I MIEI
MONDIALI DEL 1982
La prima volta che sentii parlare degli imminenti “Mundial” fu alla fine della terza media...
Il prologo
A quattordici anni non avevo una
precisa cognizione del mio posizionamento nella realtà che mi circondava, di
ciò che era il passato, di quello che accadeva, né tanto meno del futuro: il
tempo pareva dilatato, quasi immobile e la vita reale lì intorno era indecifrabile.
Mi sarei poi accorto, passati i diciotto, che il tempo sarebbe iniziato a
correre inesorabilmente.
Tutto si sarebbe palesato sempre più
lucidamente, come quella grande fregatura che è in realtà la vita.
Quell'assurda kermesse a cui ero stato iscritto a mia insaputa, senza essere stato
fornito delle istruzioni, né di un regolamento a cui attenermi per affrontarla.
Soprattutto, per arrivare poi a scoprire tragicamente, che non c'era una via di
uscita, una sorta di “andate in prigione senza passare dal via”, se non la
soluzione più estrema e definitiva.
La scoperta dei mondiali avvenne
quando al mio compagno, un certo Concetto Indelicato, venne concesso
magnanimamente il privilegio, in sede di esame, di poter disquisire, con il
personale docente esaminante, degli accoppiamenti dei gironi preliminari che
avrebbero poi designato le finaliste del Mondiale.
Lo ricordo tutto sommato come un bravo
ragazzo, ma assolutamente, completamente alieno alle costrizioni scolastiche.
Oramai aveva sedici anni e rispetto a noi era un adulto con tanto di barba.
Potrei descriverlo fisicamente come un Abbattantuono delle prime ore, solo più
basso. Indossava sempre un paio di stivaletti a punta, scamosciati, che non
levava mai, neanche quando andammo in gita: pare che anche in quelle tre notti
passate a Venezia non se ne separò mai. Si spostava su di un rombante Fifty
nero, con grasso ovunque. Lo si distingueva per via della sella e delle copri
manopole di pelle di coniglio, (potremmo dire anche lapin per essere più à la
page, ma nel suo caso stonerebbe...), conciata personalmente da lui. Ai tempi
ne eravamo ammirati, oggi, se ci ripenso, la trovo una cosa raccapricciante.
All'intervallo, in maniera bonaria, mi tiranneggiava per avere qualcuno dei
cracker che mi portavo da casa, nel dubbio non osai mai andare oltre alla prima
richiesta benevola.
I professori comunque apprezzarono la
sua esposizione. Fummo tutti promossi, lui compreso: ci preparammo quindi per
andare al mare. Al ritorno la vita sarebbe cambiata per tutti, chi alle
superiori, a Omegna o a Verbania e io mi ritrovai alla Ragioneria; chi
direttamente a lavorare (e noi stupidamente li invidiavamo), ai tempi era molto
facile trovare un'occupazione. Concetto non l'ho più visto, pare che sia
tornato in Sicilia, suo paese d'origine, me lo riferì suo fratello un certo
Santo (suo nome di battesimo), la negazione della locuzione latina “Nomen Omen”
Loro erano e sono ancora bellissimi.
Non li puoi dimenticare nella classica
foto, accasciati e in piedi. La maglia è azzurra, come il cielo e chi se ne
frega dell’eredità dei Savoia. I pantaloncini, che in realtà e più
prosaicamente non erano che dei grandi mutandoni, sono bianchi, come le nuvole
nel cielo azzurro delle casacche, sul cuore lo scudetto tricolore dell'Italia. Lui
no, Dino Zoff, il più vecchio e sempre di poche parole, il nostro portiere, la
nostra sicurezza, quella più estrema, indossa la seriosa maglia grigia, l'unica
dalle maniche lunghe, i pantaloncini invece sono neri. Per tutti i calzettoni
azzurri.
Erano, sono, e rimarranno i nostri
eroi. Già così inevitabilmente uomini, nonostante i vent'anni, escluso Dino
naturalmente, che ne aveva già quaranta. E la cosa appare ancora più evidente
se si prova a sovrapporre le foto dell'epoca con quelle dei giocatori attuali.
