martedì 2 aprile 2019

Stefano Borghi - terzo prose


IL COLORE DEL VENTO



Quando Nina si liberò in volo, la gente per un attimo pensò che riuscisse a volare, tanto era composta, con le braccia aperte come ali, per accogliere il vento. Guardarono tutti in su, con le bocche spalancate e le mani a visiera, per farsi scudo dal sole. Osservarono Nina come nessuno aveva mai fatto in quel momento e anche se non posso esserne certo, penso che in quei suoi ultimi secondi di vita possa essersi sentita finalmente felice. Nina aveva solo quindici anni, qualche chilo di troppo, il naso imperfetto come i pensieri e gli occhi nascosti dietro a fondi di bottiglia, che si spendevano su parole che usava come tappeto magico, per quei viaggi senza biglietto che era bravissima a fare. La potevi trovare quasi ogni pomeriggio sulla sua panchina preferita, a fissare un punto indefinito o a modellare le ombre con le mani della fantasia. I sogni se li costruiva da sola, così come le parole per descriverli. Plasmava la realtà a suo piacere, metteva sempre tutto in ordine Nina, come se la vita fosse una stanza da riordinare. Camminava a testa bassa per non inciampare nelle parole degli altri, per non vedere quei sorrisi di scherno. Ma lei accettava tutto, come si fa a Natale, per educazione, quando si riceve un dono non gradito. Portava al guinzaglio la sua solitudine, e questa a un certo punto si affezionò così tanto a lei da non lasciarla più. La solitudine può essere un prezioso alleato a volte. Un dolore sottile che ti spinge verso una malinconia che ti schiaccia il cuore. Appena. Ed è quasi dolce il suo sentire. Ma quando diventa compagna fedele, e ti comincia a scavare dentro, allora le parole diventano difficili da dire e il cuore pesa così tanto che vorresti toglierlo dal petto e scagliarlo lontano per sentirti finalmente leggero. Credo di essere uno dei pochi ad aver rivolto la parola a Nina, durante i suoi ultimi mesi. Mi incuriosiva il suo modo di vedere il mondo da dietro quegli occhiali. Adoravo le cose che scriveva e la velocità con cui riempiva i suoi diari. Sembrava che volesse fare male ai fogli, con quella sua urgenza di comunicare e gridare al mondo: “esisto.” Non l'ho mai detto a nessuno, ma mi piaceva Nina. Sopratutto quando si tirava su i capelli e faceva le facce buffe. Mi piaceva quando cercava di sfiorarmi la mano e si avvicinava. Sentivo il suo profumo e dentro, qualcosa si accendeva e mi sentivo avvampare. Quando avevo voglia della sua compagnia sapevo dove trovarla. Mi guardavo attorno prima di avvicinarmi a lei e solo quando ero sicuro che in giro non c'era nessuno, mi sedevo li accanto. Credo che Nina sapesse del mio imbarazzo, anche se non mi ha mai detto nulla. Mi guardava in faccia, come una che sa già cosa vuoi dire, si spostava di lato e mi sorrideva. Il mondo finiva li, all'ombra di un platano, su di una panchina scarabocchiata da frasi oscene e cuori pieni di frasi d'amore prese in prestito. Il tempo volava via, parlando di niente. Oppure restando in silenzio, con gli occhi chiusi, ad ascoltare il vento. Nina adorava il vento, si lasciava accarezzare, annusandolo, come fanno i cani. Una volta mi chiese “ Secondo te che colore ha il vento?” “Nessuno” risposi pronto. Non ci misi molto a capire che la mia risposta l'aveva delusa. Poi per rimediare cominciai a snocciolare una sfilza di colori cercando di motivarne la scelta. Nina rideva, credo di non aver parlato mai così tanto come in quel pomeriggio. Ricordo che la sera ci sorprese, senza essere riusciti a stabilire quale colore potesse avere il vento. Il vento mi accompagnò anche durante la notte, fischiando sulle finestre della mia camera. Fu in quel momento che mi parve di sentire la voce di Nina. Il giorno dopo a scuola avrei voluto correrle incontro, ma non lo feci. Nina mi guardò appena e si tenne a distanza, non volle mettermi in imbarazzo. E io rimasi li, con il mio fisico da attaccapanni e i capelli spettinati, senza dire e fare niente, mentre le frasi degli altri la inseguivano, graffiandole il cuore. Mi sentii un vigliacco e quel pomeriggio non andai da lei. Rimasi a piangere la mia stupidità, guardando dietro un vetro che diventava via via sempre più appannato. Il mondo sembrava un puntino lontano e ostile. Fu in quel momento che capii cosa provava Nina. Non sono mai riuscito a diglielo. Nina decise di abbracciare il vento. Lo fece in quel pomeriggio di marzo sotto un cielo terso e bellissimo. Non mi importa di sapere quante persone hanno spinto Nina su quel terrazzo. So solo che io non sono riuscito a trattenerla e per questo non mi sento migliore di loro. Non sono riuscito a dirle che questo quartiere, fatto di case tutte uguali, di aiuole ordinate e finte, di alberi in fila come soldatini, mi sembrano un posto orribile senza di lei. Non sono riuscito a dirle che mi piaceva e che ero suo amico e che forse sarebbe bastato questo, salutarla all'uscita da scuola, fare un pezzo di strada con lei, aiutarla a portare il peso di quelle parole che la inseguivano sempre e la mettevano in un angolo. In due sarebbe stato tutto più semplice. Nina mi aveva teso la mano, ma io non avevo avuto il coraggio di prenderla, ma solamente sfiorarla. Ieri c'è stato il suo funerale. Ho osservato il corteo da lontano. Ho visto sua madre, piccina e stretta nelle sue spalle, seguire come un automa il feretro, a testa bassa. Ho capito che da quel momento anche lei avrebbe portato al guinzaglio la sua solitudine e non l'avrebbe più lasciata. Io non ho voluto mescolarmi alla gente, sono rimasto per un po' a guardare e poi sono andato sulla solita panchina. Ho cominciato a piangere, piangere così forte che per un attimo ho pensato che non sarei più riuscito a fermarmi. Poi l'ho fatto. Ho sentito il vento arrivare e allora ho chiuso i miei occhi, ho reclinato la testa e ho sentito le sue dita asciugarmi le lacrime. Sono rimasto così per moltissimo tempo. Quando ho riaperto gli occhi era già arrivata la sera. C'era ancora il vento. Ho pensato che ora Nina sa qual'è il suo colore.

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