pazzo e imperversava sulle fasce che oramai aveva fatto sue, scodellando palloni su palloni al centro dell'area. Lui era il mio preferito, il mio eroe. Sembrava un uomo dalla forza inesauribile, era infaticabile e onnipresente, con il suo sguardo truce e severo, e quella faccia dura e vissuta, appunto da capo Sioux - Oglala Lakota. Amai poi allo stesso modo Daniele, suo figlio, il nostro storico capitano del Cagliari. Ma alla fine, l'ennesimo di quei palloni serviti da Conti, stavolta posto lì, proprio su un piatto d'argento, arrivò finalmente a destinazione, nel raggio di azione di Rossi che lo cacciò in porta. La tensione iniziava a stemperarsi. Pertini, a fianco del Re di Spagna, esultava senza ritegno di sorta, agitandosi scompostamente sulle tribune. Poi fu la volta di Tardelli, del suo bellissimo gol. Come si può dimenticare quel grido, quell'espressione, quella cavalcata al centro del campo. È ancora oggi la rappresentazione della gioia dirompente che può scatenare la palla quando si insacca in fondo alla rete. Un urlo liberatorio, che scaccia la fatica e la tensione, quando si dimentica tutto e poi una sferzata di energia ti scorre per tutta la spina dorsale facendoti ancora correre più forte. Io penso che tutti, dai cortili di casa, sino ai campi della Champions League, una volta nella vita, quando si è segnato, correndo felici per non si sa dove, abbiamo pensato all'urlo che stravolgeva l'espressione di Tardelli quella sera, immedesimandosi in lui.

Poi arrivò il gol di Altobelli. Infine, anche uno dei tedeschi: ma sì, il gol della bandiera non si nega a nessuno, neanche ai crucchi!

Dopo un tempo interminabile, che ci parve un'era geologica, il fischietto dell'arbitro brasiliano fischiò tre volte. Facendogli il verso, Nando Martellini ripeté anche lui tre volte: Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo: non lo dimenticherò mai!

Esplose la gioia! In campo Bearzot venne portato in trionfo dai suoi giocatori, fin sugli spalti, dove quel vecchietto partigiano gioiva come un bambino. E poi di riflesso, nel mondo che era rimasto col fiato sospeso fino a quel momento, ovunque ci fosse un italiano, nella penisola, in Sardegna e a Tonara nella nostra casa, l'euforia contagiò tutti. Solo Zoff era compassato come suo solito, ricordo che la mia sorellina si innamorò di lui, vedendolo così imperturbabile, una sorta di alieno vulcaniano prestato al calcio. Mai una nazionale italiana era stata così superiore, così votata alla vittoria: i mondiali del 2006 non furono poi niente al confronto.

Ora erano diventati tutti matti dalla felicità. Raggiungemmo i miei al Noccioleto, percorrendo le strade di Tonara, dove una folla si era riversata dalle case: pareva di essere in un termitaio brulicante.

Le macchine passavano a fatica, e degli energumeni a petto nudo, in un posto di blocco improvvisato, le obbligavano a passare sotto il tricolore. Pare pure che mio zio, tra i clienti dell'albergo, imbracciò la doppietta e inizio a sparare in aria per l'euforia.

 

 

L'epilogo

E poi si diventò tutti italiani orgogliosi, patriottici e devoti al tricolore. Le pubblicità dicevano di comprare italiano, la nostra stima nazionale accrebbe a dismisura senza peraltro essere supportata dalle adeguate giustificazioni.

Qualcuno si mise a cantare L'Italiano, mentre qualcun altro rifece una stupida canzoncina tedesca, che diventò Da Da Mundial '82, che in lingua teutonica recitava che tutti i calciatori erano figli di Bearzot. Tutti appiccicavano l'adesivo della bandiera italiana sul retro della propria utilitaria, i più, sbadatamente, invertendo i colori, iniziando stupidamente con il rosso, senza contare quelli che l'azzeccarono per caso. Gli economisti calcolavano quanti punti di PIL avevamo guadagnato grazie alla vittoria, e tutti ci illudevamo che grazie a quella vittoria saremmo diventati un paese più decente.

 

In realtà, a settembre la mafia, (e chissà chi con lei), uccise Dalla Chiesa, facendo capire chi comandava e avrebbe comandato ancora per molto in Italia. Craxi iniziò a legittimare la Milano da Bere con l'Italia dei debiti, che ancora adesso dobbiamo pagare, non sapendo bene in quale era, noi che eravamo ragazzini nel 1982, potremo andare in pensione. E poi negli anni successivi, ogni volta che l'Italia del calcio andava male, tutti a dire, vedrai sarà come nel 1982...

 

Invece, una Nazionale così non la vedemmo mai più.

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