Di calcio non ho mai capito nulla,
però sono essenzialmente un gran tifoso, della Nazionale ma soprattutto della
mia squadra del cuore: il Cagliari. Mi distraggo spesso nel guardare le
partite, non sono mai così attento come si dovrebbe, confondo i giocatori e mi
perdo le azioni. Però non posso guardare i calci di rigore perché soffrirei
troppo. Nelle fasi cruciali e nei minuti finali mi sudano le mani e mi viene la
tachicardia, non parlo e divento abulico. Ma è una droga di cui non posso fare
a meno. Mi piace guardarlo in televisione, ma ancora di più, ascoltarlo alla
radio. “Tutto il calcio minuto per minuto” rimane per me la migliore e più
appassionante trasmissione radiofonica mai realizzata, che ancora coinvolge,
nonostante gli anni passati e lo spezzatino di partite, divise su più orari e
giorni a cui oggi dobbiamo assistere inermi.
Tanto meno lo so giocare il calcio:
che poi noi si diceva il pallone e basta, calcio è già fin troppo forbito e
serioso.
In cortile finivo sempre per fare il
portiere, nei migliori dei casi era volante, il che mi consolava evocandomi i
poteri di un supereroe, oppure se proprio girava male, mi calavo, forzatamente,
nelle vesti dell'arbitro. Quando i due capitani designati per acclamazione,
sceglievano i giocatori per formare le squadre, rimanevo inesorabilmente sempre
l'ultimo, oppure venivo scambiato con altri per fare massa, andando a
pareggiare la bravura di qualche fuori classe dell'altra squadra. Non potendo
poi portare in dote quei bei palloni di cuoio tipo il “Tango”, ma solo dei
“Supertele” coloratissimi, famosi per la loro traiettoria farfallina,
tristemente finì per dedicarmi alla bicicletta.
Ma il calcio rimane un gioco molto
coinvolgente, facilissimo da comprendere e appassionante alla prima occhiata,
che va a stuzzicare i nostri istinti più atavici, il sesso e la combattività.
Non per niente i termini per commentarlo finiscono sempre ad andare a parare
lì: penetrare, infilare, bucare, eliminare, fare male, aggredire, difendere,
combattere, aggredire, schiacciare l'avversario, ecc. ecc.
E poi è un gioco semplice, basta un
prato, un cortile o un pezzo di strada; due giacche buttate a terra per segnare
la porta e un qualcosa di sferico, meglio se un pallone, ma va bene anche un
fagotto di stracci, della carta arrotolata tenuta insieme con lo scotch o una
lattina abbandonata, raccattata chissà dove e poi schiacciata ad arte.
Il calcio è una metafora della vita,
anche più forte della vita stessa, e così a volte sopravvive solo la metafora.
Il calcio è un'idea, un sogno, a volte una tragedia per i suoi tifosi, un mezzo
per redimersi o per venire esiliati. È una liturgia fatta di appuntamenti
costanti e inflessibili, di un calendario perpetuo. C'è il pre-partita, la
partita e il post-partita, il giorno delle polemiche, il momento della moviola
e i vari sospetti di complottismo.
E quando tutto sembra finalmente
terminato e arriva l'estate, inizia il sogno più grande: il calciomercato! È
per me il momento più bello dell'anno, quello che preferisco. Si viaggia sulle
ali della fantasia. Si promettono sogni impossibili, acquisti incredibili,
bomber da trenta gol per campionato, difensori granatici, e centrocampisti
dotati di un’intelligenza da strateghi napoleonici. Poi si ritorna a terra, è
arrivato settembre. I migliori giocatori sono stati venduti, gli acquisti più
roboanti si rivelano dei bidoni, e quello che si prospetta è il solito
campionato di frustrazione e sofferenza.
L'ouverture
Noi partimmo tutti schiacciati nella
nostra Alfasud blu procida. La nostra era la 5M con cinque marce appunto, che
ai tempi era una macchina grintosa, peccato che si dissolse nella ruggine come
del resto tutte le Alfasud assemblate a Pomigliano d'Arco, dove, dicono i
detrattori, gli operai disertassero le catene di montaggio per dedicarsi ad
altro, per esempio quando era di stagione, alla campagna dei pomodori.
Si stava stretti lì dentro, il
libretto di circolazione diceva che c'era posto per cinque, ma specialmente
dietro, in tre, non si stava benissimo. Non c'era l'aria condizionata e come
radio si portava quella a transistor di casa, che emetteva più che altro
distorti suoni gracchianti. Mio padre usava la cartina solo quando era troppo
tardi. Per questo non era raro che ci perdessimo e che quindi fossimo costretti
a inversioni a U o a improbabili tratti in retromarcia in autostrada, per
riagganciare lo svincolo fallito. In un modo o nell'altro a Genova ci arrivammo
e ci imbarcammo per la Sardegna. Allora il porto non era quella meraviglia di
adesso, ma uno scalo maleodorante separato dalla città da alte mura. Non so
perché ma noi il biglietto non ce l'avevamo mai, così finivamo per sfinirci in
enormi code, sperando, a volte supplicando, che ci facessero salire su quelle
enormi navi bianche e blu della Tirrenia.
