sabato 24 luglio 2021

Mio nonno portava il tabarro, prosa vincitrice 2021, di Elisa Marchinetti, Ely, di Noceto (Parma)

Mio nonno portava il tabarro

A  Cesare Zavattini mio nonno Mario sarebbe piaciuto.

 Ne sono convinta. Per l’incarnazione di quel mondo piccolo, padano, rurale e laborioso e per i valori forti di una terra altrettanto forte che in lui si rispecchiavano: onestà, schiettezza e determinazione.

Per quel velo di malinconia, a metà tra rassegnata accettazione e disattese speranze, che traspariva dai  suoi occhi  quando non scrutavano,  ma guardavano languidi  il giorno nascere e morire, nella  perenne  ed ineludibile ciclicità degli eventi.

Per il senso della famiglia, quel legame di vita e sacrifici  che ancora l’ esistenza  dell’uomo alla  continua, costante e generosa  offerta di sé e di un  amore sconfinato a difesa e protezione di un ideale che si fa concreta entità nei figli, sangue del proprio sangue .

Per il suo essere “uomo di fiume”, attratto dal placido scorrere delle acque del Taro e del Po  e dalle meraviglie che vi poteva trovare, lui  capace di dare tempo al tempo  nella paziente, serena e fiduciosa  attesa che un pesce abboccasse al suo amo. E se il bottino era magro, mai una lamentela o un’imprecazione, nella fatalista accettazione della vita e delle sue  innumerevoli sfumature.

Per il suo essere “uomo del freddo”. Il regista l’avrebbe sicuramente ripreso nelle sere invernali, in quelle impregnate di nebbia fitta e densa dove solo l’immaginazione ed il coraggio sono di sostegno nel cammino, mentre procedeva  a fatica, data la mole, in sella alla sua bicicletta  lungo le strade che conosceva da una vita e  si spostava verso  il ciglio  al passaggio di qualche auto. Una decisa sterzata e riprendeva il controllo del mezzo, con  le gambe aperte  a dare un possibile equilibrio, mentre i lembi svolazzanti del tabarro e dei pantaloni  di fustagno  smuovevano l’aria.

Mio nonno portava il tabarro ed anche questo aspetto lo rendeva figlio della sua terra e del suo tempo. Ed anche per quell’indumento sarebbe piaciuto al regista, ne sono altrettanto certa. Un mantello nero di tessuto pesante  e ruvido con il collo in simil pelliccia, una cappa lunga ed enorme  che  lo avvolgeva  in un tutt’uno,  ammantandolo di un’aura di mistero. Agli occhi miei, soprattutto.

Un che di arcano aggravato da una specie di coppola  e dalla pipa che fumava sempre dopo pranzo e che amava tenere in bocca, anche se spenta.

“ Mi sembra il nonno “ sussurrai a mio padre una sera,  indicandogli l’immagine  di un  brigante di fine Ottocento nel mio libro di storia. Solo l’aspetto esteriore poteva  indurre a qualche somiglianza;  in realtà, un animo  gentile  e semplice,  dietro il cipiglio da burbero e la seriosità dei modi. Ed i tanti non che lo contraddistinguevano.

Perché mio nonno Mario non parlava troppo, anzi dosava le parole che usava,  soppesandone l’intenzione ed il tono, mentre gli occhi, piccole fessure della stessa freddezza e consistenza  del ghiaccio, imponevano e  richiedevano  rispetto.  Ma quelle poche  erano di sostanza e di saggezza.

Non raccontava storie, perché già la sua, quella della sua vita tribolata, bastava a riempire un libro. Di aneddoti legati alla sua infanzia di miseria e fatica, dell’esperienza di guerra in Albania, gettato allo sbaraglio insieme ai suoi commilitoni  a combattere in una terra ostile  contro nemici di pari dignità e, una volta tornato, del duro lavoro nei campi.

 

 

 

 

E non sorrideva nemmeno tanto perché le vicende e le esperienze dolorose vissute, anche se ricoperte dalla polvere del tempo,  tornavano a bussare alla sua memoria  e a togliergli la serenità,  ricordandogli l’estrema fragilità  e precarietà della condizione umana.

Come  le disgrazie che  aveva  conosciuto: un figlio nato tetraplegico e la morte in giovane età della figlia con già una prole numerosa.

La prima, più che una disgrazia, una vergogna ed una condanna all’epoca, alla fine  degli anni ’30, quando un figlio malsano e “sfortunato”, additato  per ignoranza,  andava nascosto agli occhi e alle maldicenze altrui; quando le poche, anzi pochissime finanze non permettevano le cure adeguate e  l’inclusività era un concetto ancora molto al di là da  venire.

Per quel figlio aveva ingoiato più di un rospo, lottato a testa china e cuore gonfio ed insegnato ai più che l’amore, quello puro ed incondizionato, non conosce disuguaglianze ed ostacoli. La seconda circostanza negativa, quella per cui sembrava che il destino si fosse accanito di nuovo sulla sua famiglia, l’aveva dapprima sprofondato nello sgomento e nello sconforto, poi  indirizzato verso l’unica, vera strada da seguire: il bene.

E fu ciò che fece quando, d’accordo con la moglie, anche se ormai entrambi un po’ avanti con gli anni, decise di prendersi cura dell’ultima nata, un fagotto di pochi mesi destinato all’orfanotrofio, come gli altri tre fratelli.

Un’assunzione di responsabilità, un impegno  gravoso, ma forte e potente come il seme della vita della figlia  che in quella nipotina continuava.

Ma mio nonno non era solo semplicità, concretezza e generosità. Era anche cocciutaggine alla stato puro.  

