sabato 24 luglio 2021

Ritratto ‘e femmena a’ fenesta - Giuseppe Raineri (Irneari) di Bergamo - Segnalato

 

Ritratto ‘e femmena a’ fenesta

La finestra è serrata, chiusa, nessuno in giro. Curiuso!

Come ogni mattina, mi ero alzato presto per preparare ad arte ‘na tazzulella ‘e cafè e darmi una prima poderosa strigliata, seguita dai gesti di rito che accompagnano il risveglio e subito dopo via, per chiudere in bellezza da Ciro ‘o zuccariello con l’irrinunciabile sfogliatella, rigorosamente quella riccia come vuole la tradizione.

Infine, di corsa ‘ncoppa o’ motorino verso il travaglio quotidiano sfidando traffico e i clacson, che in questa città non suonano come altrove a mo’ di rimprovero, di sollecito a togliersi di mezzo, ma sono soprattutto messaggi per richiamare l’attenzione su una presenza: ci stongo pur’io, statte accort!

Prima di ogni altra cosa era d’obbligo una capatina veloce sotto la finestra di donna Filumena.

Per arrivarci occorreva attraversare l’androne di un palazzo in via Foria, e dopo essere passato indenne dal controllo del guardiano, salire una mezza rampa di scale, l’ascensore c’era, ma per pura bellezza, e attraversare un corridoio con il soffitto a volta per ritrovarsi in un giardino interno: nu muorz’ e’ Paravis’ e di silenzio, lontano dal vociare di strada e dal traffico, un tappeto d’erba sempre ben curata con amaca, piante, fiori, sedie e tavolini dove poter sorseggiare un caffè se la giornata era buona e stare senza pensieri almeno per un po’. I muri bianchissimi aumentavano la luminosità di quel teatro a cielo aperto, dove gli attori sembravano muoversi al rallentatore e sfumare in una nebbiolina irreale, come in un sogno dove il tempo diventa pura astrazione, un mero accessorio.

Su questa oasi di pace si affacciava lei, taciturna, lenta e precisa nei pochi movimenti che si concedeva con molta parsimonia. Sembrava un ritratto a mezzo busto su un fondale scuro.

Donna Filumena con il suo fare discreto, le sue rivelazioni, aveva inconsapevolmente stimolato il nascere di nuove professioni, nate certamente non per arricchire le tasche, ma l’anema.

Il guardiano, che in origine era uno dei tanti proprietari di un appartamento nel palazzo, pensionato ma facente funzione, controllava l’ingresso. Poi d’un tratto si era votato mente e corpo alla nuova occupazione, con il consenso degli altri condomini che tolleravano pazientemente il cambio di ruolo, sperando in qualche piccolo favoritismo nelle code di attesa.

Il suo compito consisteva nel disciplinare il flusso quasi ininterrotto di persone in visita e far osservare un minimo di riservatezza nei colloqui privati, trattenendo a debita distanza i questuanti.

Col tempo, la grande affluenza di visitatori aveva imposto naturalmente che il portone sulla strada rimanesse aperto da mattina presto a tarda sera.  

Sul pianerottolo qualche sedia in plastica spartana, frutto della sopraffina arte di arrangiarsi del popolo napoletano, consentiva una sosta più confortevole agli astanti.

Nell’attesa era severamente vietato fumare.

Serbo ancora con tenerezza il ricordo di una donna riccamente impellicciata, dal portamento severo e aristocratico, coperta d’oro comme ‘na Maronna, che si misurò con questa proibizione condivisa, ma non detta: ci provò mettendosi in un angolo tra la muta disapprovazione dei presenti.

Sigaretta in una mano e accendino nell’altra.

Si guardò attorno, poi rassegnata ripose tutto in buon ordine nella borsa e bofonchiò «Nun è cosa.»

In quell’ordinatissimo caos vigeva un’altra regola non espressa, ma accettata da tutti, per cui fino ad una certa ora della mattina non veniva rispettato l’ordine di arrivo: la precedenza veniva concessa con equità a chi tenev’ pressa e doveva correre al lavoro.

Gli altri, pensionati e disoccupati o mal occupati, arrivavano comunque presto per scambiare qualche chiacchiera nell’attesa.

In cerca di notizie, mi affacciai all’ingresso del B&B, al bancone i due giovani conduttori parlottavano a bassa voce, il giardino delle meraviglie era di loro pertinenza.

«Dove sono finiti tutti quanti?»

«Come, nun ‘o sapit’?. Nisciuno vi ha ditt’ niente?»

«E che è stato?»

«Donna Filumena se ne è iuta!»

«Iuta? E addo’ se ne è iuta?»

«Se n’è iuta da ’o Padreterno. L’hanno trovata alla finestra, senza vita. Se ne è accorto uno dei suoi visitatori abituali perché incurante ad ogni richiamo, non rispondeva. Sembrava assente.»

A questo punto è doverosa una spiegazione.

Donna Filumena era la reincarnazione della Sibilla cumana con la variante antica e moderna del silenzio.

Nessuno si ricordava di averla mai sentita parlare, né il suo tono di voce.

Rispondeva con semplici cenni della mano e con il movimento della testa.

Il suo era un “sì” o un “no” ad una e una sola domanda al giorno per persona, come una medicina da assumere una sola volta prima o dopo i pasti.

Lei non si sbagliava e pochi avevano provato ad ingannarla, del resto inutilmente.