Scendemmo a Olbia e costeggiammo la
costa, prima di inerpicarci sul Gennargentu per raggiungere Tonara, il paese
originario di mio padre. Papà ebbe l'intuizione di fermarsi in quel paese che
si allarga come un liquido sversato sul tavolo, nella pianura alluvionale
creata dal Cedrino: Orosei. Parlando in sardo, mio padre ci mise poco a trovare
una sistemazione, proprio entrando in paese.
Si stava in una casa affittata dalla
gente del posto, come usava ai tempi. Io e mio padre dormivamo nella
cucina/soggiorno in una sorta di dependance della casa principale, mia mamma e
le mie sorelle in una camera della casa dei proprietari, nella quale, al piano
terra, avevano anche una sorta di emporio. Ci vendevano di tutto, senza che
avessero frigo o metodi ortodossi di conservazione dei cibi. Ci potevi trovare
anche le uova delle loro galline, che allevavano in una sorta di campo di
lavoro per pennuti, allestito nel retro della casa: a volte l'odore era
insopportabile. Di notte, nel buio, sui muri caldi apparivano numerosi i gechi,
fosforescenti come la madonnina che troneggiava sul comodino di mia nonna. Non
li avevo mai visti e li trovavo raccapriccianti, e siccome si dormiva con la
porta aperta per il caldo, avevo paura che nella notte qualcuno di loro si
potesse intrufolare nel mio letto.
Orosei ai tempi era un paese agricolo,
che ancora non aveva capito l'importanza della sua costa; infatti, la Marina
distava tre o quattro chilometri da percorrere in un lungo rettilineo diviso in
due tratte, che solitario attraversava i campi per raggiungere finalmente una
sconfinata spiaggia sabbiosa. Ma alla spiaggia, però, ci potevi arrivare solo
attraversando una sorta di terrapieno a più gobbe, che permetteva di ovviare a
una sorta di stagno che separava il mare dalla Marina di Orosei. Passavamo le
ore lì, sdraiati sotto il sole nell'aspettare che scadesse il termine
inflessibile e perentorio delle tre ore, fissato da quel carabiniere, di nome e
di fatto, che all'epoca era mio padre. Dopo il pranzo scattava il countdown, ma
lo scorrere del tempo era lentissimo, così mi perdevo nell'osservare, che è ciò
che ancora adesso so fare meglio. Tutt'intorno a noi una galassia eterogenea:
mucche allo stato brado; famiglie con le donne in costume tipico; sparuti
gruppi di avventurieri tedeschi; bellimbusti dall'età indefinita che cercavano
di destreggiarsi con palloni che il più delle volte il vento si portava via
lontano, fin dove l'orizzonte del mare diventava di un blu notte; ragazzini
neri come il carbone; signorinelle nelle loro prime estati di pubertà,
irrequiete come una bottiglia di gazzosa appena stappata; emuli della
Paris-Dakar che percorrevano in velocità la battigia con vecchie Toyota o con
moto chiassose e fumanti; indigenti ragazzini, magri come esuli di campi di
prigionia, che dai paesi limitrofi, si stabilivano lì in baracche che loro
stessi erigevano ai primi caldi; a volte un cavallo con il suo cavaliere in
gambali, più spesso qualche asino con un uomo in berritta; tanti sardi che
tornavano dal continente, dalla Francia, dal Belgio o dalla Germania; un nostro
amico che faceva il sub, che amava il reggae (all'epoca non sapevo che cosa
fosse) e che diceva che come radio-amatore parlasse con il mondo intero, anche
con il Brasile; degli altri ragazzi che avevano un gatto che si chiamava Cosmonauta;
un cane spelacchiato, in lontananza qualche gabbiano che sgranchiva le zampe,
passeggiando sulla sabbia; pensionati che coi nipotini giocavano alle bocce di
plastica; mia mamma seduta sulla sua sedia di plastica sotto l'ombrellone,
assisa come toro seduto, guai a farsi raggiungere dal sole, l'avrebbe
ustionata; noi tre fratellini nati in fila, frugali e disciplinati come solo
allora si era da bambini; mio padre già abbronzato e nerboruto, matto e
testardo, come solo un sardo può essere... c'era davvero spazio per tutti e
comunque la spiaggia appariva lo stesso come vuota e desolata, talmente era
sconfinata. Con lo sguardo, in quei giorni di vento che rendeva terso
l'orizzonte, potevi abbracciare l'intero Golfo di Orosei.