Non si curava  di sé, purtroppo, disdegnando i medici ed i loro suggerimenti e sventagliando loro, come alla moglie, grandi orecchie da mercante quando si trattava di salute. Di contenere il forte  appetito ed il fumo non se ne parlava proprio. Una fame “lupina”, quasi atavica, il  retaggio, forse,  di  quella  che  aveva patito a lungo. Così che  nel caffelatte affogava  più di una micca di pane, in  molto burro  varie uova, nel brodo un bicchiere di vino rosso e negli intingoli, se molto unti e bisunti ancora meglio, se stesso. E le sue  porzioni, raccomandava alla moglie, dovevano sempre tracimare dal piatto. In nome, certamente, di quell’abbondanza agognata per anni.

Poi con calma e cura  spazzolava piatti e posate fino a farli brillare, mentre  mia nonna, a testa leggermente china ed in ossequioso silenzio,  osservava  da sotto le lunghe ciglia quel rito quotidiano  compiersi. Ed aspettava,  rassegnata, il segnale di fine pasto, quel “rutto”  liberatorio che mio nonno  esalava portandosi una mano alla bocca per tamponare, in parte e con scarso successo, la sonora emissione e l’altra sulla  pancia piena, dove i bottoni della camicia, già in tensione, lasciavano intravedere asole assai slabbrate  e piccoli lembi di pelle.

“Ma Mario, insomma!”, tuonava immancabilmente mia nonna quando il fragore andava oltre il consentito.

“Tutta sanità”, replicava lui tranquillo e soddisfatto,  mentre  mi faceva l’occhiolino ed allargava i palmi delle mani come a giustificarsi. Forse uno dei rari momenti in cui un sorriso si disegnava sul suo volto.

Allora io mi facevo piccola, piccola, abbassavo la testa verso il piatto e tentavo con la mano di trattenere quella risata che, ingabbiata in gola per pudore, cercava finalmente un degno sfogo. Poi l’incrocio complice di sguardi fra noi tre era fatale perché io mi sciogliessi in una grassa, sonora espressione d’ilarità.

Dal fumo aveva una vera e propria dipendenza; che si trattasse di  sigarette, sigari e tabacco per la pipa non faceva alcuna differenza. Le tasche dei pantaloni, delle camicie e del panciotto  traboccavano, infatti,  di mozziconi di sigarette e  filamenti di tabacco sminuzzati.

 

 

 

 

 E frammenti si trovavano   disseminati un po’ ovunque, in ogni stanza,  tanto che  la casa  ormai  trasudava di  un profumo dolciastro e pungente; a volte, specialmente nelle giornate  gravate da una stringente  cappa d’umidità, addirittura  nauseante.

Un aroma che  era diventato elemento imprescindibile della sua personalità, una scia odorosa  che  lo preannunciava a distanza o testimoniava un suo precedente  passaggio. Un vizio che,come spesso ripeteva, l’accompagnava sin da ragazzo, quando con gli amici “poveri in canna” come lui,

avvolgeva gli scarti delle foglie di tabacco che trovava nei campi in sottili veline,  per poi fumarle  di nascosto a pieni polmoni e con il gusto del proibito tra le narici. Per poi ritrovarsi piegato in due a tossicchiare e a sputacchiare l’imprudenza, mentre gli occhi lacrimavano l’inesperienza.

I segnali dell’accanito fumatore mio nonno  li aveva tutti e li portava con la fierezza del tempo vissuto e con una certa noncuranza: da quella macchia giallastra tendente al marrone che gli ricopriva i denti e le parti interne delle labbra, all’ispessimento della cute  dell’indice e del  medio della mano destra, nonchè  ai  baffi fitti ed ispidi spruzzati delle varie sfumature di ocra.

Ed a quei baffi pungenti  che  mi sfioravano la guancia ancora oggi torno con la memoria, a quei dolci rimandi  di rari momenti d’intimità con lui. Capitava a trovare mio padre nella sua officina nel primo pomeriggio e, seduto su una panca,  osservava per ore e in silenzio, ma  con gli occhi che risplendevano di sano orgoglio paterno e di rivalsa nei confronti di una vita che non era stata certo prodiga con lui,  l’attività del figlio. Poi, sul calar della sera, dopo un lieve commiato espresso con una mano a sferzare l’aria, inforcava la bicicletta verso casa.

Ed io non aspettavo altro  che quel momento.

“Nonno, mi porti con te?” gli chiedevo, strattonandogli i pantaloni.

Forse se lo aspettava. Anzi, senza dubbio. Un cenno d’assenso, poi  allungava le sue braccia poderose, mi sollevava da terra con facilità e mi posizionava sulla canna della bicicletta. La ricerca dell’equilibrio richiedeva qualche secondo d’assestamento fra dondolii e sterzate della ruota anteriore.

“Metti le mani sul manubrio, qui”, suggeriva  le prime volte mostrandomi la giusta posizione e sovrastandomi con il suo capo. Poi con una leggera spinta s’immetteva in strada.

Una zaffata di tabacco m’investiva stordendomi un poco, mentre i suoi baffetti mi solleticavano il volto facendomi sorridere. Lungo il percorso me ne stavo incuneata sotto il suo torace a godere di   quel guscio protettivo, in quel porto sicuro.

Ne sono certa. Zavattini ci avrebbe ripreso al tramonto, d’Estate, quando il giorno, ormai stanco  cede il passo alle sera che un po’ sbarazzina  avanza, sgomitando fra le luci smerigliate che s’attardano a morire.  E si sarebbe soffermato sui nostri visi per cogliere quell’intesa fra di noi, silenziosa, ma tenace e tutta  la  carica affettiva che  nascondeva.

 

Elisa Marchinetti di Noceto (Parma)

Pseudonimo: Ely

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