Autori a Mellana: da Bergamo Alessandro Cuppini
L ’U O M O A F O R M A D I U
C’era una volta, ma solo una volta, c’era insomma una volta un pescatore che viveva in un povero villaggio sul mare dell’India. Si chiamava Rajkumar e se la passava male perché il mare dava loro appena da vivere, e tante volte nemmeno quello. Usciva tutti i giorni con la sua barchetta, ma spesso tornava solo con qualche acciuga. Quando prendeva un paio di saraghi o di sarde era una festa nella sua capanna. Ma era raro.
Rajkumar non era un bravo pescatore, altri nel suo villaggio erano più abili. Ma era anche un uomo molto buono. Tutti nel villaggio gli volevano bene perché era gentile con tutti e se poteva aiutare qualcuno lo faceva volentieri, senza badare se perdeva tempo o faceva fatica.
A volte il tempo non permetteva di pescare. Quando c’erano i monsoni, per esempio, piogge violentissime che si scaricavano sul villaggio per tre mesi, il mare era agitato, si rischiava continuamente di essere sbalzati fuori dalla barca, il pesce sembrava sparito. Quei mesi erano duri per i pescatori, e più che mai per Rajkumar e la sua famiglia. Aveva una moglie e due bimbi piccoli, ma nonostante la vita povera e molto semplice si volevano tutti e quattro molto bene.
Un giorno Rajkumar era uscito in mare con la sua barca e aveva pescato tutto il giorno riuscendo a prendere solo tre sarde e un pugno di acciughe. Più o meno come sempre gli capitava. Però tornando era contento perché aveva in tasca due monete che la moglie gli aveva dato al mattino perché, tornando a casa, comprasse un po’ di verdura da cuocere assieme al pesce. Tutto sommato avrebbero avuto una buona cena quella sera: acciughe ed sarde fritte in olio di palma e qualche sedano di contorno. Legata la barca al solito palo nel porto Rajkumar si avviò verso il Mercato delle verdure facendo tintinnare le monete che aveva in tasca.
Proprio all’ingresso della piazza del Mercato vide un fagotto accoccolato in un angolo, e solo dopo qualche istante si accorse che era un uomo, vestito di stracci. Come vide avvicinarsi il pescatore si mosse verso di lui, appoggiandosi sulle mani e sui piedi torti. Quell’uomo era tutto una torsione: la spina dorsale, che formava una specie di U rovesciata gli impediva di stare ritto. Sembrava un enorme ragno, o piuttosto una specie di scimmia; un orribile apparizione ributtante, sporca e spaventosa, un povero essere costretto dall’arco della colonna vertebrale a spostarsi saltellando su mani e piedi.
L’uomo si fermò davanti a Rajkumar guardandolo da sotto in su con occhi tristi:
Dammi una moneta, disse. Sarà la mia cena.
Rajkumar esitò, non sapeva che fare. La sua mano in tasca rigirava le due monete che dovevano servirgli a prendere la verdura per la cena della sua famiglia. Non aveva spiccioli. Come fare?
L’uomo a forma di U aspettava nel buio, la mano tesa. Rajkumar lo guardò negli occhi e si decise: tirò fuori una moneta e gliel’allungò, avrebbe fatto a meno lui del contorno, quella sera.
A quella vista gli occhi del mendicante sembrarono illuminarsi nel buio. Abbassò le ciglia e mormorò una benedizione e poi disse:
Tu sei un uomo buono. La gente normalmente mi dà qualche spicciolo che mi serve per comprare appena qualche banana. Storte come sono, le banane non fanno che peggiorare la curva della mia schiena. Invece con questa moneta stasera al mercato potrò comprarmi tre sedani, tre sedani belli diritti. E chissà che non mi aiutino a guarire…
Rajkumar con l’altra moneta comprò tre sedani per sé e andò a casa. La cena per lui fu costituita semplicemente da una sarda fritta e un’acciuga.
I giorni successivi andò come sempre a pescare, e ogni volta, tornando, si fermava al Mercato delle verdure. Il pover’uomo a forma di U lo aspettava all’angolo della piazza; buono com’era, Rajkumar trovava sempre il modo di regalargli qualcosa e, con la speranza di raddrizzargli la schiena, si sforzava di procurargli dei sedani. L’uomo, che si chiamava Lalit, lo ringraziava e lo benediceva.
A Rajkumar sembrava che la cura funzionasse: settimana dopo settimana, Lalit pareva raddrizzarsi: un giorno lo trovò che camminava sui soli piedi, la settimana dopo era ancora gobbo ma già guardava il suo amico pescatore senza dover alzare la testa, il mese dopo era quasi diritto.
Finché un giorno, andò incontro a Rajkumar al solito angolo della piazza e, mentre il pescatore stava tirando fuori qualche spicciolo perché si comprasse un sedano, l’uomo disse:
No, Rajkumar, non ce n’è più bisogno. Ora sono guarito dall’incantesimo di un mago malvagio che, siccome io sono mago bravo più di lui, per invidia e gelosia mi aveva ridotto a strisciare per terra curvandomi la schiena a forma di U. Ma la cura dei sedani che tu mi hai generosamente permesso di fare mi ha risanato. Ed ora che ho ripreso il mio aspetto e le mie forze, voglio dimostrarti la mia riconoscenza. Vai a comprare quattro frutti di mango, poi prendi una foglia secca di palma e aspettami alla spiaggia del porto. Io verrò là.
Rajkumar fece come gli aveva detto Lalit e dopo mezzora era sulla spiaggia. Il mago era già lì; aveva portato un piccolo tappeto che aveva disposto sulla sabbia. Lalit si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno a spiare, poi prese i quattro frutti di mango, da ciascuno estrasse il grosso seme che ha all’interno e ne mise ognuno ai quattro angoli del tappeto, tagliò la foglia secca a pezzetti minuti, la mise in una scodella al centro del quadrato e li accese con un fiammifero, fece sedere il pescatore al suo fianco sul tappetino e con voce solenne recitò una formula magica: IAS EVOD IMATROP OTEPPAT OCIGAM.
Subito un turbine sollevò il tappetino con i due sopra e in un attimo si involò sopra la spiaggia e il porto, e poi sul mare. Rajkumar non vedeva nulla, ma dopo qualche secondo il vento si placò e loro si trovarono su una spiaggia deserta e sconosciuta. Lalit disse:
Tu resta qui e bada bene al fuoco. Quando sta per spegnersi chiamami e torneremo a casa. Ma mi raccomando: chiamami prima che si spenga!
Poi balzò fuori dal tappetino e si mise a raccogliere quelli che a Rajkumar sembravano granellini di sabbia. Lui stava attento al focherello e quando stava per spegnersi chiamò forte Lalit. Quello tornò di corsa e saltò sul tappetino, pronunciando una formula magica che Rajkumar non capì. Appena in tempo, perché il fuoco si spense e il turbine ricominciò violento come prima. In un attimo si ritrovarono sulla spiaggia del loro villaggio, dove Lalit gli fece vedere quello che aveva raccolto: sei perle piccole ma molto regolari.
Quella era la spiaggia delle perle, dove vive il mago malvagio mio nemico. Ora va dal capo del villaggio a vendergli queste sei perle e non farti imbrogliare!
Poi salutò il pescatore, che lo ringraziò molto, e se ne andò.
Rajkumar andò dal capo del villaggio, gli vendette le perle. Con i soldi ricavati saldò i debiti che aveva in paese con vari negozianti e comprò ogni ben di Dio; poi tornò a casa e quella sera fece festa coi suoi bambini e la moglie.
Il ricavato della vendita delle perle permise alla famiglia di Rajkumar di sopravvivere bene durante la stagione cattiva dei monsoni, e arrivare a settembre, quando ricominciò la solita vita per Rajkumar: aggiustare le reti, preparare la barca, uscire all’alba, buttare le reti e tornare a sera, spesso come al solito con qualche pesciolino appena.
Una sera la moglie disse a Rajkumar:
Nostro figlio ha bisogno di un vestito nuovo. Quello che ha è tutto stracciato.
Prendi la mia tunica della festa, tagliala e fanne vestiti per te e per lui, rispose Rajkumar.
Ma tu rimarrai con solo il vestito da lavoro.
Non importa.
Un altro giorno la moglie gli disse:
Nostra figlia deve andare alla scuola del villaggio. Bisogna comprarle quaderni e matite colorate e non abbiamo soldi.
Prendi il mio anello di matrimonio e vai dal capo del villaggio. Coi soldi che ti darà compra quanto serve alla piccola e comprati un vestito anche per te.
Ma tu rimarrai senza il tuo anello.
Non importa.
Rajkumar fingeva che non gli importasse perché era molto buono, ma in realtà soffriva per la miseria in cui costringeva sé stesso e la sua famiglia a vivere. E diceva tra sé e sé:
Che vita grama! E pensare che basterebbe bruciare un po’ di foglie e raccattare qualche perla alla spiaggia delle perle per vivere bene, facilmente e senza tanto penare!
Questo pensiero continuava a frullargli per la testa: sapeva come aveva fatto Lalit e soprattutto si ricordava la formula magica che serviva a far decollare il tappeto. E allora un giorno senza dir niente alla moglie, invece di prendere la barca e andar per mare decise di provare a tornare alla spiaggia delle perle. Prese i quattro semi di mango, la foglia secca di palma, un tappetino e dispose tutto come aveva visto fare da Lalit. Accese il focherello e recitò la formula magica: IAS EVOD IMATROP OTEPPAT OCIGAM.
Tutto andò bene, il turbine si alzò e sollevò il tappetino trasportandolo in un attimo alla spiaggia delle perle. Lì saltò sulla sabbia e si mise a cercare le perle, che si trovavano qua e là mischiate alla sabbia. Ogni tanto buttava un occhio al focherello per stare attento che non si spegnesse. Ma poi, tutto preso dalla ricerca delle perle, si allontanò parecchio e quando guardò verso il tappeto si accorse che il focherello si stava per spegnere. Corse indietro più veloce che poté; era a pochi metri dal tappetino quando fece un balzo per saltarci sopra. Ma in quel momento il fuoco si spense. Rajkumar recitò la formula magica ma il tappetino non si mosse.
Non si preoccupò: si trattava di accendere di nuovo il focherello. Raccolse una foglia secca di palma, la ridusse a pezzetti, li accese e si preparò a partire. Recitò la formula magica e nulla successe. Un po’ sorpreso ma non ancora impensierito, la ripeté con più forza, parola per parola: la stuoia rimase immobile mentre il focherello bruciava. Pensando di aver commesso qualche errore ricominciò da capo: cercò un albero di mango, colse quattro frutti, ne prese i semi, riaccese il focherello, recitò la formula magica: niente, nessun turbine venne a sollevarlo e portarlo a casa. Riprovò ancora e ancora, senza successo.
Allora Rajkumar si disperò: come avrebbe fatto a tornare a casa, se non sapeva nemmeno dove si trovava? E non aveva nemmeno detto nulla a sua moglie…
La spiaggia era deserta; si accasciò sulla sabbia e si mise a piangere. Dopo un po’ sentì una voce provenire dalle palme alle sue spalle:
Eri venuto per rubare le perle e ora non sei riuscito a tornare, non è vero?
Rajkumar balzò in piedi e si girò per vedere chi era che gli parlava, e non vide nessuno. Capì che era l’invisibile mago malvagio, proprietario della spiaggia. Allora si gettò di nuovo a terra implorando:
Sì, mio signore, abbi pietà.
Che cosa sai fare?
Sono un povero pescatore, rispose.
Bene, farai il pescatore per me, concluse il mago.
E da allora cominciò una nuova vita per Rajkumar, nuova per modo di dire perché in realtà era molto simile a quella che conduceva a casa sua.
Ma la spiaggia delle perle era ben strana e non gli piaceva, perché tutto funzionava alla rovescia rispetto a casa sua: il sole sorgeva dal mare invece che tramontarci, le perle non avevano nessun valore perché erano più comuni dei sassi, le barche non erano normali barche da pesca, ma tre tronchi di tamarindo uniti tra loro da corde, si pescava di notte anziché di giorno, le sarde e le acciughe non esistevano, sostituiti da strani pesci fosforescenti dei quali c’era abbondanza. E in più la gente parlava una lingua incomprensibile, fatta di sillabe affrettate e schioccanti come piccole esplosioni.
Rajkumar fu aggregato ad altri pescatori che lavoravano per il mago della spiaggia. Ognuno di loro aveva uno di quei pericolosi galleggianti costituiti da tre tronchi uniti sui quali si avventurava al tramonto con le reti a bordo. Arrivato lontano un’ora dalla costa, buttava le reti e tornava al mattino, spesso con un buona quantità di pesce. Che però non era per lui, bensì per il mago: tutto il pescato veniva ammassato sulla spiaggia, salvo una piccola quantità che i pescatori trattenevano per la loro cena, e la mattina dopo era scomparso.
Questa vita andò avanti per un anno. Spesso Rajkumar pensava alla moglie e ai suoi bambini e piangeva. Molte volte di nascosto dagli altri pescatori aveva provato a recitare la formula magica sul tappetino, con i semi e la foglia di palma, ma senza che mai venisse il turbine a portarlo a casa.
Finché un giorno gli venne un’idea. Andò in un angolo appartato della spiaggia, preparò tutto come sempre: la piccola stuoia, i semi di mango, la foglia di palma. Accese il focherello fino a formare un fumo denso e odoroso, si mise sulla stuoia e, con una preghiera silenziosa al suo amico Lalit perché l’aiutasse, recitò la formula magica; non come il solito però, ma alla rovescia, lettera dopo lettera: TAPPETO MAGICO PORTAMI DOVE SAI.
Funzionò! Per tornare la formula era sempre la stessa, ma recitata alla rovescia. Un turbine vigoroso lo sollevò rapido in alto nel cielo scuro e dopo qualche istante lo depositò nella sua povera capanna. La moglie e i suoi bimbi stavano dormendo, ma si svegliarono per il gran rumore di vento che era entrato nella capanna. Al vedere il loro papà e marito gli fecero tutti una gran festa.
Rajkumar, previdente, prima di partire si era riempito le tasche di perle, quelle più belle che aveva trovato durante l’anno passato sulla spiaggia dove il sole sorgeva dal mare. E così poté subito saldare i debiti che sua moglie aveva dovuto fare per campare in quell’anno senza l’aiuto del marito.
Riprese a lavorare da pescatore sulla spiaggia dove il sole tramontava in mare, pescando acciughe e sarde, soprattutto acciughe. Di perle gliene erano rimaste abbastanza per superare i momenti difficili, quando arrivavano le piogge del monsone, senza aver più bisogno nel corso di tutta la sua vita di tornare alla spiaggia delle perle. Né d’altra parte ci sarebbe tornato per tutte le perle del mondo.
S E N Z A N E S S U N A D U L T E R I O
Quando Clelia aveva capito che il marito non sarebbe tornato a casa per la notte, le era venuta una rabbia dentro che sembrava soffocarla. Si era alzata di botto dal divano dove s’era seduta a mangiare una mela a morsi selvaggi, e si era andata a vestire per uscire.
Aveva declinato l’invito di Roxana a partecipare ad un piccolo festeggiamento per il suo ritorno da una lunga permanenza all’estero appunto perché aveva deciso di restare la sera col marito, ed ecco che quello, senza nemmeno avvertire, chissà dove e con chi stava passando la serata. Allora aveva deciso all’improvviso, aveva preso un taxi ed era corsa da Roxana. La festa era al suo culmine e Clelia era stata accolta da una decina di amici con grida di giubilo. Tutti erano un po’ brilli e anche lei si era messa a bere champagne. Era praticamente digiuna e dopo due bicchieri si era sentita invadere da una piacevole euforia uguale a quella degli altri.
Ora Clelia stava ritornando a casa, alle sei del mattino. Era la prima volta. L’auto si era fermata non davanti al portone ma all’angolo. Era stata lei a chiedere a Paolo che la lasciasse lì, perché non voleva che il portinaio la vedesse ritornare accompagnata da un giovanotto. Paolo spense il motore e fece per abbracciarla, ma Clelia si tirò indietro, come se vedere il balcone di cucina nel grigio dell’alba rendesse tutto diverso. Scese in fretta e fece cenno a Paolo di andarsene. Poi si avviò verso casa a passi ticchettati e veloci. Era quello l’adulterio?
Il portone era ancora chiuso, non se l’aspettava. Aveva dimenticato la chiave nella fretta di uscire, e con la rabbia che non la faceva ragionare. Se n’era ricordata alle tre quando qualcuno si era offerto di riaccompagnarla. E così le era sembrato facile, più facile, accettare la corte di Paolo che le era stato addosso per tutta sera. Le piaceva quel ragazzone dall’aspetto di un bambino. Aveva passato la notte, o quel che ne restava, con lui, ma questa era un’espressione troppo forte, non vera. In realtà aveva aspettato con Paolo che venisse l’ora in cui il portinaio apriva il portone. Tutto qui. Credeva che aprisse alle sei, e invece no. E adesso era lì, in quell’ora silenziosa percorsa da lontani rumori intermittenti, il motore d’un’auto, l’aprirsi di una serranda, non quel brusio continuo e monotono della città che vive la sua giornata.
E adesso cosa faccio?, si chiese. E assieme sentì il desiderio di essere nel suo letto, girarsi dall’altra parte e riaddormentarsi in attesa del giorno pieno. Ma un attimo dopo provò uno strano e gradevole rimescolio del sangue nelle vene: c’era qualcosa nell’aria frizzante della mattina e nella situazione nuova per lei che rendeva la faccenda piacevole. Ci si buttò come sempre con entusiasmo, contenta di assaggiare la nuova esperienza. Non rimpianse di aver liquidato Paolo che le avrebbe potuto offrire ancora ospitalità nell’auto, ma che l’avrebbe innervosita ancor di più. Non sentiva nessun rimorso per la notte passata fuori, anzi: si sentiva tranquilla. D’altronde la sua era stata una reazione a quanto il marito stava combinando, era stato lui il primo. Si sentiva tranquilla perché aveva saltato il fosso per la prima volta mancando ai doveri non scritti di una buona moglie? Oppure perché, al contrario, si era mantenuta, nonostante la notte brava, fedele al marito? Insomma, era tradimento quello o no? Ma la domanda rimase senza risposta, liquidata da un’alzata di spalle. Era sposata da sei anni e non l’aveva mai tradito. Ma c’era nella sua vita di moglie la coscienza oscura che mancasse di qualcosa, come se non fosse mai stata emancipata nel matrimonio e ancora le toccasse uscire da una minorità nei confronti del marito per essere finalmente pari a lui di fronte al mondo.