29 giugno, l'Argentina
Fino a luglio inoltrato il mare
rimaneva freddo, e non erano rare le giornate che alternavano piogge e
schiarite. Spesso si alzava il vento, che diventava talmente forte, dal far
incazzare pure il mare. Nel golfo si riversavano onde altissime che noi aspettavamo
audacemente a riva cercando di saltarle. Quando inevitabilmente si rivelavano
più alte di noi e a nulla serviva il nostro disperato colpo di reni, allora ti
soverchiavano. Ti ritrovavano dentro a una centrifuga, non sapendo quando
avresti finito di girare e se il fiato immagazzinato ti sarebbe bastato. Poi,
passati interminabili secondi ti ritrovavi scaravento a riva, come un naufrago
su di un atollo sconosciuto. L'acqua salatissima era entrata dovunque, dal naso
e dalla bocca. La gola pizzicava e gli occhi erano iniettati di sangue, offesi
dal sale e soprattutto dalla sabbia, che te la ritrovavi dappertutto, nei
capelli e in maggior parte nel costume, tanto che quando mi rialzavo, mi
sembrava orgogliosamente di essere un superdotato.
Il mare al largo faceva ordine e
pulizia e a forza cacciava di tutto dentro il golfo, come se volesse
nasconderlo sotto il tappetto di casa. Ti ritrovavi così a turbinare nelle onde
insieme a ogni sorta di residuo, da quelli naturali, ai rifiuti, come i
numerosi sacchetti di plastica. Quando ti sfioravano restavi col fiato sospeso,
terrorizzato dal pensiero che potesse essere il tocco fatale di una di quelle
gigantesche meduse rosate, che erano sempre numerose.
Era una di queste giornate, quando
quel pomeriggio l'Italia giocò contro l'Argentina. Non mi ero interessato di
nulla, quindi non sapevo come il cammino della nostra Nazionale l'avesse
portata sino a quel punto. Tanto meno ero a conoscenza delle polemiche contro
gli azzurri, del fatto che il nostro Mister Enzo Bearzot fosse stato
addirittura accostato a una scimmia, o di quella boutade della stampa
scandalistica che insinuava di una storia d'amore tra Rossi e Cabrini, e che
poi tutto questo fosse sfociato nel famoso silenzio stampa della nostra
squadra. In effetti si veniva da un momento difficile, di cui ai tempi non ero
informato. C'era stato lo scandalo del calcio-scommesse, e la squalifica di
Rossi, comunque selezionato da Bearzot nonostante il lungo tempo di inattività.
Sapevo sì, che si giovava in Spagna, che ai tempi era il paese della cuccagna:
chi poteva andava lì in vacanza, raccontando meraviglie e che tutto costasse
niente, tanto era forte la nostra Lira contro la bistrattata Peseta. Così per
analogia, Rossi, il riabilitato, diventò Pablito, sia per la nazione dove si
disputava il Mondiale, sia per fare il verso ai conclamati campioni
sudamericani. La radio a transistor era passata dal ruolo temporaneo di
autoradio a quello di unico mezzo di informazione nel nostro appartamento;
pertanto, non veniva spostata per essere portata in spiaggia. Nelle folate di
vento che si sollevano improvvise, ci arrivavano sferzate di sabbia, ma anche a
tratti la voce di un commentatore calcistico, che giungeva fino a noi dalla
radio dell'ombrellone vicino. Sembrava, ma pareva incredibile, che l'Italia
stesse vincendo contro l'Argentina. Eravamo tutti euforici, noi piccoletti e
quei pochi che erano resistiti sulla spiaggia.
Poi, drammaticamente la radio smise di
ricevere la frequenza: piombammo nell'inconsapevolezza di cosa sarebbe stato,
né fummo informati che l'Argentina, dopo i nostri due, riuscì a fare a sua
volta un gol. Passarono minuti interminabili, sino a quando, strombazzanti e
chiassose, giunsero da Orosei, sino alla Marina, caroselli di numerose auto,
soprattutto 127 che andavano per la maggiore, completamente avvolte di carta
igienica, con qualche bandiera tricolore svolazzante. Presto, nel piazzale
della marina, abbandonate le auto dove capitava, si creò un piccolo capannello
di folla, che si dissolse nei due bar che ai tempi fungevano da “Finis Terrae”,
dopo c’era solo il Mediterraneo. La festa, che penso terminò a notte inoltrata,
ebbe inizio: fiumi di bionda Ichnusa si riversarono tra le sedie e i tavoli di
plastica dei due chioschi; i cinquanta lire che non dovevano mai mancare,
alimentarono sino allo sfinimento i due juke-box, che diffusero nell'aria sino
all'oblio, le hit di quell'estate.