Quanto più la domanda era ben formulata, tanto più la risposta lapidaria era precisa.

L’assenza di risposta non doveva essere fraintesa come mancanza di cortesia, ma semplicemente come non possibile, perché l’interrogazione non poteva ammettere esiti diversi dai due soli consentiti. In questo era una moderna, inconsapevole antesignana del linguaggio binario.

Era nato tutto per caso, quasi per scherzo, quando un abitante del palazzo le aveva rivolto la parola per togliersi la curiosità di sapere perché mai trascorresse tanto tempo immobile alla finestra.

Lei non rispose e non lo degnò nemmeno di uno sguardo sfuggente.

«Maronna mia quanto site scuntrusa.»

Ritornò all’attacco nei giorni successivi andando nel giardino con il fermo proposito di affrontarla, per ottenere soddisfazione alla sua curiosità.

Lei non batté ciglio fino al giorno in cui il cocciuto provocatore le rivolse quasi per caso una domanda che lo riguardava personalmente, ma stavolta nel modo corretto.

Ricevette in risposta un gesto di assenso.

In ufficio si ricordò della donna alla finestra e si comportò come gli era stato laconicamente indicato.

Di fronte al dubbio, nell’incertezza di come comportarsi seguì il consiglio e si trovò bene.

Così fece anche nei giorni successivi con identico risultato.

La fama di questa donna profetica si diffuse velocemente dal palazzo al quartiere, alla città e così ebbe inizio la leggenda.

Donna Filumena o semplicemente Filù non si scomponeva, mai.

Il nome le era stato affibbiato da un cliente che così l’aveva battezzata di sua iniziativa e la cosa incontrò subito il favore di tutti.

Nessuno, stranamente, aveva mai chiesto a lei o ai parenti quale fosse il suo nome vero, per discrezione, per la pigrizia di tentare con combinazioni di nomi a cui avrebbe risposto nel solito modo fino a che qualcuno avesse azzeccato quello giusto.

Stava alla finestra che le faceva da cornice, immobile, consapevole della sua missione e quando concedeva i suoi oracoli rammentava molto la Gioconda nella posa delle braccia, nello sguardo enigmatico, meno sorridente ma ugualmente ironico; l’ironia di chi sa di sapere senza farne un inutile sfoggio. Nessuno l’aveva sentita proferire parola, dare un minimo di confidenza e su questo aspetto le ipotesi si disperdevano in mille rivoli: forse era muta dalla nascita e pareggiava quel debito che madre natura aveva contratto con lei vedendo chiaro nel futuro di tutti, forse lo era diventata per uno spavento o per scelta.

Nessuno aveva un ricordo certo di quando Filù fosse comparsa a quella finestra.

C’era chi giurava su quanto avesse di più caro che era lì già negli anni dei bombardamenti degli alleati e che la casa fosse stata risparmiata grazie a lei. Si era sempre rifiutata di muoversi dal suo posto ogni volta che risuonava l’allarme aereo, mentre tutti gli altri si precipitavano nei rifugi e per questo doveva esserci una buona ragione: lei sapeva che la casa non sarebbe stata colpita.

Il “professore” che abitava due piani sopra di lei aveva avuto il suo bel daffare per convincere quegli sprovveduti che era questione di pura probabilità, ma questo gli era valso un progressivo isolamento e una serie di battutine salaci ogni volta che andava e tornava dal suo appartamento, bollato dalla fama di eretico e miscredente.

Tra i frequentatori affezionati ed uno dei più acerrimi oppositori del “professore”, c’era addirittura un immigrato dal nord che col tempo aveva assunto aspetto e abitudini che lo rendevano indistinguibile da un partenopeo verace, se non quando apriva bocca per citare una sua massima, raccogliendo consensi più per solidarietà che per convinzione: «Chesta città nun ammett’ vie e’ miez’ o l’ami o l’odi.»

Così diceva raccogliendo il consenso tacito e cortese dei presenti ormai rassegnati, tolleranti della sua pedanteria, ma anche gradevolmente meravigliati del suo indomito desiderio di sentirsi parte della loro città, città aperta e mai esclusiva.

Su questo variegato panorama di vite e culture tanto diverse, lei vegliava silenziosa; affacciata a quella finestra dormiva con la guancia appoggiata al palmo aperto della mano, lì consumava pasti frugali, lì stava con il caldo, con il freddo, con il sole e con la pioggia, anche nelle feste comandate.

Ora invece non c’era più, gettando tutti nello sconforto.

Sapevamo tutti dov’era sepolta, nonostante le esequie fossero state celebrate in forma privatissima. Malgrado la malcelata riluttanza dei familiari, sulla lapide era stata appiccicata una fotografia scattata di soppiatto, ma così reale che sembrava parlasse.

Era proprio lei e il mito di Filumena la veggente poté continuare indisturbato.

La gente non smise di andare a trovarla al cimitero di Poggioreale per porle i propri omaggi e sottoporle quesiti e così anch’io, quando potevo andarci nel rispetto degli orari di aperura.

Circolavano voci che fossero in corso trattative più o meno ufficiali con i custodi, che per motivi di forza maggiore avrebbero potuto averla vinta sulla rigidità del regolamento.

Alla domanda precisa rivolta alla nostra Sibilla, i presenti giuravano di aver visto l’immagine di Filù chinare il capo in avanti, segno di un deciso, inequivocabile e accorato “sì”.

 

Giuseppe Raineri (Irneari) di Bergamo

 

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