Paolo era poco più di un ragazzo. L’aveva portata a spasso per tutta la notte nella sua macchina, su e giù per le colline, fino a vedere le prime luci dell’alba. La sua aria di donna indipendente che Clelia assumeva in queste circostanze l’aveva attirato, ma non sapeva quale timidezza in realtà nascondesse. Col marito Clelia aveva raggiunto una tal confidenza da sfociare in spudoratezza e in sfacciataggine; ma con gli altri…
Qualche volta le avances di Paolo erano state audaci, e una volta l’aveva perfino portata sotto casa chiedendo di salire da lui, ma lei l’aveva sempre respinto. Era stata una notte da ragazzi. Era tradimento, quello?
All’angolo, un bar aveva già tirato su la saracinesca, e allora Clelia si avviò per prendere un caffè. Entrò. C’era la segatura per terra e il barista stava accendendo le luci e la macchina degli espressi. Il caldo del locale le fece piacere. Non provava nessun disagio, dentro al bar, ad un’ora per lei così inconsueta: il barista non la conosceva e anche se fosse stato, lei non doveva render conto a nessuno.
Un caffè doppio ristretto, per favore.
Subito, signora. Ma prima lasciamo che la macchina si scaldi per bene e buttiamo via il primo caffè.
Clelia aprì un pochino il cappotto, rabbrividì lievemente e disse:
Freschino, stamattina, eh?
Alle parole di Clelia il barista si girò e la guardò. E lei fu richiamata alla coscienza di sé dalla presenza e dallo sguardo dell’uomo, si sentì donna ammirata, e provò piacere per questo. Si specchiò nel cristallo dietro le bottiglie: vide la sua solita faccia graziosa e delicata, coi begli occhi azzurri appena un po’ assonnati. Un po’ più pallida del solito per via della notte passata insonne, ma la cosa poteva essere attribuita all’ora mattutina e al fresco dell’alba.
A quest’ora, disse il barista, quelli svegli si dividono in due categorie: gli ‘ancora’ e i ‘già’.
Dunque si vedeva che era una ancora!, pensò, ma non con dispetto, anzi: con una punta di compiacimento. Clelia sorrise:
Ha sigarette?
I tabaccai erano ancora chiusi. Il bar non ne vendeva, ma il barista gliene offrì una delle sue e Clelia si sedette ad un tavolino a fumare.
Entrò un operaio, infagottato in una giacca a vento di una taglia più grande della sua.
Un caffè, grazie, ordinò.
Corretto?, chiese il barista.
No, il grappino dammelo a parte.
L’espresso doppio per la signora, fece il barista, e il caffè per il signore.
Era bollente, Clelia lo sorseggiava. L’operaio bevve il caffè senza zucchero prima di buttar giù il cicchetto d’un colpo solo:
Alla salute di tutti quelli che a quest’ora sono già in piedi, disse con voce roca per via del grappino.
Alla sua, rispose Clelia.
E un po’ si sentì in imbarazzo al pensiero che lei era una di quelli ‘ancora’ e non dei ‘già’, e le parve quindi come se si fosse appropriata di un augurio non suo.
Al mattino, riprese l’operaio raschiandosi la gola, ci si sente forti come leoni e dopo un cicchetto come questo padroni del mondo.
E alla sera?
Alla sera sono morto. Dopo il TG casco dal sonno.
Intervenne il barista. Parlava all’operaio ma guardava Clelia:
Io quando suona la sveglia, alle cinque, caccio una fila di ‘madonne’ che non finisce più.
Vieni a piedi a lavorare?, chiese l’operaio.
Abito a dieci minuti da qui.
Se ti facessi una bella volata in bici come faccio io prima di andare in fabbrica, vedresti che le cose andrebbero meglio. Il freschino ti sveglia e ti dà energia.
L’aria pulisce la testa, disse Clelia.
Ecco, vedi, la signora mi capisce. E dovrebbe bere un grappino anche lei.
No grazie, rise Clelia. Non bevo neanche la sera.
Ma quella era una bugia.
E qui fa male.
E rivolto al barista l’operaio disse:
Dammene un altro. Due grappini prima di incominciare sono l’ideale.
Poi verso Clelia:
- Davvero non posso offrirle…
- No, la ringrazio. Beva lei alla mia salute.
- Va bene.
E buttò giù il secondo bicchierino. Poi continuò:
- Vede, le spiego…
Clelia era lì, in mezzo a quegli uomini e discorreva con loro. Era tranquilla e non c’era nulla che la turbasse. Questa era la novità di quella mattina. Uscì dal bar con l’operaio. Quello salì sulla bici infilandosi i guantoni e stringendosi la sciarpa attorno al collo.
Non ha freddo?, chiese la donna.
Sono corazzato, rise.
E si batté sul petto. Clelia sentì lo scricchiolio dei giornali di imbottitura.
Ogni giorno la ‘Gazzetta’ di ieri. Saluti, signora.
E partì con uno scatto che le fece capire la dimestichezza che aveva con la bicicletta.
Clelia capì che quella notte era successo qualcosa da cui non poteva più tornare indietro. Quel suo nuovo modo di stare in mezzo agli uomini, Paolo, il barista, l’operaio, la faceva diversa. Era stato questo il suo adulterio, questo stare in mezzo agli uomini alla pari. Di Paolo non si ricordava nemmeno più. Pensò al marito: no, non l’aveva tradito nel modo classico con cui gli uomini pensano all’adulterio. Non ce n’era stato bisogno per capire che non l’amava più, che presto avrebbe dovuto darci un taglio: era bastata quella notte fuori casa, quelle chiacchiere con sconosciuti per capire che il suo matrimonio era finito.
Il portone era aperto. Clelia entrò in fretta, il portinaio non si vedeva.
Entrò dal portone e salutò il portinaio che stava passando lo straccio nell’androne. Salì le scale a piedi, senza chiamare l’ascensore, due piani. Lo faceva per abitudine, da quando aveva saputo che era salutare per il cuore.
La casa era surriscaldata, Clelia aveva sempre freddo. La trovò in soggiorno, che leggeva una rivista. Lo salutò senza chiedere nulla, benché per la prima volta da quando erano sposati avesse passato la notte fuori, senza giustificazione. In realtà non aveva combinato nulla di quel che Clelia poteva immaginare: nessun incontro galante, nessuna avventura. Semplicemente uscendo dall’ufficio per recarsi a casa, la sera prima, aveva capito che era finita, che il loro matrimonio non valeva più nulla. Era come il marco tedesco nel primo dopoguerra, un secolo fa: si svalutava giorno per giorno e quel che prima costava così poco, come passare una semplice serata in casa, con lei, a leggere o a chiacchierare (che, anzi, avrebbe pagato), ora nemmeno per un mille euro…
Non era successo all’improvviso, ma lui all’improvviso aveva capito, e d’istinto o per esperienza aveva concluso che bisognava pensarci su, che non ce l’avrebbe fatta a tornare a casa come al solito ad affrontare una serata con Clelia. Ed uscendo dall’ufficio alle sette era entrato nell’albergo lì vicino per passarci la notte. Era venerdì sera e l’albergo era semideserto. Non aveva nemmeno cenato, si era chiuso in camera a pensare e fumare.
Pensava a Clelia, naturalmente, e al loro rapporto durato sei anni, che all’inizio era stato piacevole, come sempre succede. Felice? No, felice no. Dopo qualche mese di matrimonio aveva verificato che la felicità assomigliava assai poco a quel che si era immaginato. Ciò che stava sperimentando era meglio definibile come appagamento, che per di più, per quanto gli sembrasse strano, rappresentava una condizione imbarazzante e tutt’altro che gradevole. Lo metteva a disagio quel qualcosa di eccessivo, di sforzato che c’era nel sentimento che provava, come se fosse stato costretto ad andare in giro in smoking e papillon per tutto il giorno, mattina e giorni feriali inclusi. E in più, quello che definiva appagamento non poteva essere ritenuto una proprietà che si acquisisce o addirittura si eredita per poi soltanto averne cura ed evitare che qualcuno ce la rubi o la svalutazione ce la annulli; no, quel sentimento andava conquistato giorno per giorno, o addirittura inventato ora per ora, e alla fine era snervante e molesto più che rasserenante e piacevole. Più fatica che piacere, ogni giorno di più. Ecco perché quella sera non se l’era sentita di tornare a casa. Per non doversi inventare anche quella sera un qualcosa che diventava ogni giorno più difficile: come un vecchio acrobata forzato al doppio salto mortale, mentre le giunture fanno male e l’elasticità dei bei tempi andati è solo un ricordo.
Quello dell’appagamento era stato un periodo della sua vita che per certi aspetti gli ricordava la ferma militare: per esempio nel dettaglio dell’abbigliamento, o se volete dell’uniforme. Clelia era molto rigorosa e dopo una settimana di matrimonio aveva preteso che lui, che fino a quel momento ci aveva badato ben poco, cambiasse abiti, biancheria, scarpe, cravatte… tutto: un intero guardaroba rifatto in pochi giorni. Tutte cose simili a quelle che aveva portato fino a qualche giorno prima, cose nuove di cui non negava né qualità né comodità né eleganza, che tuttavia gli sembravano una sorta di costume teatrale, un travestimento. Con la vita matrimoniale poi erano mutati la qualità del cibo e gli orari a cui si cenava o si andava a dormire. Niente di grave, piccolezze, modesti incomodi che lui sopportava in cambio dell’appagamento, senza farsi troppe domande, proprio come è opportuno durante il servizio militare. Ma ora i ricordi di quella serenità di abitudini consolidate della sua vita da scapolo, serenità che mai era svanita dalla memoria, tornava assieme al rimpianto e al desiderio di recuperarla. Tutto allora era razionale e pulito, odorava di buono e familiare; ora invece viveva la vita matrimoniale con prudenza, sperimentandola ogni giorno e tastandola con sospetto, come quando tocchiamo qualcosa in albergo o in treno, in ambienti più eccitanti e misteriosi di casa nostra, con la certezza che a casa, poi, bisognerà lavarsi le mani o fare il bagno.
Tuttavia doveva ammettere che la vita con Clelia era più interessante di quella che conduceva prima. Lei era sempre di buonumore, le piacevano i piaceri della vita: si slanciava con avidità su ogni cosa che luccicasse, che sapesse di buono, che non le fosse toccato in sorte fino a quel momento. I primi tempi, forte della sua maggior esperienza, le dava consigli ma ora questo era vano quanto cercare di convincere un leone a diventare vegetariano o suggerire ad un eremita di darsi a vita mondana perché è più divertente. Clelia ora sempre più spesso faceva di testa sua, a volte in aperto contrasto con quanto sapeva che era l’opinione del marito. Sembrava lo facesse apposta, come per affrancarsi dalla tutela di un compagno più vecchio di lei di dieci anni e consumato conoscitore del mondo. Molte volte però adeguarsi alla sua volontà era attraente, perfino affascinante.
Nel fare all’amore, quello che facevano un tempo, appena sposati, riconosceva la sua straordinarietà. Quel che il corpo poteva dare Clelia l’offriva volentieri, con prodigalità e naturalezza, come chi non si aspetta alcun ringraziamento perché non c’è di che ringraziare. Non distingueva le cose dell’amore dalle altre: per Clelia la vita con lui era un unico, perenne convegno galante che di tanto in tanto, a causa di deprecabili contrattempi, bisognava interrompere per qualche tempo. Svegliandosi, lei si alzava di botto senza nessuna fase di risveglio, e si metteva tutta nuda davanti allo specchio: a volte sedeva stupita sostenendo che quella non era lei, altre volte si schioccava un bacio su una spalla, vantandosi di quanto era bella e buona e affermando che il mondo non la meritava. Lui sospettava che il suo atteggiamento dipendesse dal sogno notturno che ancora ristagnava nella sua mente.
Ora tutto era cambiato, e facevano sempre più di rado l’amore, come un dovere. Di notte, restava a guardarla a lungo mentre dormiva. Dopo che si era addormentata riaccendeva la lampada e restava sveglio ore ad osservarne il volto, con la stessa caparbietà con cui da studente passava le notti sui testi di Analisi matematica. Sul suo viso cercava il messaggio, il senso, la risposta ai suoi dubbi, come nelle grottesche formule di matematica dei testi universitari cercava la via per un buon voto all’esame.
Di quei primi tempi appaganti lui ricordava i sogni ricorrenti, da sempre specchio dei desidèri più nascosti. Sognava ad esempio di volare, di essere Amelia Earhart, l’intrepida aviatrice solitaria degli anni ’30. Nel sogno stava trasvolando il Pacifico: era ormai a metà strada tra la California e Honolulu, non poteva più permettersi di tornare indietro, né poteva atterrare da nessuna parte. Non poteva far altro che continuare a volare fino alla terraferma davanti a lei. Il continente che aveva abbandonato, quello conosciuto, era senza dubbio la sua vita prima del matrimonio, ma la meta, l’approdo verso il quale si stava dirigendo nel sogno non era la vita con Clelia: era semplicemente un’isola sconosciuta, nella quale avrebbe dovuto atterrare, ma non sapeva che vita avrebbe avuta, se sarebbe stata serena e sicura o sarebbe stato mangiato dai cannibali. E volando si domandava: sarà l’Eden o la Terra Incognita, quella che i geografi d’un tempo connotavano con la scritta Hic sunt leones? Clelia era il volo in sé, rappresentava l’esperienza, forse l’avventura e il pericolo, ma mai l’altra riva. E poi: perché sognava la grande trasvolatrice e non il suo equivalente maschile, il grande Lindbergh? Forse perché il suo carattere, la sua sensibilità erano più vicini a quelli di una donna? Forse perché la più decisa, la più maschile dei due era Clelia? No, non era così: Clelia era timida, lui lo sapeva, e della femminilità seppure impudica faceva la sua arma migliore. Da quei sogni si svegliava sempre con un po’ d’affanno: senza essere incubi, gli lasciavano nella mente e nel corpo un’inquietudine che passava dopo ore.
Seduto al buio nella camera d’albergo, aveva fumato e pensato alla fase che era succeduta a quella dell’appagamento, all’oggi. Ora gli sembrava che loro due stessero ancora insieme per pura distrazione: lui si era dimenticato di dirle che ne aveva abbastanza e lei rimaneva a ciondolare per casa fino a quando non gli avesse detto di togliersi dai piedi. Del resto, sempre più spesso gli era difficile sopportarla, perché Clelia alternava momenti di ridicoli slanci verso il sublime a fasi di quieta prosaicità; era sempre più spesso irritato dalla sua presenza, dalle sue chiacchiere, dai suoi atteggiamenti forzati. Clelia, purtroppo, era ormai diventata tutto fuorché misteriosa.
Era restato in poltrona tutta notte; verso le due si era assopito, e si era risvegliato a giorno fatto. Aveva fatto una lunga doccia, pagato la stanza e si era incamminato verso casa. Aveva comprato un giornale, l’aveva sfogliato distrattamente. Non si sarebbe per niente meravigliato di trovarci un lungo articolo che lo riguardasse personalmente, con un titolo a lettere cubitali, che dicesse pressappoco: Ieri alle tre pomeridiane, in via Spontini, l’ingegner Russo ha subìto un mortale attentato al suo matrimonio… E magari anche una sua fotografia con la didascalia La vittima, o l’immagine del luogo dove si era perpetrato il crimine. Poi aveva gettato via il giornale, come fosse deluso di non trovar niente di simile.
Ed ora era lì, davanti a lei, e non sapeva cosa dire. Clelia era seduta sul divano, con la rivista sulle ginocchia.
Stranamente riteneva possibile che non solo lei, ma anche sua suocera e il vicino di casa e tutti in generale intuissero quel che gli era capitato. Anche senza bisogno di spiegazioni tutti dovevano sapere che a lui, all’età di trentacinque anni, era accaduto qualcosa di difficile da spiegare, da giustificare, da cambiare, come se nel pomeriggio del giorno prima fosse stato investito da un tram o gli fosse stato diagnosticato un cancro. Un incidente, un accidente per cui ormai nessuno poteva far più nulla, è l’unica cosa era mantenere la calma ed attendere gli eventi. Non c’era stato nessun adulterio, come poteva pensare in questo momento Clelia di fronte al marito che rincasava alle otto del mattino. No, non ce n’era stato bisogno per capire che era finita.
Taceva davanti a Clelia. Per un attimo fu tentato di condividere con lei la decisione che aveva preso, così come avevano condiviso tutto fino ad allora nei sei anni di matrimonio, e aprì anche la bocca per iniziare a parlare. Ma temeva l’ovvia domanda: Perché?, a cui non avrebbe saputo dar risposta. Ma in fondo non era necessario né era opportuno spiegare che cosa gli era successo; era come se a proposito di un terremoto uno si affannasse a spiegare che non è colpa sua, rammaricandosi dell’accaduto e scusandosi perché un mondo intero sta sprofondando insieme a lui. In quel momento non poteva davvero spiegare niente a sé stesso né a Clelia, perché lui stesso cominciava solo ora a capire qualcosa, balbettando e inciampando su parole e concetti, come uno studente che impara una lingua straniera. Alla gente, il mondo esterno, sua suocera, gli amici, piacciono le cose semplici, e difficilmente avrebbero capito. La gente ha un inventario ristretto di sentimenti o di situazioni bell’e pronti: amicizia, amore, matrimonio, avventura, infedeltà, ed è convinta che la vita stia tutta lì dentro. E invece non ci sta per nulla. E quello che ora c’era tra lui e Clelia non aveva per il momento alcun nome e sarebbe stato difficile da spiegare che cosa fosse se non in forma negativa: non-era-più, non era più matrimonio.