Avevamo vinto contro l'Argentina!
2 luglio, il Brasile
E tutto cambiò. La gente tornò a riavvicinarsi
con entusiasmo alla nazionale, e da lì il passo seguente: ora tutti si
sentivano orgogliosi di riscoprirsi italiani. Si era incredibilmente fieri di
sventolare il tricolore, senza per questo essere tacciati come reazionari,
fascisti o nostalgici risorgimentali. Dimenticati il terrorismo, i conflitti
politici e di classe, che avevano scavato dei solchi tra la gente, e invece che
ricomporsi, il paese dopo la guerra, se possibile, si era smembrato
ulteriormente. Anche mio padre venne preso dalla smania, e iniziò ad
interessarsi dei nostri possibili avversari, degli eventuali incroci tra le
squadre che si sarebbero materializzate nei prossimi possibili scontri per poi
infine perdersi in calcoli matematici complessi, nella speranza di capire, se
mai fosse poi stato possibile, arrivare in finale.
Ma alla fine si tornava sempre a punto
e a capo. Com'era possibile scavalcare quell'ostacolo insormontabile? Era uno
scherzo del destino, un vezzo beffardo del fato, un incubo raccapricciante. Il
nostro prossimo avversario era il Brasile. Forse la nazionale carioca più forte
di tutti i tempi, anche di quella di Pelé. Il Brasile era sinonimo oltre che di
Samba, carnevale, e certo fantastici fondoschiena femminili roteati al suono
della musica, di calcio. Il Brasile era il pallone, la fantasia, l'estro. Era
ed è la gioia nel giocare al calcio. Se pensavi al Brasile immaginavi schiere
di campioni votati al calcio offensivo, cross, goleade, giocate da fuoriclasse,
altro che il nostro difensivo catenaccio. Ricordo che infatti un mio compagno
di classe era talmente bravo a giocare a pallone, che ormai veniva chiamato
solo Brazil, dimenticando il suo nome di battesimo.
Sì, certo le prospettive erano
proibitive, ma la febbre nell'attesa dell'evento cresceva. Non avendo noi la
televisione nella nostra modesta abitazione, mio padre, in sortite serali dopo
cena, si intrufolava nella hall del “Su Barchile”, ai tempi l'unico albergo di
Orosei. Nella sua pragmatica strategia, prima fece capolino dai finestroni che
davano sulla via, come un gatto che appare sul davanzale scacciato dai padroni.
Poi infilando un piede alla volta, a mo’ di un cane dall'occhio umido, che una
zampina alla volta guadagna spazio vitale alla volta del salotto, riuscì ad
accaparrarsi una poltrona in posizione strategica davanti alla televisione. Lì
tra una birretta e qualche chiacchiera in limba con il titolare, poté godersi
qualche spezzone registrato delle nostre partite, rari stralci di immagini
delle imprese dei nostri avversari, ma soprattutto si alimentò delle analisi
tecniche, farneticazioni, polemiche ecc. ecc. dei tanti giornalisti sportivi e
opinionisti improvvisati, che da lì in poi iniziarono a essere l'unica cosa che
si potrà poi vedere in chiaro sulle televisioni generaliste, in merito all'argomento
calcio.
E infatti ormai il pallone è solo
chiacchiere, parole sgrammaticate che incensano e poi abbattono, esaltano o
distruggono, dirigenti, squadre, allenatori e giocatori, da una domenica
all'altra, salvo ritrattare tutto e cambiare opinione in caso di un risultato
diverso nella prossima partita.
Ma venne il giorno, allo stadio di
Sarrià. Quello che poi per la nazionale verde oro divenne la Tragedia del
Sarrià. Il mondiale era affare loro, era scritto. Noi eravamo solo un
fastidioso, un trascurabile ostacolo, da superare velocemente a piè pari, per
correre in finale: ma così non andò.
I brasiliani schieravano campioni come
Cerezo, Junior, Socrates, Zico, Falcao... tutti fuoriclasse che poi imparammo a
conoscere nel nostro campionato. Che potevamo contro di loro? Le radioline ora
erano tantissime in spiaggia. Segnò Rossi per primo, e poi in totale ne fece
addirittura tre e divenne definitamente Pablito. Dopo la paura dall'essere
continuamente raggiunti dai nostri avversari, i soliti bagnanti, spalmati sugli
asciugamani sotto un sole che stava finalmente diventando quello sardo e
cocente che ci aspettavamo, si riunirono in un ideale abbraccio di euforia.
Era accaduto l'impossibile. Presto
giunsero fino a lì i conosciuti caroselli di auto avvolte come sempre nella
carta igienica. Le bandiere tricolori era diventate tantissime, la gente
iniziava a crederci.
Facemmo fatica a tornare a casa. Una
volta percorsi i lunghi rettilinei dalla Marina, passata la caserma della
Polizia Stradale e arrivati all'incrocio che immette nella statale, nei pressi
dell'altra caserma, quella dei Carabinieri, trovammo un caos indescrivibile.
Ovunque uomini euforici, già visibilmente alticci, in giro per la strada con
bicchieri e bottiglie in mano; folle di motorini, che ai tempi erano simili a
quelli che avevamo al nord, ma solo più bassi con delle ruote piccole piccole;
anziani nei loro vestiti di fustagno con le berritte in testa; donne con le
loro gonne lunghe a pieghe; ragazze e ragazzi; bambini con i piedi neri dalla
pelle scura come il carbone... Stavamo tutti impazzendo dalla gioia. Trafelati
riuscimmo a fare breccia in quella follia collettiva, che aveva invaso quel
paese apparentemente immobile, che ai tempi era più agricolo che turistico, e
guadagnammo casa, dove mi aspettavano le galline e più tardi i gechi.
8 luglio, la Polonia
Quel pomeriggio c'era la Polonia: e
chi l'aveva mai sentita nominare quella squadra? Nonostante l'avessimo già
incontrata nei preliminari, io neanche mi ero mai posto il problema che la Polonia
potesse avere una Nazionale.
Si prospettava come tutto molto
facile, solo una formalità, una pratica da sbrigare molto velocemente. In
effetti, chi poteva fermarci se avevamo già schiantato in serie, Argentina e
Brasile? E poi a loro mancava pure un certo Boniek, un biondino che pareva
essere il migliore, uno che poi avremmo tutti conosciuto molto meglio: il Bello
Di Notte, come lo soprannominò l'Avvocato per le sue imprese nelle coppe.
Ma come si sa, specialmente nel
calcio, ciò che è più facile diventata pericoloso e a volte ci si può anche complicare
la vita da soli. Gli almanacchi sono pieni di aneddoti dove la squadra meno
titolata, l'outsider uscita da chissà dove, fa lo sgambetto alla squadra più
blasonata. In effetti una certa apprensione in spiaggia c'era: tutti cercavano
di tradire il nervosismo, si era tutti terrorizzatati che dopo le imprese che
avevamo compiuto si potesse inciampare nell'ostacolo più facile. Allora per
scaramanzia si dava più valore di quello che in effetti aveva a quella
Nazionale del nord Europa. Si voleva imbrogliare il destino che chissà perché
avrebbe potuto giocarci un brutto scherzo, e far sì che potesse verificarsi il
più terribile di tutti gli incubi: gabbati in vista della terra promessa da una
squadretta... proprio noi, l'Italia!
Ma in realtà niente avrebbe potuto
fermare la squadra che ora era diventata l'Italia. Infatti, sbrigammo molto
bene il compitino, quasi un allenamento: Rossi ne fece altre due, andavamo in
finale! Peccato per Antognoni che si infortunò e si perse l’occasione unica di
disputare la finale.
11 luglio, la Finale, la Germania
Ovest
Il sabato e la domenica lo passavamo a
Tonara, dove ci aspettavano la vecchia nonna e lo zio. Nonostante in linea
d'aria la distanza fosse irrisoria, in realtà quello che compivano per
raggiungere quel paese di montagna sul Gennargentu, era un'impresa epica. Il
viaggio era lunghissimo e noioso. All'inizio si viaggiava abbastanza
velocemente nei rettilinei costeggiati dagli oleandri, ma presto ci si
inerpicava sui fianchi dell'Ortobene per raggiungere Nùoro. Gli asfalti delle
strade erano come lava e l'orizzonte traballava per l'aria rovente. Intorno
qualche quercia da sughero e i tantissimi fichi d'india. Si pregava di non
trovare sulla strada qualche camion o peggio un trattore, altrimenti sarebbe
stato impossibile sorpassarli. Poi un tratto di superstrada, di nuovo i tornanti
per raggiungere il lago artificiale che ha colmato la valle e di nuovo
interminabili tornanti, mentre intorno la vegetazione si faceva sempre più
fitta man mano che si saliva. Finalmente, dopo il caldo che ti appiccicava ai
sedili, il mal d'auto che ti rendeva debole e indolente, arrivavamo a mille
metri sul livello del mare, raggiungendo Tonara.