Del resto Clelia l’aveva capito bene, anche senza che lui parlasse: lo sguardo basso sulla rivista, sapeva che qualcosa stava per accadere, o forse era già accaduto, e sedeva eretta, in attesa. ‘Soffrirà’, pensò il marito. Ma subito dopo concluse giustificatoriamente: ‘Ma non poi troppo. È forte, ce la farà e semmai sarò io a soccombere, al rimpianto o alla solitudine.’
Si guardò in giro per la stanza: quella camera, con la libreria, le poltrone, il divano, il grande specchio, gli oggetti, tutto questo non avrebbe mai potuto eliminarlo dalla sua vita, l’avrebbe portato con sé fino alla tomba. Si erano molto amati in quell’appartamento, quando ancora erano due estranei, finché era rimasto un po’ di mistero tra loro. Poi adagio adagio il mistero era svanito, ed era sopraggiunto il pudore, che era stato la fine d’ogni cosa.
Si avvicinò e si chinò su di lei. I suoi capelli profumavano di fieno, la fragranza gradevole e familiare del suo shampoo. Ecco le cose che legano, pensò, odori come questi, di cui è impossibile liberarsi. Sedette e cinse il collo di Clelia, ed ora stavano così, avvinti, due corpi che sapevano tutto l’uno dell’altro, non soltanto cuore e cervello, ma anche due stomaci, quattro polmoni, due fegati, ogni centimetro quadro di pelle. Si chinò su Clelia e la baciò. Quella bocca a lui così familiare, della quale conosceva il sapore e il modo con cui si atteggiava durante il bacio, gli rispose docile, morbida e impudica, proprio come ai vecchi tempi quando c’era ancora del mistero tra loro. Di colpo Clelia divenne una misteriosa estranea, si alzò, andò a chiudere la porta, lo prese per mano e lo portò in camera da letto. Senza dir nulla cominciarono entrambi a spogliarsi.
Clelia ora giaceva sul letto a occhi chiusi, nuda, ma come su un tavolo operatorio. La abbracciò. I due corpi si spingevano arrendevoli, l’uno contro l’altro, come quelli di due acrobati che riescono a prevedere ogni movimento del partner con un guizzo d’anticipo e con grazia si lanciano in reciproco soccorso. I loro corpi si erano salutati come se si riconoscessero; era sempre stato così, sin dal primo istante, da quella sera in cui avevano fatto all’amore per la prima volta. Si erano amati profondamente fin da subito, ma senza esplosioni di gioia esagerata, con la confidenza di due membri della stessa famiglia, con l’intimità che si crea tra due persone affini. E Clelia era generosa e altruista in amore, come chi non si preoccupa di quanto sperpera, perché tanto resta tutto in famiglia.
Con lei in passato aveva discusso di tutto, di tutto ciò che il corpo può dire. Lei aveva una chiara percezione del suo corpo, nel quale si trovava a suo agio perché tra lei e i suoi sensi non c’era nessuna distanza artificiosa, e conferiva alle funzioni del suo corpo, anche le più semplici e materiali, il carattere di una singolare cerimonia pagana. Non distingueva i giorni feriali dai festivi, celebrando il corpo in continuazione. Con piccole cerimonie ripetute era capace di mettersi a chiacchierare con mani o capelli, di accarezzarsi affettuosamente il seno. Tanto era pudica in pubblico quanto era spudorata in privato. Non considerava la nudità come il costume di scena dell’amore che gli attori indossano solo all’ora del rito; in casa stava spesso nuda, e si vestiva solo più per ragioni climatiche che per obbligo sociale. Ma ora non era più così, ora si copriva e il pudore, che d’altra parte è una delle più belle qualità in una donna, aveva preso il sopravvento.
Ed ora facevano all’amore, come sempre. Come sempre? No. I primi tempi si gettavano uno sull’altro, un marziano che li avesse osservati avrebbe pensato: ‘Ma che strani movimenti, questi dell’amore tra due terrestri! Che cos’altro può essere questo mordersi, abbrancarsi, afferrarsi per il collo, questo disperato usare le mani, i pugni, le unghie, i denti, questo rabbioso frugare in un corpo altrui, che cos’altro può essere se non una disperata scena di collera, una punizione, una resa dei conti? E questi si amano?’, avrebbe concluso. ‘Ma che faranno allora quando si arrabbiano?’ Ed in effetti era come se ciascuno dei due pretendesse qualcosa dall’altro, rantolando e lottando, completamente sprofondato nell’altro.
Ma adesso no, adesso era un’altra cosa.
‘Ora non c’è mistero’, pensò. ‘Siamo due corpi che si servono a vicenda, come a tavola ci passiamo il sale e l’olio per l’insalata, senza nemmeno che ci sia bisogno di chiederselo a vicenda. E intanto io me la prendo comoda, e posso pensare ad altro, perché tanto il mio corpo sa benissimo cosa deve fare. E così il suo. Due acrobati che eseguono un gioco di destrezza, fino al doppio salto mortale finale.’
Udì un digrignare di denti, un grido breve e soffocato e giacque immobile. Tutto era stato consumato in silenzio. Dopo un minuto si alzò e si rivestì.
Clelia era rimasta distesa sul letto, come se dormisse. Sulla porta si voltò a guardarla e temette che avrebbe potuto prender freddo. Così ritornò presso il letto e la coprì col lenzuolo. Uscì in punta di piedi, in corridoio si arrestò un istante al pensiero che forse avrebbe dovuto prendere qualche vestito, due camicie, un paio di libri; ma poi guardando l’orologio trasalì, come chi si accorge di essere in ritardo. E allora uscì in fretta dall’appartamento, chiudendo piano la porta.
I L T A P P E T O Q A S H Q A I
C’era una volta un re che aveva un unico figlio, destinato a diventare re a sua volta alla morte del padre. Il principe si chiamava Mansour, ed aveva un’unica passione: la caccia.
Un giorno che il principe Mansour se ne andava cavalcando per i boschi dell’enorme tenuta attorno al castello del re, vide in una radura una pastorella che stava raccogliendo fiori per farne un bel mazzetto. Scese da cavallo e si avvicinò alla ragazza, che non l’aveva riconosciuto perché non aveva mai visto il principe né tantomeno il re suo padre.
Come ti chiami, bella pastorella?, domandò Mansour.
Maryam è il mio nome.
Maryam è il nome di un bellissimo fiore che si chiama tuberosa. La ragazza aveva gli occhi del colore del legno appena tagliato e i capelli color delle castagne mature.
Per chi cogli quei bei fiori, Maryam?
Per il re. Domani è il suo compleanno, e questo sarà il mio regalo.
Il principe rimase senza parole per la bellezza della pastorella e la gentilezza del suo animo che nella sua povertà aveva pensato ad un regalo per il re, semplice ma sincero che veniva dai prati attorno alla sua casetta. Salì a cavallo e tornò a passo lento al castello. Quando giunse si accorse di essere innamorato pazzamente degli occhi del colore del legno appena piallato e dei capelli color delle castagne mature di Maryam. Andò subito da suo padre e disse:
Padre, voglio sposarmi.
Bene figlio mio, rispose il re. Io comincio ad invecchiare ed è tempo che tu ti scelga una bella principessa, metta su famiglia e prenda il mio posto. Te ne ho presentate tante: chi è la prescelta? La principessa Virginia Spaccamela?
No, padre mio.
La principessa Leda Tritalafauci?
No, padre mio.
La principessa Lodovica Schiappagnappa?
No, padre mio.
Chi dunque?
Non la conosci. È una pastorella che si chiama Maryam, vive a due ore di cavallo da qui, ai margini della tenuta. Domani ti arriverà un regalo da parte sua, un mazzetto di fiori raccolti nel prato davanti alla sua casetta.
Il re rimase colpito dalla gentilezza della pastorella, che aveva pensato a lui nella ricorrenza del suo compleanno. Tuttavia rispose:
È ben gentile Maryam, ma tu sei figlio di re… come potrai sposare una pastorella, figlio mio?
Padre, sono deciso. Non sposerò né Virginia, né Leda, né Lodovica. Ma solo Maryam, la pastorella.
Il re insisté a lungo, poi vedendo la fermezza del figlio si decise a mandare un suo ambasciatore alla casetta della pastorella.
L’ambasciatore arrivò che Maryam stava mungendo una capra. Scese da cavallo e lei si alzò in piedi.
Maryam, il principe Mansour, il figlio del re, ti vuole sposare.
Che cosa sa fare?, chiese la pastorella.
Come cosa sa fare? È il figlio del re. Un giorno, il più lontano possibile naturalmente, sarà re anche lui.
Ma non ha un mestiere. Ditegli che lo sposerò quando saprà fare qualcosa.
L’ambasciatore tornò al castello e riferì al re la risposta. Il re mandò a chiamare Mansour e gli disse:
Figlio mio. La pastorella dice che ti sposerà solo quando conoscerai un mestiere. Hai sempre intenzione di sposarla?
Sì, padre mio. Domani andrò presso i Qashqai per imparare a tessere tappeti.
I Qashqai, lo sai, sono tribù nomadi. Si spostano ogni giorno dietro le loro greggi. Vuoi unirti a loro?
Sì, padre.
Il giorno dopo il principe Mansour si aggregò ad una tribù di Qashqai che si spostavano dal nord al sud del paese perché stava venendo il freddo. Dopo aver raggiunto le loro case d’inverno ai limiti del deserto, si fece insegnare a colorare le lane grezze con succhi vegetali di vari colori, a dipanarle in fili uniformi, ad intrecciarle in matasse, a incrociare la trama con l’ordito, a far correre la spola con mani agili e occhio veloce. Ed infine si mise davanti ad un telaio e di fianco alla migliore tessitrice della tribù ed iniziò sotto la sua guida a tessere il suo primo tappeto. I pastori lo prendevano in giro perché il tessere era considerato un’occupazione da donne, ma lui non se ne curava e lavorava notte e giorno per finire in fretta il lavoro.
Venne la primavera e il momento per la tribù di tornare a trasferirsi sui ricchi pascoli del nord. Il principe si trasferì con loro portando in spalla il suo telaio. Una volta arrivato, lo montò e si rimise a tessere per completare il suo tappeto. Passò la primavera e passò l’estate, venne l’autunno e di nuovo il momento per tornare alle case d’inverno. Era passato un anno da quando il principe si era unito alla tribù e lui aveva imparato l’arte di tessere i tappeti. Ne aveva tessuto uno splendido, rosso, con tanti leoni al centro e una cornice più chiara di varie tonalità di rosso, bruno e blu.
Era giunto il momento di separarsi dai suoi amici pastori. Li salutò ad uno ad uno, li ringraziò per l’ospitalità e lasciò loro un sacchetto di monete d’oro. Poi si caricò in spalla il suo tappeto e tornò al castello del re.
Il padre lo accolse con gioia e gli chiese:
Hai imparato un mestiere, durante questo anno?
Sì padre, ho imparato a tessere i tappeti. Guarda questo, l’ho fatto io.
E mostrò il tappeto che portava in spalla. Poi aggiunse:
Vorrei che tu lo facessi mandare alla pastorella Maryam, per dimostrare che ho imparato il mestiere di tessitore e per chiederle di sposarmi.
Il re amava il suo unico figlio, ma fece un ultimo tentativo per dissuaderlo dal suo proposito:
Sei sicuro di essere ancora innamorato di lei?
Falla venire qui e lo capiremo, rispose il principe.
L’ambasciatore fu di nuovo mandato alla casetta di Maryam ai limiti della grande tenuta, a due ore di cavallo dal castello del re.
Guarda Maryam, disse quando fu arrivato. Questo tappeto l’ha fatto il principe Mansour durante l’ultimo anno. Ha imparato il mestiere di tessitore. Lo vuoi sposare ora?
La pastorella disse di sì, vendette le sue capre e assieme all’ambasciatore andò al castello del re. Quando il principe vide i suoi occhi dal colore del legno appena tagliato e i capelli color delle castagne mature capì che era la sua passione non era diminuita, anzi. E lo capì anche il re che finalmente si rassegnò.
Dopo una settimana furono celebrate le nozze tra il principe e la pastorella, e i due sposi andarono a vivere in un’ala tutta loro del castello. Dopo un anno nacque una bimba: era bella come un giglio, tanto che la chiamarono Nilufar, che vuol dire appunto giglio.
Il principe ora era felice, passava molto tempo con Maryam, ma non aveva rinunciato al divertimento della caccia e spesso andava a cavallo per l’enorme tenuta attorno al castello. D’altra parte, era stato proprio il suo amore per la caccia che gli aveva fatto incontrare la bella pastorella.
Un brutto giorno però nel bosco più fitto fu circondato da quattro briganti mascherati che lo presero prigioniero e lo portarono in una grotta. Lì lo aspettava il capobanda:
Sei il principe Mansour, non è vero?, gli chiese.
Il principe non poteva negarlo, perché sulla sella del suo cavallo era inciso lo stemma della sua famiglia.
Dunque il re pagherà un bel riscatto per te, continuò il bandito.
Provate pure a chiederglielo, rispose Mansour, ma non credo proprio. Come farà ad esser certo che non lo imbrogliate? Conosco mio padre: non vi darà un bel niente.
Gli faremo vedere la sella con lo stemma. Capirà che è quella del tuo cavallo.
Ma potreste avermi rubato il cavallo.
Gli porteremo il tuo cappello con la piuma. Nessuno ne ha uno così bello nel suo regno.
Ma potreste avermi ucciso. Non vi crederà. Sarebbe meglio se gli portaste una lettera scritta da me.
I briganti erano degli ignorantoni e nessuno di loro sapeva leggere e scrivere; il capobanda temeva di essere imbrogliato, perciò disse:
No, così non va bene.
Vi ci vuole qualcosa di speciale per convincerlo. Vediamo un po’…
Il principe finse di pensare, ma sapeva già cosa proporre al bandito:
Io so fare i tappeti più belli del mondo. Portategli un tappeto che tesserò per voi. Capirà che sono vivo e vi darà il riscatto che chiedete.
Il bandito fu d’accordo, fece portare un telaio e il principe si mise al lavoro. Tessé un tappeto con i disegni Qashqai, ma era un tappeto molto particolare: contando sul fatto che i banditi non sapevano leggere, il principe inserì nel disegno cinque parole mascherate: Prigioniero nelle grotte di Ghazlan.
Quando fu finito chiamò il capobanda per mostrarglielo, e quello, che non era uno stupido, gli domandò, sospettoso:
Cosa sono quegli strani ghirigori che vedo lì?
Il principe si era preparato la risposta:
È la data. Sai che sempre sui tappeti i Qashqai inseriscono la data della manifattura.
Il bandito si convinse e mandò un messaggero al castello. Le guardie lo fermarono all’ingresso, si fecero consegnare il tappeto e lo portarono al re:
Maestà, c’è un tizio al portone che sostiene che questo tappeto sia stato fabbricato dal principe Mansour, dissero.
Il re si rallegrò tutto per la notizia che il figlio che credeva perduto era ancora vivo. Fece chiamare i sapienti che vivevano nel castello e che l’aiutavano a prendere le decisioni più difficili, e fece loro controllare il tappeto per esser certo che venisse proprio da Mansour. I sapienti lo esaminarono davanti e dietro e dissero che era proprio un bel tappeto Qashqai, fatto da pochi giorni, uguale a quello che aveva portato il principe dopo l’anno passato con la tribù nomade. Allora anche Maryam fu chiamata perché partecipasse alla gioia di tutti nel sapere che il marito era vivo. Quando vide il tappeto, Maryam subito si accorse delle parole nascoste, e disse:
Mansour è prigioniero nelle grotte di Ghazlan, è scritto qui.
La furia si sostituì alla gioia nel cuore del re: ordinò che una compagnia di arcieri al comando del Capitano delle guardie si recasse alle grotte di Ghazlan, dove catturarono tutti i banditi assieme al loro capo e liberarono il principe.
Quando Mansour entrò a castello e rivide la moglie, si inginocchiò davanti a lei e le baciò i piedi:
Amore mio, disse. Ti ringrazio due volte: la prima perché quando ti ho chiesto di sposarmi mi hai fatto prima imparare un mestiere che come vedi mi ha salvato la vita. E la seconda per essere riuscita a scoprire il messaggio segreto, che né i banditi né i sapienti né il mio stesso padre avevano saputo leggere. Da domani la nostra Nilufar si metterà al lavoro, perché hai ragione tu: anche i figli di re devono conoscere un mestiere.
V I T A D I S P I A G G I A
Il mio ombrellone era come il punto centrale nel cinque del dado: ne aveva altri quattro attorno, sistemati ai vertici di un quadrato.
Sul davanti, a destra, avevo il dottor Nardella, vicequestore di un’importante città meridionale. Era un tipo alto, con due baffetti a spazzola e i capelli grigio-ferro pettinati all’indietro. Si era recentemente rotto una spalla cadendo dalle scale e l’ortopedico gli aveva prescritto frequenti esercizi. Dunque spesso lo vedevo in piedi mentre cercava di toccare con la mano destra il bordo dell’ombrellone all’altezza del suo naso, una smorfia di fastidio più che di dolore sulla bocca. La sua signora, una donna formosa dalle occhiaie profonde e la carnagione pallida, aveva un sorriso dolce e paziente col quale condiva le regolarmente inascoltate raccomandazioni che rivolgeva al marito.
Alle mie spalle, sempre verso destra, c’era la famigliola del signor Quagliozzi, un pensionato del Ministero del Tesoro con moglie e due nipotini affidati ai nonni dai genitori rimasti in città. Lui passava il tempo a leggere il Messaggero dalla prima all’ultima pagina, con un metodo e una cura messi a punto in anni di costante esercizio al tavolo di lavoro. La moglie era una signora di mezz’età grassottella e robusta, perennemente in apprensione per i nipoti e indaffarata a porgergli asciugamani e merendine. Tanto era acuta la voce del signor Quagliozzi, tanto grave era quella della moglie, sì che il primo giorno che ero arrivato avevo pensato, sentendo quel vocione provenire da dietro, che dei nipoti si occupasse il nonno.
Davanti verso sinistra c’era l’ombrellone delle sorelle Porzia, due signorine tra i cinquanta e i sessanta, entrambe accanite lettrici di libri. Parevano interessate ad argomenti diversi dal momento che Isa, la maggiore, leggeva sempre libri dalla copertina gialla, mentre Laura quelli con copertina rosa. Così almeno mi parve i primi due giorni, finché il terzo mi accorsi che in realtà le due sorelle usavano ricoprire i loro libri con carta gialla l’una e rosa l’altra. Per non rovinare il libro. O forse perché si vergognavano dell’argomento futile o scabroso?
Dietro alle mie spalle, verso sinistra, c’era Sperandio, un anziano avvocato penalista che non esercitava quasi più. Appassionato de La Settimana Enigmistica, era grande esperto di rebus e parole crociate. Quando lo sentivo parlare con la sua pronuncia blesa mi chiedevo come avesse fatto in tribunale a convincere giudice e giuria dell’innocenza del suo cliente; evidentemente con la forza dei suoi argomenti, dal momento che pareva avesse avuto successo al Foro di Milano e si diceva che, volendo, avrebbe potuto avere ancora molti clienti e cause importanti da discutere.
Naturalmente tra tutte queste cinque (me compreso) piccole unità familiari, separate da muri invisibili, si era venuta formando dopo il primo giorno una certa familiarità. Stare in ombrelloni vicini per ore e ore non è come vivere sullo stesso pianerottolo in un condominio. Si raggiunge in pochi giorni una confidenza che non bastano anni in città per toccarne una uguale. Non ci si limita al consueto Buongiorno-Buonasera di prammatica, ma si parla e si chiacchiera, ci si informa dello stato di salute (Come va la spalla, dottor Nardella?) e di quello del mare (Fredda l’acqua, oggi?), dei passatempi diurni (Riuscito il rebus, avvocato?) o serali (Bello il film ieri sera, signora Quagliozzi?), favoriti in questo dalla contiguità senza riservatezza e anche dalla leggera noia, parte del vero riposo, che prende a volte nella vita di spiaggia.
Quella mattina chiara di sole luminoso e mare calmo ero sceso presto in spiaggia, per primo. Il bagnino che stava ancora spazzando la corsia di cemento che portava al bagnasciuga mi guardò stupito. Mi ero portato dietro un documento che avrei dovuto entro sera rivedere per poi telefonare le correzioni alla segretaria in ufficio.
Ero arrivato a pagina 6 quando odo il caratteristico scalpiccio delle sorelle Porzia, con le loro borsone enormi gonfie di asciugamani, creme e libri.
Già qui, stamane?, dice la signorina Laura.
Mattiniero, eh?, dice la signorina Isa.
Vivevano talmente in simbiosi quelle due che spesso l’una sembrava il rafforzativo dell’altra, un indispensabile complemento. Che rispondere a due domande così?
Eh…stamattina mi tocca lavorare…
Ma si riposi, dottore…, fa la signorina Laura.
Se no a che servono le vacanze?, chiosa l’altra.
E si sistemano nelle sdraio al sole, spalmandosi di crema.
Riprendo a leggere. Arrivato a pagina 8 sento arrivare alle mie spalle la tribù dei Quagliozzi, i bambini già frignano per fare il bagno.
Alle nove!, dice la voce baritonale della signora. Ma siete diventati matti?
Buongiorno, dottore!, sento dire dal marito. Mattiniero oggi, eh?
Giro la testa a mezzo e saluto i Quagliozzi.
Si intreccia una conversazione sopra la mia testa, di traverso, tra loro e le signorine Porzia: domande, considerazioni, pensieri oziosi di una mattina al mare, da destra alle mie spalle verso sinistra davanti, e viceversa. Si parla di vacanze, dei vantaggi del mare e di quelli della montagna. Nel lèggere il documento afferro frasi smozzicate
Settembre se è bello è il più bel mese…, dice la signorina Isa.
Per le vacanze…, completa la sorella.
Mare, lago, montagna… quel che conta è il cambiamento d’aria, caro signore…, dice la signora Quagliozzi.
Senta, per me il lago è triste…
Quelle chiacchiere sono un sottofondo un po’ molesto ma riesco a concentrarmi e a proseguire la lettura. Loro continuano imperterriti:
In montagna quello che rompe le gambe non è la salita, è la discesa…, interviene la voce acuta del signor Quagliozzi.
Sa, quello che dà fastidio non è il caldo, è l’umidità…
Cento, duecento chilometri…Oggi le distanze non esistono più, signora mia…
Che se non c’è quel signora mia pare che la frase non sia completa e l’affermazione perda di efficacia. Sento vagamente arrivare l’avvocato Sperandio, e rispondo al Buongiovno circolare che indirizza ai presenti. Si intesse un nuovo dialogo alle mie spalle tra lui e il signor Quagliozzi. Stavolta l’argomento mi pare siano le caratteristiche dei vari popoli. Capto vaghi accenni:
Guavdi: i tedeschi se gli toglie l’unifovme sono bvavissime pevsone…, dice l’avvocato.
Dopo un po’ sento la voce acuta di Quagliozzi:
Ma gli americani sono dei grandi ingenui, suvvia…
I fvancesi sono dei tali nazionalisti che guavdi…
I russi hanno una gran facilità per le lingue…
Ma le lingue, cveda a me, pev impavavle davvevo bisogna andave sul posto…
Intanto tra la signora Quagliozzi e le sorelle Porzia l’argomento di conversazione è cambiato: si parla di letteratura.
Certo che tradotto perde molto…, dice la signorina Isa.
Io la sera se non leggo due righe non mi addormento…, fa la signora Quagliozzi.
Arriva il vicequestore con signora, e un caloroso saluto viene scambiato con tutta la compagnia.
Saluto anch’io e riprendo la lettura, ma mi riesce difficile ora concentrarmi. Proseguo con fatica, aiutandomi con qualche appunto a matita ai margini del documento.
Il dottor Nardella comincia i suoi esercizi per la spalla rotta. Si capisce benissimo che li esibisce alla presenza di tutti, con tanto di smorfie regolamentari, perché desidera che qualcuno gli chieda come va la salute. E così si inizia un nuovo capitolo, tra la signorina Laura e il vicequestore. Io leggo, ma le parole mi ballano davanti agli occhi, e l’attenzione è travolta dalle semplici e oziose frasi che i due si scambiano.
Le medicine sono tutto veleno, cara lei…, dice Nardella.
Almeno una volta all’anno un bel check-up bisognerebbe proprio farlo…, fa la signorina Laura.
Senta: mia nonna a ottant’anni infilava ancora l’ago senza occhiali…
dica lei: ai miei tempi una donna a quarant’anni era già vecchia…
Una volta quando non c’erano i caloriferi nessuno pigliava mai il raffreddore…
Il signor Quagliozzi ha scoperto che la signorina Isa come lui è appassionata di animali, e su questa affinità si apre un nuovo filone di chiacchiere:
Sa, signorina, gli animali quando uno gli vuol bene lo sentono…
Io avevo un gatto che, guardi…
Interviene l’avvocato Sperandio:
Io animali non ne tengo pevché poi uno si affeziona…
Nardella prosegue i suoi esercizi di stretching: il braccio sale a toccare il bordo dell’ombrellone, e intanto continua a parlare di salute; ma ha cambiato interlocutore perché ora intreccia vivaci botta e risposta con la signora Quagliozzi. Nel frattempo sono arrivato a stento a pagina 11, rileggendo periodi su periodi. All’orecchio mi arrivano parole e frasi a pezzi e bocconi.
Ma sa, nelle sigarette quello che fa male è la carta…
Io posso prendere anche dieci caffè, ma se bevo una tazza di tè non dormo tutta la notte…
La pipa fa meno male perché non si aspira…
Uno può bere anche mezza bottiglia di grappa, l’importante è che non mischi…
Il mio dottore dice che…
Come sempre interviene Sperandio, da dietro:
Dia vetta a me: l’influenza è bvutta, ma le vicadute sono peggio…
Senta, io avevo un amico che…
La signora Nardella e la signorina Isa sono due brave cuoche e davanti a me si scambiano ricette, consigli e avvertenze:
Nella frutta le vitamine sono nella buccia…
Io sono convinta che il pesce fresco è più facile trovarlo a Milano che a Genova…
Imparo l’autentica ricetta del pesto alla genovese e quella dei bucatini all’amatriciana.
Io alla fine spengo e lascio sobbollire…
Mi premo i pugni sulle orecchie, cerco di concentrarmi, ma leggo e rileggo le stesse frasi tre,quattro volte.
Il signor Quagliozzi la butta in politica e discute con l’avvocato Sperandio, che proprio democratico non sembra essere:
A far la guerra bisognerebbe mandare chi la dichiara…
Sa cosa ci vuole pev i pedofili? La pena di movte, ci vuole…
Le banche i soldi li prestano a chi ce li ha…
D’accovdo, il latino e il gveco non sevvivanno a nulla, ma quando uno ha fatto il classico si sente…ooooh, se si sente…
Se uno dichiara tutto al fisco gli portano via anche la camicia…
Oh! Gli avtigiani di allova…quelli sì che sapevano lavovave…
E qui si scantona sull’idraulico che giovedì non è venuto e sull’elettricista che si fa pagare 60 Euro la sola uscita.
Ora la conversazione è generale, il tuttologo Nardella si permette di sostenere due discussioni in contemporanea con la signorina Isa e con il signor Quagliozzi. L’avvocato Sperandio si è alzato sulle gambe tremolanti e col braccio alzato conciona come fosse ancora al Foro di Milano. La voce da sergente della signora Quagliozzi si impone su tutti trinciando giudizi inappellabili. La signorina Laura è in piedi col dito puntato verso la signora Nardella che ha perso tutta la sua timidezza e para colpo su colpo. Gli unici tranquilli sono i due nipoti Quagliozzi che incuranti della confusione continuano a costruire una splendida pista dalle curve sopraelevate con la sabbia umida del bagnasciuga.
Frasi a brandelli si intrecciano sul mio capo, con interiezioni e locuzioni rafforzative: tutti cercano di imporre il loro luogo comune, e così si sprecano i mi creda…, dia retta a me…, caro lei…, non stia a sentire…sappia che…Gli argomenti ormai sono i più svariati:
Ova le dico cosa spendevo io negli anni 60 per pvanzave nel migliov vistorante di Milano…
Lei mi insegna che oggi anche morire è diventato un lusso…
Io in chiesa non ci vado, ma sono più credente di tanti altri…
Io l’esame di maturità la notte me lo sogno ancora…
Il golf ha questo di bello, che lo si può giocave anche da vecchi…
Anche il bridge però…
Un’orgia di frasi fatte si avviluppano in un groviglio inestricabile in quei cinquanta metri quadri. Noto che nei cinque ombrelloni che costituiscono il condominio a fianco del nostro la situazione è analoga e l’avvocato, avidamente, sta allacciando contatti anche con un signore distinto, sei metri più in là del suo ombrellone.
Il rasoio elettrico sarà anche più comodo, ma vuol mettere come vien bene la barba con quello a mano?
L’auto è cava, è vevo, ma non è la benzina, è tutto il vesto…
D’accordo, la laurea potrà anche non servire, ma un ‘Dott’ sul biglietto da visita fa sempre comodo…
Eh, cavo mio! Le bavzellette bisogna sapevle vaccontare…
Io vorrei sapere chi le inventa…
Pauva? Guavdi che è più pevicoloso viaggiave in auto che in aeveo…
Impossibile leggere, impossibile lavorare, bisogna che me ne faccia una ragione. Quasi quasi rimpiango la pace dell’ufficio. Butto il documento sulla sabbia, mi alzo e mi avvio a fare un bagno per calmarmi. Mi insegue un’ultima sentenza del signor Quagliozzi:
Eh, non ci sono più le stagioni…, signora mia…
L ’ E S A M E D I F I S I C A
Il professor Longo era figlio di Luigi, segretario nazionale del Partito Comunista Italiano. Negli anni 60 del secolo scorso il PCI era fortissimo, unico avversario della straripante Democrazia Cristiana che rimaneva il partito guida in Italia. Ma a Bologna il PCI aveva la maggioranza assoluta; e Longo jr insegnava all’Università di Bologna.
I tratti del suo viso erano mal assortiti; presi uno per uno non erano male ma nell’insieme era un volto non attraente, quasi brutto. Una larga bocca gli dava un aspetto intelligente ed onesto, probabilmente dovuto ai denti guasti.
Aveva passato la sua giovinezza a Mosca, studiando là dalle elementari fino all’Università; si era laureato alla locale e celebre facoltà di Fisica e vi era rimasto a lungo come assistente. Poi era tornato in Italia.
Si esprimeva in un italiano perfetto, ma strano: non con l’accento del russo come nelle stucchevoli imitazioni televisive, pieno di u e senza articoli, ma come se fosse una lingua in cui avesse bisogno di esercizio (ma era in Italia ormai da anni), infarcita di frasi comiche dette con la massima serietà e di tanto in tanto intoppandosi un po’ nel dire, per vezzo non perché balbettasse. Uno ascoltandolo non sapeva mai se stesse scherzando o no, se capisse davvero le frasi che pronunciava; i suoi occhi erano seri quando scherzava e irridenti quando diceva cose gravi: parlare con lui non era imbarazzante, ma spiazzante sì.
A noi insegnava Fisica II, esame difficile, in cui la matematica sembrava facesse apposta a confondere cose semplici. Concetti intuitivi che non richiedevano alcuno sforzo per essere convincenti, richiedevano dimostrazioni dannatamente complicate, in cui il professor Longo si gettava con un entusiasmo degno di miglior causa. E dopo una lavagnata doppia di passaggi matematici astrusi, si girava verso di noi col gesso in mano:
Chiaro?, domandava.
Nel silenzio dell’aula spiccava il vocione di Camaròno dagli ultimi banchi dell’emiciclo:
Come, no…
Longo sembrava non curarsene e normalmente reagiva con frasi dette a sé stesso ma a voce alta, del tipo:
Se non li puoi convincere, confondili, dette con una serietà impressionante.
E il solito vocione, che come il coro nella tragedia greca esprimeva il comune sentire del popolo, nel caso: dell’assemblea studentesca, chiosava con la sua pronuncia blesa:
Bevsaglio centvato, pvofessove.
Longo non rideva, ma si capiva che ci rimaneva male, si sentiva coinvolto nella nostra incomprensione. Buttava lì una cattiveria come:
Non c’è niente di più pericoloso di un grande pensiero in un piccolo cervello. Dunque cautelativamente rispiegherò.
Il perfido! Ma intanto ci rispiegava tutto da capo, e non era da tutti in quei tempi pre-sessantotto.
Il portavoce, quello a cui mancava la erre, era un nobile di origine lombarda, un fuoricorso dall’importante nome di Oberio Camaròno. La sua famiglia, diceva lui, risaliva al ’500 ed era ricordata in un documento notarile conservato a Trecate, paesetto in provincia di Novara, in cui si diceva che un certo
Oberius de Camaròno detto ‘el Preve’, figlio di Enghirinus e abitante di Cerano….
aveva venduto non so più che pezzo di terra prendendolo in affitto subito dopo.
Questa storia di cui Camaròno andava molto fiero era all’origine del suo strano nome proprio, ed era stata così volentieri ripetuta dall’interessato ai compagni di varie classi che da fuoricorso aveva avuto modo di incontrare, da essere oggetto di una cantilena in endecasillabi che cominciava così:
Oberio Camaròno detto ‘el Preve’, nato da Enghirin, vien da Trecate…
Lui non se la prendeva, ci rideva su:
Videte, videte! Ma se quel mio antenato non si fosse giocato quel pezzo di tevva per via di una baldvacca, a quest’ova mica evo qui a sudave con voi sfigati sulle equazioni di Maxwell…
Il professor Longo aveva un suo modo originale di far lezione, frutto forse di sistemi d’insegnamento appresi in Unione Sovietica. Si capiva che il suo scopo era farci capire la materia che ci insegnava, il che dovrebbe essere l’unico vero obiettivo di ogni buon insegnante; ma si sa che spesso non è così, soprattutto per quelli che la materia neanche loro l’hanno ben capita. Ma Longo la fisica la sapeva bene, e per farcela entrare in testa adottava mille piccoli trucchi didattici rimasti nella memoria di tutti quelli che assistettero alle sue lezioni.
Ad esempio un giorno stava spiegando un difficile sistema di equazioni differenziali, e per mostrare la necessità di un grado superiore di derivazione fece questo esempio:
Immaginate di essere nel laghetto dei Giardini Margherita su una barca dal fondo di vetro. State facendo una misura e intanto state remando e vi spostate rispetto al fondo del lago. Attraverso il vetro vedete passare un pesce rosso, che si sta movendo pure lui: rispetto a lui, al pesce, il valore della grandezza che state misurando è relativo al suo movimento, e quindi dovrete derivare anche rispetto al pesce.
E avvicinandosi alla lavagna il professor Longo senza il minimo accenno ad un sorriso, come fosse la cosa più naturale del mondo, disegnò il simbolo della derivata parziale (∂) accanto ad un piccolo pesce.
Questo è il de-pesce, disse girandosi verso di noi con un tono di voce come se ci comunicasse la morte di un congiunto.
E per tutta la dimostrazione si portò dietro quei simboli eterodossi. All’esame un assistente mi chiese proprio quella dimostrazione; e io sulla lavagna disegnai le derivate de-pesce con la massima noncuranza: io così la sapevo, così me l’avevano insegnata. Vidi un lampo di sorpresa negli occhi dell’assistente; alle sue spalle il professor Longo seguiva l’interrogazione. L’assistente non disse nulla: anche lui conosceva bene il suo professore.
Longo ci teneva che i suoi allievi seguissero le lezioni: d’altra parte dispense non ce n’erano, e poi la materia era così dispersa in vari libri che anche a noi conveniva usare il sistema degli appunti, e quindi le lezioni le seguivamo. Il professore dunque faceva passare un foglio all’inizio della lezione raccogliendo le firme dei presenti; il nostro corso era poco più di una classe di liceo, una trentina sì e no: si faceva presto.
Un giorno Longo entrò in aula e, mentre tutti aspettavamo che attaccasse con la solita lavagnata di equazioni differenziali, appoggiò la borsa di pelle sul tavolo e senza neanche il regolamentare Buongiorno domandò:
Sapete che tra di voi si nasconde un passato remoto indicativo completo?