La partita della finale era fissata
per la domenica sera, dopo cena. Per le otto avevamo già sparecchiato ed
eravamo pronti ad incollarci alla tele. Venne levata quella sorta di coperta o
tovaglia che la proteggeva, ancora quell'elettrodomestico non era diventato il
despota in cui si sarebbe trasformato negli anni successivi, e quindi non aveva
ancora preso le redini dei discorsi e delle conversazioni familiari. Il
televisore se ne stava ancora lì buono, se non interpellato, del tutto
ignorato, placidamente spento per la maggior parte delle ore della giornata.
Ma era arrivato il suo momento, quindi
accesi il trasformatore che stava nel piano inferiore del carrello su ruote,
che immancabile in ogni casa sorreggeva sul piano superiore di vetro anche il
televisore stesso. Finalmente, con grande ritardo, lo schermo si accese, tanto
che ci stavamo già dimenticando di averlo avviato. In realtà la visione non era
delle migliori, in un bianco e nero sfuocato ed alquanto soffuso, le figure si
materializzarono definendosi confusamente. Si faceva fatica ad afferrare i
contorni del campo e le fisionomie dei calciatori che erano già in campo. Nelle
inquadrature da lontano era poi praticamente impossibile riconoscere la palla,
che non era che un punto bianco tra le varie sfumature di nero e grigio. A quel
tempo noi non avevamo mai avuto la televisione a colori, e io mi ero talmente
assuefatto all'assenza di colore, che la mia fantasia mi fece apprezzare
comunque l'azzurro delle maglie sul verde del campo. Il commento era
dell'immancabile Nando Martellini. La sua voce pareva lontanissima, come se
parlasse al telefono; infatti, avevo la stessa sensazione di quando chiamavo i
miei nonni materni in continente, nella cabina a gettoni della piazza. Mia
nonna era analfabeta e parlava quasi sempre in sardo, anche se in realtà quando
faceva dei rari discorsi in italiano era grammaticalmente irreprensibile,
merito della lingua sarda che aiuta a coniugare i verbi e costruire le frasi in
modo ineccepibile. Nel suo costume sardo totalmente tinto di nero perché era
vedova da anni, con i suoi manoni che sembravano due pale da panettiere, usava
sedere nella sua seggiola di legno e paglia vicino alla tele. Dovevamo
spiegarle tutto, anche quando guardavamo i film insieme, anche i più semplici.
Poi lei immancabilmente finiva sempre per parteggiare per l'assassino o il
cattivo di turno, apostrofandolo con il vezzeggiativo di meschineddu, non
capendo che non era il protagonista buono, ma che in realtà era il contrario.
Quella sera lei ci notava
inspiegabilmente agitati e osservava con sospetto quella fibrillazione che
serpeggiava tra noi fratellini. Dovemmo spiegarle per filo e per segno quello
che stava accadendo. Eravamo soli, io e le mie due sorelle: i miei erano scesi
al Noccioleto, un albergo che gestiva uno dei miei zii.
Che poi in effetti erano tutti zii e
io non ci capivo mai niente, perché la parola Tiu in sardo, (con la variante
Tia al femminile), identifica sia lo zio che il generico signore. In campo,
contro le maglie azzurre dell'Italia c'erano schierate quelle bianche,
ortodosse e granitiche della Germania Ovest: i pantaloncini era neri.
Per mio padre, per evitare confusioni
e con l'intento, (a sua totale discrezione), di renderci la vita più facile,
quella era più semplicemente la Germania buona, l'altra la Democratica,
nonostante il nome, era quella cattiva. E chi l'avrebbe detto a quel tempo,
quando non si faceva che leggere di rocambolesche fughe dall'altra parte del
muro o vedere decine di film di spionaggio ambientati a Berlino, che poi si
sarebbero riunite, e che per la terza volta negli ultimi anni, una volta di
nuovo insieme, i tedeschi sarebbero tornati a dettare legge in Europa.