Come no…, sussurrò Camaròno. Ma non ebbe il coraggio di alzare la voce. E così in un silenzio di tomba il professor Longo disse un nome:
Calamai.
Un ragazzo della seconda fila si alzò in piedi, stupito. Il professore chiamò un altro nome:
Tecasti.
Un ragazzo alto alto seduto vicino a me si tirò su disincastrandosi a fatica tra la panca e il banco. Longo lo guardò serio, poi disse:
Trifirò.
Son qua, rispose Trifirò.
Il professore chiamò altri tre nomi:
Bartimmo. Cortaveste.
E infine:
Camàrono.
Nell’alzarsi il nobile e dinoccolato fuoricorso rispose:
Vevamente è Camavòno, pvofessove.
Lo so, ma mi conceda per una volta di spostare l’accento del suo cognome. Ora vi è chiaro cosa volevo dire all’inizio della lezione?
Come al solito la domanda ci lasciò muti; ma questa volta Longo non fece dell’ironia. Aveva la solita faccia lugubre come quando affrontava argomenti secondari o addirittura futili. Infatti spiegò:
La successione dei vostri cognomi rappresenta la coniugazione al passato remoto di alcuni verbi immaginari: io calamai, tu tecasti, egli trifirò… e così via. Una straordinaria coincidenza, quasi pari a quella che originò l’intuizione di Schrödinger e la nascita delle sue celebri equazioni che affronteremo oggi.
Nessuno sorrise, ma ci fu come un sospiro generale: non di sollievo, di rassegnazione piuttosto. Prendemmo i nostri quaderni mentre Longo si girava verso la lavagna col gesso in mano e attaccava a scrivere le sue consuete atroci formule. I sei si sedettero e tutto riprese il solito ritmo. Non capimmo mai cosa c’entrassero le equazioni di Schrödinger con i cognomi di quei sei, però, finita la lezione, la scoperta del professore, subito denominata Primo Postulato di Longo, divenne di dominio pubblico anche fuori della nostra appartata facoltà e oggetto di scherzi a non finire:
Non dirmi che tecasti…, inorridiva uno. E l’altro:
No, t’assicuro: calamai e poi bartimmo tutti insieme.
Venne il giorno dell’esame. La materia l’avevo studiata volentieri anche se non tutta l’avevo capita: mi era piaciuta perché il fascinoso professore me l’aveva resa attraente nonostante le sue ostiche dimostrazioni matematiche. Però mi sentivo agitato come ogni mattina d’esame.
L’ordine delle interrogazioni veniva stabilito dagli studenti stessi in accordo ad un foglietto di carta attaccato alla porta dell’aula su cui ognuno segnava il proprio nome. Il primo della lista era proprio Camaròno, che era arrivato alle sette del mattino per poter avere certezza di essere il primo.
Che dopo devo covveve a pvepavave Impianti I, ci aveva detto.
Notai che all’occhiello della giacca brillava il distintivo del PCI.
Proprio tu, Camaròno! Ma non sei credibile…, dissi.
Pevché no!, rispose. D’altva pavte, ‘À la guevve comme à la guevve’, come si dice. Quando parlava francese la sua pronuncia blesa era ancor più ridicola. In guevva ogni mezzo è lecito, mio cavo.
L’esame si svolgeva alla presenza della solita commissione a tre, costituita dal professor Longo e due assistenti.
Venivano interrogati due studenti contemporaneamente. Longo faceva la prima domanda poi lasciava che un collaboratore continuasse mentre lui assisteva da lontano passando dall’uno all’altro.
Alle nove in punto fu chiamato Camaròno. Non andò bene, fu anche sfortunato perché gli capitò un argomento difficile che nessuno aveva capito bene, nonostante un giorno ci fossimo riuniti in sei per cercare di comprenderne il senso. Lui cercò di arrampicarsi sui vetri con la consueta simpatia e furbizia, ma non ci fu nulla da fare.
Alla fine il professore lo mandò via col buco, che significava la registrazione sul libretto dell’esame sostenuto ma senza indicazione del voto. E gli disse:
Caro ragazzo, lei ha molta fantasia. Dia retta, dovrebbe dedicarsi ad altre cose nella vita, che so…la poesia, per esempio. Ecco: faccia il poeta.
Da allora Camaròno, su suggerimento del napoletano Bartimmo, fu o’ poeta.
Quando fu il mio turno il professore mi fissò un attimo, poi mi chiese:
Lei è in camera da letto, pronto ad uscire, tutto vestito meno la giacca e la cravatta. La giacca è appesa alla gruccia, la cravatta è sul letto. Cos’è la prima cosa che fa?
Mi metto la cravatta.
E se la cravatta è posta sulla sedia?
Ugualmente la prima cosa che faccio è mettermi la cravatta.
No, no e no: un fisico prende la cravatta e la pone sul letto, riconducendosi al caso precedente!
Poi fece un cenno all’assistente di continuare l’esame. Io mi accorsi che meccanicamente avevo portato la mano al nodo della cravatta, forse per verificare che fosse ancora al suo posto e non sul letto o sulla sedia. L’inizio non era stato dei migliori e mi sentivo ancor più agitato; ma per fortuna l’assistente mi fece la domanda che richiedeva l’applicazione del de-pesce, argomento che sapevo. Longo assisteva alle sue spalle, con una faccia tetra che mi rinfrancò molto.
Venne una seconda domanda a cui risposi questa volta in maniera ortodossa, come notai dalle spalle che l’assistente rilassò. Il professore era andato a seguire l’altro candidato, ma riusciva a tener d’occhio entrambe le interrogazioni; e questo fu evidente quando, al termine della mia esposizione che era stata alquanto lunga, riavvicinandosi chiese:
Lei è convinto di aver dato soluzione al problema che le è stato posto?
Beh…sì…
In realtà la soluzione di un problema semplicemente ne cambia la natura. E infatti…
E mi fece la terza ed ultima, canonica domanda.
Andò bene anche quella, ero soddisfatto. Ma con Longo non c’era mai da stare tranquilli. Mi chiese di accomodarmi, scambiò due parole con l’assistente, poi prese il libretto: ci teneva a scrivere personalmente data, esame e voto, con la sua calligrafia a scatti. Mi chiamò con un cenno; mi avvicinai al tavolo e lui porgendomi il libretto mi disse:
Vede? Lei ha studiato e il programma lo conosce. Ma non le ho dato 30, e sa perché? Perché non ha risposto correttamente alla domanda sulla cravatta. Lei dirà che non era una vera domanda e posso essere d’accordo, ma la sua risposta ha dimostrato che non ha capito la mentalità che deve avere un fisico. La domanda me l’ha fatta venire in mente la sua cravatta; la prossima volta non la metta, io non mi formalizzo.
Guardai il libretto: c’era scritto 29. Notai in quel momento che in quei tempi molto formali lui, unico in tutta la sala, la cravatta effettivamente non l’aveva. Non dissi nulla, presi il libretto e me ne andai. Ero contento a metà: ero stato fortunato, perché non tutta la materia mi era chiara e c’erano due o tre argomenti in cui avrei fatto la figura di Camaròno; ma mi erano capitate domande di cui conoscevo la risposta. Tuttavia la storia di un trenta, uno dei pochi, mancato per via della cravatta non mi andava giù.
Mi consolò Camaròno:
Va’ là che ti è andata di lusso... Stavo pensando di scviveve un piccolo stvambotto sul tuo esame e la stovia della cvavatta…
L A L A M P A D A
Ero al New York Metropolitan Museum, un mercoledì di dicembre. Non c’è quasi nessuno di mercoledì al museo, neanche nello spettacoloso MM. Mi aggiravo per le sale semideserte. Il controllo dei guardiani era talmente tenue da farmi sentire davvero solo, io con gli oggetti esposti. La tradizionale fiducia degli americani nel prossimo e nella sua onestà si rifletteva pienamente nella scarsità di personale e nello svagato controllo che era assenza, non trascuratezza.
Ero nella sala dedicata all’ebraismo.
Sono un ebreo poco credente, anzi direi ateo. Ma il mio ateismo si basa sulle manchevolezze dei rabbini, e dunque è abbastanza superficiale, candido, poco convinto e poco convincente, me ne rendo conto. Sarebbe come se volessi indurre il prossimo a credere che il Tempo non esiste perché molti orologi funzionano male. Cionono-stante conosco i riti e le tradizioni dell’ebraismo perché mi sono stati insegnati. E alcuni di loro sono molto belli e poetici, altri hanno in più anche un fondamento storico che li rende estremamente interessanti ai miei occhi.
Mi sedetti di fronte ad una piccola vetrina. Ero stanco, il divanetto senza spalliera era disposto in modo da lasciarmi vedere oltre il vetro i tesori in mostra. C’era una splendida collezione di lampade di Chanukkà, di varie epoche e fogge.
Ogni anno, il 25 del mese giudaico di Kislev, gli ebrei di tutto il mondo celebrano per otto giorni la Festa delle Luci, in ebraico Chanukkà, accendendo una speciale lampada fatta apposta per questa occasione; il mese di Kislev cade a cavallo di novembre e dicembre, e Chanukkà in una data variabile vicina al giorno del solstizio d’inverno. All’improvviso mi resi conto che era il 16 di dicembre: eravamo dunque proprio nel periodo della Festa delle Luci.
Illuminare i giorni più bui dell’anno è una cerimonia che simboleggia l’allontanamento dell’oscurità e del male e il benvenuto alla luce della speranza. Quando Giuda Maccabeo riconquistò Gerusalemme nel secondo secolo a.C., arrivò un po’ tardi per la Festa dei Tabernacoli, e questa ricorrenza autunnale, legata ai raccolti e alle offerte agresti, scivolò nell’inverno e diventò Chanukkà, luce di speranza che commemora la riconquista.
Diverse per epoca, forma, luogo d’origine, simbologia, le lampade ideate per l’occasione trasmisero i loro tremolanti e incerti segnali di luce di solstizio in solstizio, da un continente all’altro, attraverso la distesa di anni e di terre detta Diaspora, per ventidue secoli fino ai nostri giorni.
Tra quelle esposte ce n’era una di metallo, in prestito d’esposizione, come diceva il cartellino sottostante, dal Dipartimento delle Antichità del Ministero israeliano dell’Educazione. Era davvero la più bella di tutte, e continuava a catturare il mio sguardo: l’occhio girava attorno, dentro la vetrina; sfuggiva dai cristalli a prova di proiettile per vagare all’esterno, per la sala intera, ma poi tornava lì, a fissarsi sulla lampada. Sembrava che questa avesse un potere calamitante sulle mie pupille, sembrava che utilizzasse silenziosamente l’artificio retorico della captatio benevolentiae per attirarmi, per convincermi che lì non c’era altro oggetto più degno di attenzione di sé stessa, splendida lampada di Chanukkà.
La retorica è una tecnica di persuasione, affinché l’uditore, o l’astante nel mio caso, siano convinti della bontà o correttezza di una proposizione. Di rado la retorica è apodittica, troppo comodo sarebbe; anzi è una contraddi-zione in termini parlare di retorica che non dia luogo a discussione. Se riesco a portare argomenti tali da imporre il mio punto di vista senza che l’avversario possa replicare tanto sono cogenti, non si tratta di convincere, ma di esporre con logica le mie ragioni, i miei argomenti. Ma la maggior parte delle cose della vita d’ogni giorno sono discutibili, e di queste si interessa la retorica, che insegna l’arte di convincere l’interlocutore che il punto di vista del retore è quello corretto. Nell’attività lavorativa la retorica, parola che per molti ha assunto un significato deteriore soffuso di prolissità, ampollosità, ridondanza, superficialità, può essere utilissima: un leader per esempio può servirsi dei suoi artifici per trascinare e convincere, più che imporre, il gruppo di cui è a capo.
Uno di questi artifici è la captatio benevolentiae, cioè quello che consiste nel conquistarsi la simpatia dell’interlocutore prima di esporre il proprio punto di vista. Quanti futuri generi per cercare d’ammorbidire il suocero sono ricorsi ai mezzucci scadenti e vieti del tipo: Lei che ha tanta più esperienza di me…Quanti oratori per partire col piede giusto hanno iniziato il loro intervento con il trito: È per me un onore di fronte a questa assemblea…
E quanti retori da osteria si sono riempiti la bocca con la formuletta triviale: Lei mi insegna…, che lubrifica qualsiasi argomento e coinvolge l’interlocutore in argomentazioni che mai si sarebbe sognato di sostenere. E ci vuole uno splendido controllo della muscolatura del collo per evitare di annuire e trovarsi a condividerle.
Ma il colmo si raggiunge quando in una discussione salottiera ad un: Lei mi insegna…, l’interlocutore contrappone un: Mi corregga se sbaglio…E allora si assiste ad un annuire reciproco alle argomentazioni altrui che fa sembrare tutti d’accordo: perché non c’è nessuno che, dopo che per distrazione si è abbandonato ad evidenti cenni di approvazione, rischi di contrapporre la propria vera idea a quella dell’altro, per non far la figura del re-tentenna. Così ognuno rimane della propria idea anche se apparentemente è diventato un propugnatore di quella altrui.
Ma questi sono sottoprodotti di scarto dell’artificio retorico della captatio benevolentiae, che se usato con moderazione e con raffinatezza è in grado di procurare vantaggi insospettati senza cadere nella volgare adulazione.
Tutto ciò riguarda tuttavia artifici verbali; caso diverso era quello della lampada che mi trovavo di fronte: essa usava mezzi che non ero abituato a riconoscere e contrastare, e per questo erano tremendamente efficaci. Era una captatio benevolentiae che volteggiava nell’etere, che si basava sulla luce perlacea della sala, sulle perfette proporzioni geometriche, precise e sofisticate, sulla decorazione sobria e severa della lampada. Prepotente ed invadente, mi invitava a guardarla, ad ammirarla, a considerarla il più bell’oggetto della vetrina, della sala intera. La sua presunzione arrivava a proporsi come il più bell’oggetto conservato al museo.
Mi avvicinai alla vetrina e lèssi la didascalia: era in bronzo, del xiii-xiv secolo e veniva dalla Spagna meridionale. Aveva una straordinaria forma triangolare equilatera, del tutto diversa dalle altre che la circondavano. Sembrava la facciata di una chiesa: un rosone nella parte superiore e un colonnato di dodici archi sotto; parevano realizzati con il traforo. In basso una vaschetta che correva lungo tutta la larghezza della lampada raccoglieva l’olio che alimentava otto piccoli scodellini, destinati ad accogliere gli stoppini per otto fiamme. Sul vertice superiore del triangolo c’erano due anelli uniti tra loro che servivano per appendere la lampada. Il bronzo aveva un delicato color camoscio, marezzato dall’uso e dalla corrosione del tempo.
Vicine c’erano altre lampade Channukà; di terracotta, di ottone, di peltro, di piombo, di porcellana, d’argento, di pietra, di marmo, di steatite: più umili o più preziose, più semplici o più barocche, tutte bellissime. Non c’era nessuna specifica qualità che facesse emergere quella particolare lampada tra le altre, se non quella di avere una straordinaria e muta captatio benevolentiae. Subito a fianco della mia lampada ce n’era una splendida, di mille anni più vecchia: di terracotta come le lucerne romane a lei contemporanee, con un candeliere a sette braccia e a treppiede in rilievo sulla parte superiore. Certamente più rara e fragile e dunque più preziosa di quella in bronzo; ma non aveva lo stesso appeal, la stessa attrattiva.
Mi chinai per osservarla meglio, richiamato e sedotto, e in quell’istante sentii un leggero soffio d’aria tiepida, come il fiato di un gattino. Un ventilatore? Guardai sopra la vetrina: c’era solo un igrometro/termometro a registrazione, completo di gel di silice. Girai attorno alla vetrina, deliberatamente osservando gli altri oggetti. La circumnavigai, per poi tornare davanti alla lampada in bronzo; e di nuovo sentii il soffio. Ma questa volta mi parve di cogliere una voce acuta e lontana.
La vetrina aveva alcune aperture circolari delle dimensioni della moneta da mezzo dollaro nella parte superiore del vetro, appena più a sinistra della lampada. Avvicinai l’orecchio alle aperture e subito percepii più forte il soffio d’aria e più nitide alcune parole.
Dammi…mano…accendere…Chanukkà.
Mi allontanai dalla vetrina di un passo. Avevo sognato? Avevo veramente udito quelle parole? Riavvicinai l’orecchio alle aperture circolari: sentii il fiato tiepido ma non una parola.
Ah, ecco! Mi pareva…Ho sognato, ecco tutto!, dissi a mezza voce. Ma non avevo nemmeno finito la frase che udii nettamente un’invocazione:
Aiutami!
Ora non potevo più far finta di nulla, la parola l’avevo sentita chiaramente.
Ma…ma chi sei?, chiesi con voce tremante.
Sono il genio della lampada.
Il ge…il genio? Come quello della lampada di Aladino?
Oh signore! Tutti voi umani conoscete solo quello sbruffone!
Ora la voce arrivava chiara e sicura al mio orecchio incollato al vetro.
Sì, sono pressappoco come lui. Vedi, tutte le lampade hanno un genio. L’invenzione della luce fu una cosa sensazionale anche per Dio che pure ai miracoli è abituato; senza la luce e il suo calore non ci sarebbe vita. Quando Dio si accorse di aver creato una tal meraviglia si complimentò con sé stesso, non aveva altri con cui farlo a quel tempo, e si disse che era una cosa geniale. ‘Voglio che ogni fiamma che si sprigiona dagli strumenti che gli uomini inventeranno per conservarne la luce sia custodita da un angelo’, decise. Tu m’insegni che ogni categoria angelica ha il suo proprio nome: cherubini, custodi, troni e così via. Noi, custodi della sua invenzione più geniale, ci chiamò geni. Io sono il genio di questa lampada.
Ero allibito e intimidito allo stesso tempo. La lampada continuava ad attrarmi, aggiungendo sinestesicamente alle qualità estetiche quelle di un abile discorso; ma un po’ di tremore mi era entrato nell’anima nell’udire quelle parole che sembravano venire dall’aldilà.