Iniziò subito male, sullo zero a zero
sbagliammo un rigore: panico! Intanto Oriali era sempre a terra venendo
continuamente malmenato dai perfidi tedeschi. Bruno Conti, con i suoi capelli
lunghi, pareva Cavallo Pazzo e imperversava sulle fasce che oramai aveva fatto
sue, scodellando palloni su palloni al centro dell'area. Lui era il mio
preferito, il mio eroe. Sembrava un uomo dalla forza inesauribile, era
infaticabile e onnipresente, con il suo sguardo truce e severo, e quella faccia
dura e vissuta, appunto da capo Sioux - Oglala Lakota. Amai poi allo stesso
modo Daniele, suo figlio, il nostro storico capitano del Cagliari. Ma alla
fine, l'ennesimo di quei palloni serviti da Conti, stavolta posto lì, proprio
su un piatto d'argento, arrivò finalmente a destinazione, nel raggio di azione
di Rossi che lo cacciò in porta. La tensione iniziava a stemperarsi. Pertini, a
fianco del Re di Spagna, esultava senza ritegno di sorta, agitandosi
scompostamente sulle tribune. Poi fu la volta di Tardelli, del suo bellissimo
gol. Come si può dimenticare quel grido, quell'espressione, quella cavalcata al
centro del campo. È ancora oggi la rappresentazione della gioia dirompente che
può scatenare la palla quando si insacca in fondo alla rete. Un urlo
liberatorio, che scaccia la fatica e la tensione, quando si dimentica tutto e
poi una sferzata di energia ti scorre per tutta la spina dorsale facendoti
ancora correre più forte. Io penso che tutti, dai cortili di casa, sino ai
campi della Champions League, una volta nella vita, quando si è segnato,
correndo felici per non si sa dove, abbiamo pensato all'urlo che stravolgeva
l'espressione di Tardelli quella sera, immedesimandosi in lui.
Poi arrivò il gol di Altobelli. Infine,
anche uno dei tedeschi: ma sì, il gol della bandiera non si nega a nessuno,
neanche ai crucchi!
Dopo un tempo interminabile, che ci
parve un'era geologica, il fischietto dell'arbitro brasiliano fischiò tre
volte. Facendogli il verso, Nando Martellini ripeté anche lui tre volte:
Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo: non lo dimenticherò
mai!
Esplose la gioia! In campo Bearzot
venne portato in trionfo dai suoi giocatori, fin sugli spalti, dove quel
vecchietto partigiano gioiva come un bambino. E poi di riflesso, nel mondo che
era rimasto col fiato sospeso fino a quel momento, ovunque ci fosse un
italiano, nella penisola, in Sardegna e a Tonara nella nostra casa, l'euforia
contagiò tutti. Solo Zoff era compassato come suo solito, ricordo che la mia
sorellina si innamorò di lui, vedendolo così imperturbabile, una sorta di
alieno vulcaniano prestato al calcio. Mai una nazionale italiana era stata così
superiore, così votata alla vittoria: i mondiali del 2006 non furono poi niente
al confronto.
Ora erano diventati tutti matti dalla
felicità. Raggiungemmo i miei al Noccioleto, percorrendo le strade di Tonara,
dove una folla si era riversata dalle case: pareva di essere in un termitaio
brulicante.
Le macchine passavano a fatica, e
degli energumeni a petto nudo, in un posto di blocco improvvisato, le
obbligavano a passare sotto il tricolore. Pare pure che mio zio, tra i clienti
dell'albergo, imbracciò la doppietta e inizio a sparare in aria per l'euforia.
L'epilogo
E poi si diventò tutti italiani
orgogliosi, patriottici e devoti al tricolore. Le pubblicità dicevano di
comprare italiano, la nostra stima nazionale accrebbe a dismisura senza
peraltro essere supportata dalle adeguate giustificazioni.
Qualcuno si mise a cantare L'Italiano,
mentre qualcun altro rifece una stupida canzoncina tedesca, che diventò Da Da
Mundial '82, che in lingua teutonica recitava che tutti i calciatori erano
figli di Bearzot. Tutti appiccicavano l'adesivo della bandiera italiana sul
retro della propria utilitaria, i più, sbadatamente, invertendo i colori,
iniziando stupidamente con il rosso, senza contare quelli che l'azzeccarono per
caso. Gli economisti calcolavano quanti punti di PIL avevamo guadagnato grazie
alla vittoria, e tutti ci illudevamo che grazie a quella vittoria saremmo
diventati un paese più decente.
In realtà, a settembre la mafia, (e
chissà chi con lei), uccise Dalla Chiesa, facendo capire chi comandava e
avrebbe comandato ancora per molto in Italia. Craxi iniziò a legittimare la
Milano da Bere con l'Italia dei debiti, che ancora adesso dobbiamo pagare, non
sapendo bene in quale era, noi che eravamo ragazzini nel 1982, potremo andare
in pensione. E poi negli anni successivi, ogni volta che l'Italia del calcio andava
male, tutti a dire, vedrai sarà come nel 1982...
Invece, una Nazionale così non la
vedemmo mai più.
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