Mi guardai intorno. Lontano trenta metri, tutta la lunghezza della sala, c’era un guardiano seduto in un angolo con un giornale in mano. Sembrava appisolato e certamente non mi stava osservando. Ero seminascosto dallo spigolo della vetrina e la mia posizione leggermente curva poteva essere scambiata per quella di un appassionato che si chinava sugli oggetti esposti per meglio esaminarli. Avvicinai le labbra ai fori nel vetro e sussurrai:
Ho capito. E sai fare prodigi come quello di Aladino?
Ancora con questa storia! Ma no, è tutta un invenzione di Aladino, quella faccenda. Non sapendo come giu-stificare un improvviso aumento della sua ricchezza, dovuto ad un colossale furto in casa di un ricco possidente, per non essere sospettato Aladino si inventò quella storia del genio che esaudiva i desidèri. Senti un po’…
Ma ogni lampada ha il suo genio?, lo interruppi. Anche quelle che ho in casa?
Solo quelle sacre, come quelle che sono state create per la Festa delle Luci. Come me e queste intorno a me.
E loro non parlano?, chiesi. E come mai la lampada Channukà che ho a casa non ha mai detto niente?
Sentii un leggero sospiro uscire dai fori del vetro: il genio si stava scocciando. Da come parlava sbrigativamente, dalle sue spiegazioni frettolose capii che voleva dirmi qualcosa di urgente che le mie domande ritardavano. Ma capivo anche che voleva essere convincente, che aveva usato una captatio benevolentiae visiva per me del tutto nuova attirandomi presso la vetrina, presso la sua lampada, e che ora continuava in quell’opera di aperta disponibilità per vincere la mia sorpresa e la diffidenza di fronte ad un fenomeno ai miei occhi inspiegabile e leggermente inquietante. Siamo abituati a fondare molto delle nostre percezioni sulla vista. Il non vedere con chi siamo in contatto ci rende sospettosi, spesso al telefono usiamo espressioni del tipo Ma di questo è meglio che parliamo a quattr’occhi non solo perché diffidiamo del mezzo che può essere controllato ma anche perché riteniamo indispensabile guardare negli occhi l’interlocutore per capirne le vere intenzioni. Siamo abituati a cogliere le sfumature dello sguardo molto più che quelle della voce. Il genio sapeva evidentemente tutto ciò, e cercava di essere convincente col suo sussurro. E dunque riprese con tono didattico le sue spiegazioni:
Gli angeli in generale sono muti ed invisibili. Non hai mai sentito veramente né visto il tuo angelo custode, correggimi se sbaglio. Però lo senti dentro di te, lo senti a volte sussurrarti all’orecchio per consigliarti il meglio. Così è per i geni: il nostro compito è di custodire e sorvegliare il sacro fuoco, e per questo non c’è bisogno di parole. Tu non mi vedrai mai, né udrai mai una vera parola da me. La parola è un mezzo tremendamente grezzo di comunicazione; in cielo usiamo le onde cerebrali per entrare in sintonia l’un con l’altro. E devi sentire le ondate che usa Dio quando s’arrabbia! Dunque il contatto che abbiamo stabilito tra noi è puramente cerebrale, i miei pensieri si manifestano in sussurri per rendersi percepibili a te che non hai altro sistema per capirmi. E faccio questo perché ora ho bisogno di te.
Ecco che eravamo arrivati al dunque! Ci doveva pur essere qualcosa dietro l’esca che il genio mi aveva posto davanti agli occhi fin dal momento in cui, seduto sul divanetto di fronte alla vetrina, mi aveva attirato verso i fori nel vetro per farmi udire la sua debole onda cerebrale.
Io mi chiamo Aladar, mi disse. E tu?
Ben.
Senti Ben: non abbiamo molto tempo. Ho molte cose da dirti e tu hai alcune cose da fare, se mi vorrai aiutare come spero. La mia lampada è stata fabbricata nella Spagna del Sud 700 anni fa, in un piccolo villaggio di una provincia che gli arabi chiamavano ‘al Andalus’.
L’Andalusia, dissi.
Non so come si chiami oggi. A quei tempi la Spagna meridionale era sottomessa agli arabi, ma gli ebrei ci si trovavano bene e i loro affari prosperavano. La famiglia presso cui sono stato per quasi duecento anni era ricca. Ogni anno mi compravano l’olio, sempre di primissima qualità, profumatissimo; compravano gli stoppini nuovi, e mi accendevano, una luce dopo l’altra, uno stoppino al giorno, per tutta la durata della Festa delle Luci. Io ero felice: custodivo le fiamme con gioia. Avvisavo come potevo i membri della famiglia quando l’olio stava per finire, e trovavo sempre qualcuno con l’orecchio vigile che mi ascoltava e rabboccava le vaschette. Appendeva-no la mia lampada allo stipite interno della porta; alle volte, quando i tempi erano propizi, cioè quando i cristia-ni ci lasciavano in pace, la mettevano sulla finestra aperta sulla strada, perché tutti quelli che passavano vedes-sero come da noi si celebrava la Festa delle Luci. Insomma ero un genio felice, lieto di compiere il mio lavoro.
Finché un brutto giorno il re cristiano Ferdinando d’Aragona si mise in testa di scacciare i mori dalla Spagna, e ci riuscì. Gli ebrei furono accusati di esser stati complici dei mori in tutti i sei o sette secoli di dominazione araba, per vendetta sui cristiani delle tremende persecuzioni subite in passato. Giusto o vero che fosse, gli ebrei furono scacciati dalla Sefarad, come loro chiamavano la Spagna; furono costretti ad emigrare diventando, tu m’insegni, ebrei sefarditi. Ahimè! La casa della mia famiglia fu incendiata, gli abitanti scapparono con poche cose dimenticando la mia lampada sullo scaffale; la casa crollò e la lampada finì tra le macerie. Dopo molti anni un prete venne a benedirle e un cristiano che aveva acquistato quel lotto di terreno ci cominciò a costruire la sua dimora. La lampada fu ritrovata, e puoi immaginare la gioia nel tornare a vedere la luce, per me che sono un genio custode della luce. Gioia breve perché la lampada fu trovata da un operaio che vide che era bella, non la gettò, ma la mise nella sua cantina, ancora al buio. Altri anni passarono, tanti; poi il figlio dell’operaio la vendette a un carrettiere, e poi…ma ti risparmio tutti i passaggi di mano che ebbe la mia casa, finché non capitò ad un antiquario olandese che la vendette ad un emissario di questo Museo; ed ora da trent’anni sono qua, in questa vetrina.
Beh, qui c’è luce, almeno, dissi.
Sì, ma la luce che mi dà veramente gioia è quella che la mia lampada produce. In tutti questi secoli da quando fui abbandonato dalla famiglia sefardita non sono mai stato di proprietà di un ebreo, nessuno ha mai festeggiato la Festa delle Luci, nessuno ha mai più acceso i miei stoppini, uno dopo l’altro per otto giorni, come ero abituato a ogni anno. E questo è il mio cruccio. Mi piacerebbe tanto che qualcuno accendesse ancóra una volta la mia lampada e io potessi godermi le otto fiammelle, custodendole con amore. Per questo sono nato, questo è il cómpito che Dio mi ha affidato e questo vorrei fare. Mi sento un fallito, io come tutti i miei colleghi qui attorno, a stare chiuso qui dentro; vedo i turisti passare, sento gli ohhh di meraviglia quando vedono la bellezza della mia casa e penso: ‘Se vedeste com’è bella quando i lumi sono accesi!’ Ecco perché quando ti ho visto ti ho chiamato, e tu mi hai sentito. Non è da tutti, credimi: sei il primo in tutti questi anni.
Ma perché hai chiamato proprio me?
Oggi è un giorno particolare, lo capirai dopo.
Va bene, ma come mai ti posso aiutare?, chiesi.
È semplice: devi andare fuori, comprare un po’ d’olio e otto stoppini…
Come fosse facile trovare degli stoppini a New York!, lo interruppi.
Qui c’è ogni cosa da ogni parte del mondo. Ho sentito dire che questo Museo è in un quartiere abitato da ebrei: non dovrebbe essere difficile trovare un negozio che vende oggetti sacri, come le lampade Chanukkà. Lì dovrebbero avere anche gli stoppini.
Effettivamente avevo visto un negozio di arredi sacri ebraici, nella strada parallela a quella in cui sorgeva il Museo. Non dissi nulla. Il genio riprese:
Quando hai tutto vieni qui verso l’una, quando i custodi vanno a turno a mangiare e la sorveglianza è meno intensa. Apri la vetrina…
Appoggiai le labbra alle aperture nel vetro e con voce un po’ più alta di quella che volevo esclamai:
Ma sei pazzo? Così suona l’allarme e mi arrestano!
No, non suonerà. Ti ho detto che oggi è un giorno speciale. Guarda la chiusura di questa vetrina.
Abbassai lo sguardo. La vetrina era chiusa solo apparentemente; il lucchetto era in posizione, ma non era chiuso. Qualche filo pendente all’interno denotava che l’allarme nella vetrina era staccato. Guardai quella a fianco: il lucchetto era chiuso e i fili erano fissati con piccoli chiodi alla parete. Il genio disse:
È venuto un operaio stamattina presto: stanno cambiando tutti i sistemi d’allarme, una vetrina dopo l’altra. Ieri è toccato a quella a fianco. In questa, l’operaio ha scollegato il vecchio allarme e domani installerà quello nuovo; ma nel frattempo solo per oggi la vetrina è aperta e senza allarme. Ecco perché quando ti ho visto lì seduto ti ho chiamato. Oggi è l’unico giorno in cui questo è possibile, da domani saremo di nuovo in galera per chissà quanti anni. Prova ad aprire la vetrina, convinciti da solo.
Ma no, sei matto. Ma perché vuoi che rischi? Se l’allarme suona…
L’allarme non può suonare, non vedi? Dai prova ad aprire, non aver paura.
Il genio sapeva essere tremendamente convincente, doveva essere ottima la scuola di retorica in cielo. Il tono di voce più che le parole che in realtà non ero nemmeno ben sicuro di udire mi stavano convincendo. Avvicinai la mano al lucchetto, poi la ritrassi in un ultimo titubante ritegno.
Coraggio, Ben: prova. Non suonerà. Ma supponi che suoni: tu richiuderai immediatamente a vetrina e correrai nella sala a fianco.
Effettivamente a cinque metri dalla vetrina c’era l’ampia porta che conduceva alla sala degli assiri.
Il guardiano là in fondo correrà qui, non troverà nessuno. Nel tempo che ci mette a capire perché l’allarme ha suonato e qual è la vetrina che è aperta tu sarai già nella seconda o nella terza sala dopo questa. La colpa sarà addossata all’operaio che ha lasciato la vetrina aperta e si dirà che per un qualche misterioso contatto l’allarme si è messo a suonare. Poi realizzerà che fortunatamente non manca nulla. E allora la conclusione sarà che è interesse di tutti, Direzione del Museo compresa, di dare alla faccenda la minore pubblicità possibile, per non rivelare a tutti l’incuria con la quale conservano i loro preziosi tesori. Correggimi se sbaglio.
Il ragionamento filava, anche se il rischio per me rimaneva alto. Ma ormai ero convinto, e la mano tornò ad avvicinarsi al lucchetto. Stavo già per afferrarlo, quando il genio sussurrò:
Mettiti il guanto! Non si sa mai…
Ma allora non sei sicuro che non suoni!, dissi irritato.
No, tu m’insegni che un filo scollegato, e tu lo puoi vedere da te che non è connesso, non può dare alimentazione di corrente. Ma perché ignorare una semplice precauzione che, se trascurata, collega la tua persona a questa vetrina? Cosa ti costa?
Nulla in effetti, pensai; e mi infilai il guanto. Avvicinai per la terza volta la mano al lucchetto e lo afferrai.
Forza, disse il genio.
Disposi i piedi e il corpo pronti a scattare verso la porta della sala a fianco e tirai leggermente la vetrina verso destra; quella scorreva su guide silenziose e seguì la mano senza sforzo. La aprii per tre centimetri e staccai la mano: non successe nulla. Ripresi il lucchetto e stavolta detti uno strappo più deciso: la vetrina si aprì per trenta centimetri senza problemi.
Che t’avevo detto?, mi chiese il genio. Ora richiudi, corri, va’. Prendi gli stoppini e l’olio e torna qua per l’una.
Sorrisi al pensiero che eravamo nel mese di Kislev, nome che deriva dalla parola ebraica che significa sicurezza, fiducia. Non c’era dubbio che di fiducia nei visitatori i guardiani ne dimostravano tanta, ma quanto a sicurezza… Richiusi la vetrina. Ero tutto sudato per la tensione. Stavo fermo fissando la lampada, come imbambolato. Mi sentivo le membra inerti, le ginocchia molli, il respiro corto.
Cosa aspetti? Fila!, mi incoraggiò il genio. Girai sui tacchi e mi avviai verso l’uscita.
Erano le undici del mattino. All’ingresso feci vedere il biglietto e dissi che sarei tornato di lì a breve. A cinque minuti a piedi, nella strada parallela trovai il negozio di articoli sacri ebraici. Comprai stoppini e olio.
Ma cosa sto facendo?, mi chiesi per un attimo. Ma il dubbio fu presto scacciato: ero come ipnotizzato, agivo in maniera automatica, seguendo le istruzioni del genio. Era troppo eccezionale quel che mi stava capitando per ignorarlo con un’alzata di spalle e andarmene per i fatti miei. Mi sarebbe rimasto il rimpianto per tutta la vita di sapere come sarebbe andata a finire un’avventura come quella. Oggi e solo oggi, con la vetrina dall’allarme scollegato, era possibile accendere la lampada di Chanukkà. Probabilmente il genio non mi avrebbe parlato se fosse stato attivo, mi rendevo conto che mi stava capitando una cosa unica, che ero stato prescelto dalla sorte per un’avventura che avrei non solo ricordato io per tutta la vita, ma che sarebbe rimasta nella memoria della mia famiglia per generazioni.
Mi misi gli stoppini e il boccettino dell’olio in tasca a ritornai nel Museo. Mi guardai bene dal tornare prima del tempo nella sala dell’ebraismo, per non farmi notare dai custodi. Anzi, feci in modo di aggirarla e arrivarci dalla sala degli assiri, quella la cui porta era presso la vetrina delle Chanukkà e lontana dalla sedia del custode.
Gironzolai per varie sale finché all’una in punto entrai in quella dell’ebraismo e mi avvicinai alla vetrina. Sentii subito il soffio caldo del genio:
Bravo! Hai tutto?, mi chiese.
Mi affacciai appena oltre lo spigolo della vetrina per guardare dalla parte del custode: la sedia era vuota, forse era andato a mangiare un boccone alla Cafeteria. Non risposi al genio e aprii deciso la vetrina. Le mani mi tremavano, ma ero deciso a esaudire il suo desiderio. Tirai fuori di tasca i lucignoli e li collocai, uno ad uno, negli scodellini; poi versai l’olio dal boccettino. In tre minuti tutto era compiuto.
Il genio era rimasto silenzioso, in attesa per tutto il tempo. Quando ebbi finito mi disse con voce tremante:
Sai che oggi è il primo giorno della Festa delle Luci?
La voce, o meglio, il soffio che la rappresentava, gli tremava.
Me lo immaginavo. Sei emozionato, Aladar. Anche i geni hanno emozioni come gli umani?
E come no! Dai, accendi.
Presi l’accendino e avvicinai la fiamma al primo stoppino. Il fuoco ci mise qualche secondo a prendere ma poi si accese e cominciò a bruciare con una fiamma pesante e rossastra. Il fumo aveva un che di carbonioso che la diceva lunga sulla qualità dell’olio: non era certo quello profumato a cui il genio era abituato, ma lui non disse nulla. Era felice e il soffio tiepido mi raggiunse:
Ah, Ben, grazie! Dio, quanto tempo! Guarda che meraviglia! Che bella fiamma!
Aladar, è meglio che me ne vada. Non vorrei venisse qualcuno…
Certo, sì, grazie ancora! Dio te ne renderà merito, Ben. Addio!
Chiusi la vetrina lasciando uno spiraglio di un millimetro perché l’aria potesse alimentare la fiamma. Diedi un’ultima occhiata in giro: nessuno in vista. Il fumo usciva dai fori da cui comunicavo col genio.
Me ne andai veloce nella sala a fianco, e poi nella successiva. Dentro un canopo egizio posto su un piedistallo infilai il boccettino dell’olio. Dovetti alzarmi sulla punta dei piedi, non l’avrebbero trovato facilmente.
Ero nell’ultima sala e stavo avviandomi all’uscita quando un urlo sovrumano squarciò l’aria. Una sirena d’allarme suonava pulsante. I tornelli d’uscita si chiusero automaticamente, mentre tre custodi e una guardia armata si dirigevano di corsa verso l’interno del Museo, percorrendo a ritroso il percorso che avevo appena fatto.
Dopo un minuto udimmo dei violenti colpi: erano le porte tagliafuoco che isolavano la sala nella quale c’era stato il principio d’incendio.
Posso uscire?, chiesi al poliziotto che si era subito messo a guardia all’uscita.
No, signore. Purtroppo c’è stato un incidente, rispose per niente contrito, anzi lievemente sospettoso che un visitatore chiedesse di andarsene.
Che incidente?
Non so. È scattato l’allarme.
Ma quale allarme?, mi chiesi. Entrai nel grande negozio di gadget e libri che c’era lì presso, disponendomi ad aspettare.
Saltò fuori che il fumo della lampada aveva attivato il sistema di rilevazione fumi, che a sua volta aveva azionato la sirena per avvertire i visitatori di allontanarsi dalla sala dell’ebraismo, per poi chiuderne le serrande del condizionamento e inondarla di anidride carbonica.
Né io né Aladar avevamo pensato all’allarme antincendio. C’erano solo ventitre visitatori presenti nel Museo. Quasi tutti furono immediatamente rilasciati perché si trovavano sotto gli occhi dei custodi o alla Cafeteria o erano entrati da appena un minuto, come provò una famigliola esibendo il biglietto di ingresso.
Ci hanno messo un po’ a capire dove l’incendio si era originato, perché l’anidride carbonica ha cancellato molte tracce. Ma poi hanno trovato gli stoppini e hanno capito.
Ora sono in guardina: sono un ebreo e questo li ha insospettiti. Ma mi rilasceranno presto; hanno perquisito tutte le sale del Museo senza trovare il boccettino dell’olio nel canopo né altre tracce che riconducano a me.
In fondo non è successo nulla di irreparabile, nulla è stato rubato né danneggiato; e poi, come diceva Aladar, che figuraccia farebbe mai la Direzione del Museo quando si scoprisse che uno qualunque poteva aprire senza difficoltà una vetrina e addirittura accendere una lampada di Chanukkà?
M A I A L I
Quando si era unito alla 62ª Brigata Garibaldi, quindici mesi prima, aveva legato soprattutto con Buriana. Edo era uno studente di città, che aveva piantato lì medicina al terz’anno per via della guerra: non sapeva un’acca di come muoversi e vivere nell’ambiente dei boschi e delle montagne. Ma aveva saputo porsi con umiltà di fronte agli altri, tutti socialmente e culturalmente a lui inferiori, fino ad integrarsi e ad essere un punto di riferimento per molti che con lui si confidavano, magari prendendo come spunto un consiglio medico per un ascesso o una febbre sconosciuta. Però era con Buriana soprattutto che Edo aveva fatto amicizia. Da lui, contadino di montagna prestato ai partigiani, aveva imparato tante cose. Gli piacevano la sua concretezza e il suo buon senso, così solido da reggere anche nei momenti più drammatici; in quegli attimi Buriana riusciva a rimanere freddo e a suggerire sempre le cose più logiche e le soluzioni più sensate.
La guerra partigiana era una guerra di volontari, i capi potevano decidere fino ad un certo punto, ma poi bisognava cedere alla psicologia collettiva, e anche alle debolezze collettive. Se scendevano nei villaggi di fondovalle i partigiani non avevano più voglia di tornare in montagna, cedevano al desiderio della fortificazione, della sicurezza apparente, senza pensare che la salvezza risiedeva proprio nell’agilità e velocità dei loro spostamenti, nella conoscenza del territorio, perfino nel disagio della vita in montagna. Questa tendenza suicida andava combattuta continuamente dai capi, convincendo i propri uomini uno per uno, perché se una cosa a loro non andava opponevano una resistenza sorda, una passività che finiva sempre per avere la meglio. Di tutto questo Buriana era oscuramente consapevole, Edo ne era certo; ma, conscia o no, la grande autorità che su tutti Buriana aveva, puntellata da poche parole sempre opportune, e pronunciate al momento giusto, facevano di lui un vero capo.
La loro vita era strana: lunghi momenti di noia e inerzia seguiti da improvvise accelerazioni, fughe precipitose, combattimenti disperati. E anche per le cose comuni di tutti i giorni, mangiare, dormire, fumare, era lo stesso: a volte arrivava un sacco grande così di castagne e ne mangiavano fino a scoppiare, oppure una stecca di sigarette che divisa tra loro finiva in tre ore, per poi restare giorni interi con un tozzo di pane e a fumare cicche nella pipa. Una vita sconclusionata, consumata giorno per giorno, senza fare programmi. Gli ultimi che Edo si era fatto era stato quando si era aggregato alla 62ª: ‘Tanto sarà per poche settimane’, si era detto.’Per Natale sono a casa.’ E invece, eccolo qua quindici mesi dopo, sporco e con una barbaccia così, seduto davanti alla Ca’ di suspìr, che era poi la loro base, a chiacchierare con Buriana, a godersi un’occhiata di sole coi piedi in alto per non lasciarli nella neve.
Le attività belliche in montagna erano ridotte al minimo per via del freddo e delle nevicate, e si era proprio in uno di quei periodi di ozio forzato. Erano i giorni della merla, i più freddi dell’inverno. Era da Natale, più di un mese prima, che la temperatura in montagna non saliva sopra lo zero, e quando ci si avvicinava era perché lo scirocco portava altra neve, non sapevano più dove metterla. Buriana l’aveva previsto: in autunno aveva detto che pioveva troppo per sperare in un inverno mite, che ci sarebbero stati neve e freddo cane. E così era stato ed era ancora.
Buriana si era slacciato il pastrano, lasciando intravedere sotto la giacca sformata la camicia che era stata oggetto di mille scherzi per via dell’abbacinante colore giallo canarino.
O, mica portarla in azione quella, eh?, gli aveva detto Bùbbolo. Ti si vede a un chilometro!
Buriana quel giorno era stranamente loquace. Parlava di quando da piccolo andava col papà a Castiglione a far benedire le bestie, il giorno di S. Antonio.
Poi tornati a casa macellavamo il maiale benedetto, diceva, e mangiavamo le cose fresche: il fegato con la rete e le costolette. Intanto bolliva la coppa d’inverno…
Ah, quella non mi piace, intervenne Edo, a cui faceva un po’ schifo quell’insaccato che raccoglieva gli scarti bolliti e triturati del maiale: orecchie, guance, palpebre e gozzo…
Perché ‘t’an capéss gninta’, non capisci niente. Con la polenta e la conserva è un pranzo che neanche re Umberto…
Ormai erano più di quarant’anni che re Umberto non c’era più, ma quell’espressione imparata dai suoi vecchi Buriana la continuava a usare, senza volerla aggiornare.
Poi Edo gli parlò della Tilde, una ragazza che frequentava da un po’ e che stava in una cascina, dall’altra parte della valle.
Per arrivarci senza scendere mi tocca fare un giro per i monti che non finisce mai, diceva. Con la neve ci metto anche due ore!
Beh, ma ne vale la pena almeno?, domandò maliziosamente Buriana.
Ah, beh…, rispose Edo, imbarazzato come sempre quando le chiacchiere sfioravano l’argomento sesso. Non era tanto per la riservatezza dovuta alla Tilde, quanto perché era stranamente insofferente alle volgarità da caserma, a cui pure dopo tanti mesi di guerra e di vita partigiana avrebbe dovuto fare il callo.
Ha sempre la foto di Bruno sul comò?, chiese ancora Buriana.
La Tilde era una donna sposata con un alpino che un mese dopo il matrimonio era partito per la Russia. Dopo un paio di lettere non s’era fatto più vivo. Lei pensava fosse morto, ma continuava a tenere la sua foto in divisa sopra il comò di fronte al letto, con leggero imbarazzo di Edo. Buriana chissà come era venuto a sapere della faccenda della foto.
Edo non rispose.
Un giorno la Tilde gli disse che voleva ammazzare un maiale che teneva nascosto nella legnaia, ma non sapeva come fare.
Il maiale è una bestia intelligente, diceva. Se tirassi fuori il coltello per tagliargli la vena del collo si metterebbe ad urlare in un modo che lo sentirebbero dal paese. E mi troverei coi fascisti in casa nel giro di mezz’ora. Lo stesso se ti chiedessi di tirargli un colpo in testa con lo sten. Come posso fare?
La Tilde aveva ragione: la sua cascina era fuori del paese, e proprio questo le aveva permesso di nascondere per più di un anno il maiale. Ma ugualmente il fracasso della sua uccisione avrebbe richiamato i repubblichini se attuata coi mezzi consueti.
Ne parlerò con Buriana, le rispose Edo.
La sera alla Ca’ di suspìr chiese consiglio, e Buriana rispose che ci avrebbe pensato su. Poi la mattina gli disse:
So come fare; dille che andiamo da lei sabato sera; io e te, che la notte mi aiuterai a ‘fare’ il maiale.
Sabato alle cinque di sera partirono dalla Ca’ di suspìr; Buriana aveva messo una boccetta misteriosa nel suo sacco, Edo non gli aveva chiesto niente. Era una notte buia, piena di nebbia, con qualche leggero fiocco gelato che scendeva adagio. Ma la poca luce in giro era riflessa dalla quantità impressionante di neve che li circondava, e il sentiero era perfettamente visibile. La neve sul sentiero teneva nel gelo, senza farli affondare, e in breve arrivarono alla cascina.
La Tilde non si era azzardata a preparare niente per non allarmare il maiale. Così durante la cena Buriana le disse di portare nella legnaia la caldera, le pignatte e la legna, che alle dieci avrebbero cominciato l’operazione.
Arrivato il momento, Buriana tirò fuori la boccetta dal sacco: era pieno di olio lubrificante per automobili. Lo mise in un pentolino a scaldare sulla stufa. Quando lo vide bollire andò a prendere il maiale, che era bello grosso e panciuto. Lo portò in cucina e mentre lui grufolava tra gli avanzi della cena, gli prese il testone, glielo girò un poco da una parte e gli versò rapido l’olio bollente in un orecchio. Il maiale preso alla sprovvista fece un grugnito di sorpresa e svenne all’istante per il dolore, accasciandosi sui piedi di Edo. Subito Buriana aprì il cassetto, tirò fuori il coltellaccio e gli tagliò la vena del collo. La Tilde era pronta col secchio per raccogliere il sangue: ci avrebbe fatto il sanguinaccio. Poi lo trascinarono nella legnaia e cominciò una notte di duro lavoro per tutti e tre. Volevano finire prima dell’alba perché l’odore che le carni bollite avrebbero sparso tutt’attorno nell’aria secca non fosse individuabile.
Alle quattro il più era fatto: i prosciutti, salati per un’ora ciascuno da Edo, i salami, impastati con erbe di campo in mancanza dell’introvabile pepe e insaccati, gli zamponi, le braciole e il fegato: tutto accuratamente nascosto nella legnaia, al fresco sotto una catasta di fascine da fuoco. Non tutto era fatto, ma si faceva tardi e alle cinque don Fausto avrebbe suonato la campana della prima messa; i più mattinieri avrebbero cominciato a girare per il paese e per quell’ora volevano già essere sul sentiero per la Ca’ di suspìr. Avrebbe terminato la Tilde, insaccando lo strutto nella vescica, strizzando i ciccioli e finendo la cottura della coppa un po’ per volta nei giorni successivi.
Salutarono la Tilde, si presero due braciole e metà del fegato con la rete, e si misero a correre su per la mulattiera. La sera, alla Ca’ di suspìr, con cinque cipolle ci venne un fegato alla veneta che neanche re Umberto…
Con la Tilde Edo c’era stato insieme più di un anno. Aveva avuto un’altra donna, una vedova, ma era stato un rapporto occasionale seppur affettuoso e sincero. Dalla Tilde invece ci tornava sempre regolarmente, appena poteva. Ci stava bene con lei, apprezzava la sua concreta indipendenza di donna abituata ad affrontare la vita coi suoi gravi problemi, la sua schiettezza e il suo fuoco nel fare all’amore.
La sentiva un po’ come la sua ragazza e, senza far troppi programmi su un futuro così incerto, aveva fatto anche qualche pensiero di possibili sviluppi a guerra finita. Con lei non ne aveva mai parlato, né lei, se mai ci aveva pensato, gliene aveva fatto cenno. D’altronde c’erano alcuni seri ostacoli da entrambe le parti: lui non aveva un’attività sicura e doveva comunque prima finire i suoi esami e laurearsi; lei aveva il problema del padre semideficiente che andava accudito come una mucca (Ho perso ormai tutte le bestie ma mi è rimasto mio padre!, diceva lei); e c’era anche il podere che andava coltivato. E poi era sempre sposata, anche se non si faceva illusioni sulla sorte del marito. E se di lì ad un anno, quando già avevano fatto i loro progetti e preso impegni, spuntava il reduce dalla Russia, come l’avrebbero messa?
Quando l’andava a trovare gli sembrava che lo accogliesse con qualcosa più dell’affetto riservato all’amante col quale sfogava i suoi istinti di giovane e sana ragazza di vent’anni. Pareva felice di vederlo, soprattutto quando le faceva un’improvvisata, e gli sembrava di leggerle negli occhi verdastri una luce che lo illudeva.
Una sera di fine marzo stava percorrendo a passo spedito il sentiero che portava alla cascina della Tilde. L’attività bellica era ripresa da qualche giorno, appena la neve aveva cominciato a sciogliersi, e sùbito si era visto che quella spallata sarebbe stata quella buona: i tedeschi si difendevano fiaccamente, ormai stanchi anche loro, e finalmente, di cinque anni e mezzo di guerra. In paese c’era sempre il presidio dei fascisti, e andare alla cascina della Tilde, che pure era isolata, era sempre pericoloso. ‘Una di queste volte ci lascio le penne!’, pensava un po’ preoccupato mentre si guardava attorno. D’altra parte tira più un pelo di quella che una coppia di buoi, come diceva Bùbbolo…
Erano ormai le nove di sera: le giornate si erano allungate e l’obbligavano a partire sempre più tardi dalla Ca’ di suspìr. Il sentiero era ancora sporco di neve, ma sui prati in molti punti cominciava a vedersi l’erba giallastra dell’anno prima e il verde chiaro di quella nuova. Era una sera che sembrava tiepida dopo il freddo dei mesi precedenti, anche se tirava un venticello (uno zeffirino l’avrebbe definito Buriana) che pelava la faccia. Si fermò a guardare giù tra un rado degli alberi: poteva vedere il paese sotto di lui; non un lume brillava ma alla luce di un quarto di luna e di tutta la neve ammucchiata poteva distinguere la chiesa, il campanile e alcune case della piazza. Riprese il sentiero con l’anima leggera e la pace nel cuore. Cominciava ad essere proprio stanco di quella vita di freddo e miseria e aveva voglia di pace e comodità. Di quella pace che non arrivava mai, che doveva venire due Natali fa ma che si era fermata per tutto l’ultimo inverno a pochi chilometri da lì, sulla linea gotica. Vedevano passare i bombardieri diretti alle città del nord, ma un attacco serio alle postazioni tedesche sull’Appennino non era ancora cominciato, anche se l’attività preparatoria lo diceva imminente.
Alla Tilde portava un regalino, un fazzoletto ricamato che aveva gli regalato la vedova di S. Benedetto per farsi ricordare: ‘Dio, se lo venisse a sapere! Ma anche la Tilde… mi staccherebbe la pelle della schiena a bastonate!’, ridacchiò tra di sé.
Dall’alto vide la luce di una candela venire dalla finestra della camera di Tilde al primo piano: che strano!
Fece di corsa l’ultimo tratto, girò attorno all’angolo della casa e bussò alla porta. Passò più tempo del solito prima che la Tilde aprisse la finestra della camera di sopra e si affacciasse:
Ah! Sei tu, disse, senza meraviglia ma anche senza molto entusiasmo.
Edo non ci fece caso, così come non notò il tempo, ancora insolitamente lungo, che la Tilde ci mise a scendere e aprire l’uscio. Entrò. Il camino era spento, ma le braci illuminavano l’ambiente a sufficienza perché lui subito scorgesse una camicia da uomo sulla sedia impagliata. Era di un giallo canarino inconfondibile.
Si bloccò all’istante. Passarono cinque secondi buoni, in cui tutto il suo mondo di quei mesi gli passò per la testa: la morte di Ettore, le missioni pericolose ma brillanti con Bùbbolo, i compagni della Ca’ di suspìr, e infine l’amore e l’evidente tradimento di Tilde e di Buriana.
La donna era rimasta ferma di fianco alla porta, dentro la cucina, guardandolo seria di sotto in su. Una voce maschile che ben conosceva venne dal vano delle scale:
Chi c’è Tilde?
Edo sentì i passi pesanti scendere i primi gradini. Girò sui tacchi e prese a correre per l’aia, ripetendo sottovoce una sola parola: ‘Stupido! Stupido! Stupido!’
Stupido per non aver capito. Corse fino a essere costretto a fermarsi dal fiatone, e si sedette sul bordo del sentiero.
Con Buriana! Si era messa con Buriana quella maiala! Da quanto tempo andava avanti quella storia? Mille domande e mille indizi gli vennero alla mente. Aveva un bel ripetersi che non aveva alcun diritto su quella donna, che non avevano mai parlato di nulla, che non c’era nulla tra di loro. Continuava a ripeterselo, ma la delusione era così forte che gli vennero le lacrime. Prese il fazzoletto ricamato, si asciugò gli occhi, poi per la rabbia lo stracciò buttandolo nel torrente.
Si sentiva tradito, come uno sposo legittimo, tradito due volte, da lei e dall’amico. ‘La Tilde può far quel che vuole, lo vuoi capire sì o no?’, si diceva. E Buriana pure. Però se lei gliel’avesse detto chiaramente non avrebbe rischiato la pelle questa sera e molte altre sere. Che maiala, porcogiuda! Tornò alla Ca’ di suspìr piano piano, ogni tanto sedendosi a pensare. Restò sveglio tutta la notte a girarsi nel letto rimuginando su quello che sentiva più come un tradimento della Tilde che uno di Buriana.
La mattina dalla faccia tutti compresero che c’era qualcosa che non andava, e Bùbbolo, senza aver capito nulla, domandò: Hai litigato con la morosa, vero?
Fu la fine di un’amicizia e di un amore. Quando uscì sullo spiazzo davanti alla casa dove era seduto Edo con Bùbbolo, Buriana gli lanciò una lunga occhiata, ma Edo finse di stare osservando un LKW tedesco che si stava muovendo adagio sulla strada del fondovalle. Non si dissero nulla né allora né in séguito. Ma non ci furono più i familiari colloqui e i lunghi silenzi con Buriana, e i loro rapporti si limitarono a quelli indispensabili alla convivenza ed al lavoro che stavano compiendo. Ci furono azioni belliche che compirono assieme, loro due con altri del plotone, tutte svolte con la collaborazione necessaria alla loro buona riuscita, ma nulla più. Edo non aveva più rivisto la Tilde; quando pensava a lei, ora non la chiamava più la maiala.
Meno di un mese dopo tutto era finito, gli americani avevano sfondato e i tedeschi si stavano ritirando. Ora Edo stava camminando lungo la Nazionale che portava a Bologna; non si era precipitato giù per la Futa con Buriana e gli altri, ansiosi di entrare per primi nella città liberata, di sfilare in parata tra la gente festante. Si era sentito incapace di gioire insieme a quello che considerava sempre un traditore, e Buriana aveva capito e non l’aveva nemmeno invitato ad unirsi al gruppo che era partito su un camion. Edo camminava tranquillo, solo, scendendo con lo sten a tracolla e il pastrano nel sacco. I ricordi a volte tristi a volte allegri non riuscivano a togliergli di dosso quello strano stato d’animo, di preoccupata tristezza che non bastava il doppio tradimento a giustificare. Perché non era capace di essere felice, o almeno contento, in quella giornata che doveva essere di gioia per la guerra finita? Perché non aveva fatto baldoria con gli altri due sere prima, quando si erano sbronzati all’osteria della Rosaura? C’era il pensiero per i suoi vecchi: come li avrebbe trovati? Però dalle notizie che occasionalmente aveva ricevuto sembrava che tutto andasse bene. Poi c’era l’incertezza per il futuro, ma era giovane e aveva tutto il tempo per organizzare la sua vita per il meglio: c’erano tante cose da fare in quel paese in cui tutto era distrutto. E infine c’era, è ovvio, la ferita bruciante del tradimento.
Passò un camion di partigiani.
Compagno vuoi salire?, gli chiese uno.
E lui salì, non per stanchezza ma perché ora gli era venuta fretta di tornare. Sul camion cantavano Bella ciao; due fiaschi di vino giravano e gliene offrirono, ma lui si sentiva lo stomaco in subbuglio per la guida forsennata dell’autista e rifiutò. Alle porte di Bologna chiese di scendere mentendo che era arrivato: un po’ era stufo di quegli sballottamenti e un po’ voleva avvicinarsi a casa sua con calma. E si incamminò a piedi per l’ultimo tratto.
Passò davanti alla scuola, alla chiesa, col suo piccolo cimitero, all’asilo: mille ricordi, non uno di meno di quelli di un anno e mezzo addietro quando aveva percorso quella stessa strada per andarsene in montagna tra i partigiani, ma pure nessuna emozione. Non era più tempo di pensare al passato; il futuro lo aspettava con le sue trappole e i suoi bivii, le urgenze e le decisioni. E lui era preoccupato, ma deciso ad affrontarlo da subito. La Tilde l’aveva sempre in fondo al cuore, ma lontano dai luoghi della sua vita partigiana sentiva rimarginarsi in fretta la ferita.
Adesso che era quasi arrivato rallentava il passo come fosse stanco. Sempre più piano, sempre più piano… Deviò dalla nazionale passò davanti ad una cappellina e si fermò all’Osteria del ragno: aveva sete; il padrone lo conosceva e lo salutò con un entusiasmo forzato, ma negli occhi Bruno gli vide un’ombra.
Bevve in fretta il vino annacquato, uscì e si avviò stavolta con passo accelerato per il viale dove era casa sua. La vide di lontano, gli parve sempre uguale. Ma come si avvicinò a cinquanta passi vide il disastro: le macerie si accumulavano in giardino, tutto il lato a monte era crollato sotto una cannonata degli americani tirata dalla linea gotica. Era l’unica casa danneggiata tra quelle del viale. I suoi due vecchi erano chini sulle macerie, cercavano qualcosa. Non l’avevano visto arrivare. E gli occhi, finalmente, gli si riempirono di lacrime.
U N G E N I O
Il maresciallo capo di cavalleria Traetta Umberto, in congedo, era un originale, un libero pensatore ed un inventore vulcanico, interessato ad ogni cosa con una curiosità che non si sarebbe sospettata in una persona anziana come lui.
Abitava vicino a casa mia e quando coi due migliori amici che avevo, Mario e Guido, avevamo finito i compiti di scuola, l’andavamo a trovare sempre volentieri. Parlava in maniera bizzarra e a volte sconclusionata, ma noi gli perdonavamo tutto perché l’adolescenza accetta volentieri i punti di vista più strampalati, soprattutto quando contraddicono le idee correnti e gli insegnamenti della scuola.
Ci andavamo di pomeriggio. Suonavamo il campanello e, quando udivamo il suo potente: Entrate, chiunque voi siate!, ci affacciavamo al piccolo luminoso soggiorno ingombro di libri e cianfrusaglie in cui il maresciallo passava la giornata.
Come ci scorgeva, urlava il comando: Serrate i ranghi! Che voleva poi dire: avvicinatevi e mettevi comodi. E se era inverno aggiungeva: E alimentate la ‘parigina’ con un ciocco di quelli buoni.
La parigina era una stufa a legna, unica fonte di calore nel suo piccolo appartamento: a quei tempi c’era ancora chi si riscaldava così.
Traetta aveva ogni giorno un diverso dibattito da proporci a seconda delle letture che aveva fatto la mattina; la varietà degli argomenti era straordinaria, e questo era gran parte del piacere di conversare con lui. Ma in particolare aveva venticinque voci, ossia argomenti di discussione o incancreniti problemi scientifici, che sosteneva di aver brillantemente concluso o risolto. Li aveva identificati ciascuno con una lettera dell’alfabeto. E diceva per esempio:
Lettera J – Proposizione di Fermat. La somma di due quadrati può essere un quadrato, ma la somma di due cubi non può mai essere un cubo.
Dopo un istante di pausa necessario perché potessimo digerire il concetto aggiungeva: Indimostrabile fino ad oggi, ed anche a me non è stato facile dimostrarlo. Per poi concludere sottovoce: Ma oggi la faccenda è risolta.
E lo diceva con nonchalance, in fretta, come se non meritasse nemmeno parlare di quella bazzecola su cui si erano scornate generazioni di matematici invano. Noi nascondevamo un incerto sorriso, non sapendo se prenderlo sul serio o scherzarci su. Lui non se ne accorgeva e continuava:
Lettera F - È semplice costruire un meccanismo che permetta di ricavare il latte direttamente dall’erba, senza intermediari muggenti o belanti. Sapete che risparmio? Niente più costosi allevamenti, coi loro ricoveri e problemi sanitari e di approvvigionamenti. Il mio principio è semplice, ma ha alcuni passaggi delicati. Io trituro dell’erba e la faccio macerare in un digestore di mia personale invenzione, leggermente acidificando il bagno. E fin qui nulla di speciale. Ma, e qui alzava un dito spalancando gli occhi fino a mostrare tutta l’iride, ecco dov’è il tocco di genio: bisogna imitare la natura in tutto. Se la vacca rumina, una ragione ci deve essere. Ecco che quindi il bagno va lasciato riposare un tempo congruo, e poi ripreso per un’ulteriore triturazione e acidificazione, simulando il rumino. Dopo questa seconda macerazione sul fondo del recipiente si ottiene… indovini cosa?
Del latte, dicevamo convinti.
No!, rispondeva balzando in piedi. Della merda, estratta la quale, che tra parentesi può essere rivenduta come fertilizzante, rimane un notevole quantitativo di cremoso latte, ricco in panna e grassi vari, adatto al consumo fresco e alla produzione di formaggio.
Ma non è che sa un po’ di …eh?, vista la commistione dei due prodotti?, faceva Guido con aria un po’ schifata.
Bravo! Lei ha focalizzato un punto importante. Infatti il processo non è terminato. Un’accurata ultracentrifugazione a 80
gradi assicurerà la separazione delle ultime tracce di fertilizzante lasciando un latte puro, pastorizzato e già pronto all’uso senza ulteriori trattamenti.
Ma l’ha già costruita la sua macchina? Funziona?, domandava Mario sempre scettico e concreto.
È un dettaglio. Lascio questo ai vili meccanici. Il genio si limita a ideare, per poi passare ad altro.
Normalmente dopo aver illustrato nei dettagli una delle sue lettere dell’alfabeto afferrava un corno inglese che teneva per terra presso la sua poltrona, e con aria ispirata annunciava:
Ora la giga ‘La Normande’, che si suona al ritorno dalla caccia alla volpe.
E attaccava un’aria allegra al termine della quale l’imboccatura dello strumento gli appariva stampata sulla bocca: proprio nel mezzo del labbro superiore rimaneva una protuberanza della grandezza di un pisello che stentava a scomparire.
Dopo la suonatina ricominciava con l’alfabeto degli argomenti.
Un suo cavallo di battaglia era la lettera T – Chiesa Cattolica. Sosteneva che questa era la più potente organizzazione pubblicitaria del mondo, perché aveva un’agenzia in ogni villaggio, installata gratuitamente nell’edificio migliore, munita sul tetto a punta di un avvisatore sonoro per richiamare i consumatori di metafisica desiderosi di immortalità. E noi non trovavamo nulla da obiettare.
Con la lettera D ci informava che la teoria del big-bang era una colossale bufala: il mondo era immobile, e le evidenze sperimentali erano cantonate astronomiche prese dalla collettività degli scienziati da Newton, del quale non aveva alcuna stima, in poi.
Arrivato alla lettera X ci parlò di un generatore di corrente a pedali di sua concezione, ammettendo però che quando forniva dieci Ampère alla tensione di dodici Volt le gambe che azionavano la macchina dovevano accusare necessariamente un certo sforzo.
Ma la più interessante delle sue idee fu introdotta dalla frase:
Una mosca che cammina sulle sue sei zampe riproduce un passo cadenzato come quello dei militari che stanno marciando.
Per poi proseguire:
Per poterla ascoltare occorre costruire un preamplificatore con capsula microfonica a granuli di carbone, e utilizzare una cuffia elettromagnetodinamica.
A suo dire la cosa era di una banalità che rasentava l’ovvio, l’unica cura dovendo essere posta nei collegamenti elettrici che bisognava che fossero i più corti possibile.
Guido, che era ossessionato dalla visione di sua cugina mentre faceva il bagno, gli chiese se non era possibile inventare una macchina che vedesse attraverso i muri. E la sua risposta non negò la possibilità di risolvere il problema:
Ci penserò, disse fissandolo convinto. Ho già qualche idea.
Quando non ci illustrava il suo alfabeto Traetta aveva un’inesauribile miniera di aneddoti tratti dallo sterminato argomento della prima Guerra mondiale.
Certa gente si abitua alla morte come un giocatore di bridge quando gioca un tre cuori si abitua al morto. La morte, quella degli altri, è un accidente che ha poca più rilevanza del metter giù le carte di fronte al compagno, di lasciargli il gioco in mano e ritirarsi sull’Olimpo ad osservare il gioco a braccia conserte. Così era per il maresciallo Traetta, che aveva fatto la Grande Guerra sul Carso.
Fare la guerra era un’espressione impropria nel suo caso, perché dopo un breve periodo di trincea, era stato nominato responsabile di un Cimitero Militare nelle retrovie, dove aveva aspettato che la guerra finisse. Lavoro di grande impegno, sosteneva, perché la carneficina tremenda che seguiva ad ogni attacco dei nostri gli procurava continui problemi di raccolta, identificazione, suddivisione a seconda di grado e nazionalità, raccolta e classificazione dei documenti ed oggetti personali, e infine cernita, stoccaggio e messa a dimora: proprio così si esprimeva il maresciallo Traetta cinquant’anni dopo la fine della guerra parlando dei poveri resti che aveva raccolto e custodito nel suo cimitero. Come si fosse trattato di alberi o peggio ancora di spazzatura.
Dunque fare la guerra per lui aveva significato fare il mestiere di becchino-custode. Una vera fortuna che gli aveva permesso di portare a casa la pelle, benché lui magnificasse il grave rischio che si correva nell’andare a raccogliere i cadaveri dei soldati caduti sul campo o deceduti nello stesso ospedale.
‘Ma quale rischio?’, pensavamo noi ragazzi mentre lo ascoltavamo raccontare. Nessuno però si azzardava a dir nulla per non irritarlo e per non interrompere i suoi racconti fascinosi; e anche per non essere incenerito dallo sguardo e dalla parola brusca del maresciallo:
Non vi permetto di dubitare! Che ne sapete voi della guerra, smidollati nati in periodo di pace?
Sembrava fosse un’onta tutta nostra l’essere nati e vissuti in pace, una fortuna della quale eravamo evidentemente indegni. Ma Mario un giorno trovò il coraggio di interromperlo: Ma lei gioca a bridge, maresciallo?
Che c’entra?, chiese Traetta guardandolo con sospetto. Giocavo, sì. E piuttosto bene.
Dopo questa interruzione molesta, Traetta faceva un gesto con la mano come a scacciare una mosca, poi riprendeva i suoi racconti:
Che ne sapete voi della sensibilità che occorre a gestire un cimitero militare? Nulla, niente di niente! Eficaejecti!
Quest’ultima espressione era in latino maccheronico: il maresciallo Traetta considerava più raffinato insolentirci con la sua personale traduzione dell’usuale termine sfigati. Noi il latino l’avevamo appena cominciato a studiare, non capivamo e lo prendevamo per un complimento. E per un certo tempo quell’estate divenne di moda salutarci tra di noi con un:
Salve, eficaejectus.
Finché qualcuno più grande ce ne spiegò il vero significato e la moda passò in un istante.
Che ne sapete voi? Pensate che una volta mi fu annunciata la visita di Sua Maestà al mio cimitero. Dio che emozione! Che orgasmo!
Nella sua ingenuità d’altri tempi il maresciallo Traetta usava il termine nella sua antica accezione di agitazione, ansia, inquietudine; noi ci davamo di gomito nascondendo uno sghignazzo: ma chi la usava ormai più quella parola al di fuori del significato legato alla sfera sessuale? Il maresciallo Traetta!
Che emozione! Per fortuna nelle vicinanze c’erano altri due cimiteri e potei chiedere un prestito.
Che prestito?, chiesi. Di decorazioni funebri?
Ma no!
Di fiori allora.
Ma quali fiori! Di salme.
Di salme?
Ma sì, di salme. Naturalmente non in quanto cadaveri, ma per quanto erano state in vita. Di soldati semplici e di graduati ogni cimitero ne aveva in abbondanza. E anche di sottufficiali. Cominciavano a scarseggiare gli ufficiali dal capitàno in su. Ma il vero problema era nei gradi superiori. Il mio collega del cimitero più vicino per esempio aveva due tenenti-colonnello e io un buon assortimento di maggiori. Così ci mettemmo d’accordo e scambiai due maggiori per un tenente colonnello. Mi sentivo così in colpa di non avere nemmeno un tenente-colonnello che non protestai nemmeno per quello che era un cambio
ingiusto, da usura. Ma d’altronde non avrei potuto ricevere degnamente Sua Maestà senza nemmeno un tenente-colonnello
da esibire.
Non posso neanche pensare alla figuraccia che avrebbe fatto, intervenne Mario.
Proprio così. Col collega di un altro cimitero, che non aveva neanche un ufficiale superiore ma parecchi capitani e ben due aiutanti di battaglia, scambiai uno dei miei maggiori per un capitano e un’aiutante. Fu un affare, lui non si rese conto della rarità dell’aiutante di battaglia, l’unico maresciallo dalle mostrine rosse. Il capitano era un di più, ne avrei fatto anche a meno, ma non potevo svelare il gioco e dovevo tener alto il valore del mio maggiore.
Capisco. E aveva dei colonnelli e dei generali?, chiese Guido.
Eh, caro mio!, rispose Traetta facendo un gesto con la mano come se volesse mandarlo a quel paese. Un generale è merce rarissima. Si contano sulla punta delle dita di una sola mano i generali caduti sul campo: Cantore, Rossetti e pochi altri. Avevo però un colonnello, morto di infarto mentre era in mensa.
Ah, perbacco!
Ma nessuno lo sapeva, aggiunse Traetta con un sorriso birichino.
Ma mi dica maresciallo, chiese Guido. Perché tutto questo traffico di salme? Che bisogno c’era di esumarli? Non avreste potuto più semplicemente creare delle fosse finte, con una croce, un nome e un grado fittizio. Così ognuno avrebbe potuto avere il suo generale e…
Ma vuol scherzare, ‘eficaejectus’ che non è altro?, ruggì il maresciallo ergendosi sul busto come fosse sul suo cavallo. Sarebbe stato un falso in atto pubblico, non capisce? Sa che rischio sarebbe stato se ci avessero scoperto? E poi l’accusa avrebbe potuto diventare persino quella di profanazione e grave offesa…
Ma forse la grave offesa si sarebbe avuta se aveste degradato, poniamo, un maggiore a caporale, ma non se al contrario il caporale fosse stato promosso a generale…, obiettò Mario che già allora dava chiari indizi di un’inclinazione al cavillo che avrebbe fatto la sua fortuna nella futura professione da avvocato. O ancora avreste potuto mettere delle croci finte su tombe vuote. Nessuna profanazione neanche in questo caso.
Ma comunque sarebbe stato un falso. Capisce che ogni salma era registrata e bisognava falsificare i registri. E poi Sua Maestà conosceva i suoi generali ad uno ad uno, li nominava lui.
Mario tacque, sconfitto. Traetta proseguì:
Per un tre giorni fu un daffare mostruoso. Viaggi avanti e indré di carrette con bare, paramenti ed apparati funebri. Preallarme al cappellano che al momento dell’augusta visita avrebbe dovuto farsi trovare come per caso nel mezzo di una cerimonia funebre, coll’aspersorio in mano mentre benediceva la bara di un capitano. Avevo fatto bordare di margheritine e giunchiglie i vialetti del cimitero, falciare l’erba, dipingere molte croci scrostate. E all’ultimo momento la visita fu annullata e Sua Maestà non venne.
Che rabbia!, fece Mario battendosi una mano sulla coscia in un gesto di dispetto.
Eh, purtroppo!
Vi siete restituite le salme, dunque?, chiese Guido, manifestando una caratteristica tendenza all’ordine e alla precisione che lo avrebbe accompagnato tutta la vita.
No, sarebbe stato un lavoraccio. Tutti i documenti erano stati corretti e avevamo informato i parenti del trasferimento dei loro cari. Si immagina la figura del dover mandare un’altra lettera di rettifica a pochi giorni dalla prima: ‘La presente per informarLa che il suo congiunto è stato trasferito nel Cimitero di X da cui proveniva… Mentre ci scusiamo… eccetera… La preghiamo di voler prendere nota… eccetera… eccetera…’
No! Improponibile!, chiosò Mario.
E poi, cerchi di capire: i miei colleghi l’avevano interpretato come un prestito, ma per me era stata una transazione in piena regola. Non avrei mai restituito il mio aiutante di battaglia, se ne vuol rendere conto, o grandissimo ‘eficaejectus’?
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