sabato 10 agosto 2013

Prosa di Stefano Borghi, pluripremiato negli ultimi anni a Mellana

Sangue del mio sangue.


La strada sembrava non finire mai. Claudia guidava contratta, ma non aveva fretta di arrivare.
Procedeva lentamente, guardando sovente il paesaggio; cercava di godersi l’atmosfera primaverile.
Le strade, scarsamente trafficate in quella parte di campagna, invitavano a rilassarsi.
Ci provò, senza riuscirci.

Improvvisamente svoltò, seguendo le indicazioni che conducevano al centro del paese, accelerando decisa.
“E’ ora di andare” disse tra sé.

Quando giunse davanti all’ospedale fermò la macchina, ma non scese; rimase qualche minuto ad osservare il vuoto. Dopo riavviò il motore, inserì la marcia e ripartì.
La vettura uscì dal parcheggio e si allontanò veloce.

Claudia tornò a vagare, senza una meta ben precisa, per le strade del paese dove aveva abitato.
Era tanto che non tornava lì: fece un rapido calcolo, dieci anni almeno.
Girò per le vie; una volta il paese era un piccolo centro prevalentemente agricolo, molte case con cortile, tante fattorie, abitazioni singole disseminate qua e là, come funghi su di un immenso prato.
A vederlo ora non sembrava nemmeno lo stesso paese.
Nuovi negozi, nuova piazza, monumenti e case ristrutturate, nuove strade.
Claudia pensò che così era più bello.
“Siamo cambiati in meglio, entrambi.”
Era ora di andare; intendeva fare quella visita ed era inutile rimandare oltre.
Ma prima decise di passare dalla casa dove aveva abitato.

Imboccata la via, le sue mani cominciarono a sudare; il nervosismo, che sembrava essersi diluito nell’atmosfera rilassata che la circondava, tornò ad impossessarsi di lei.
Si arrestò davanti all’abitazione; non era cambiata molto, da allora.
Dall’altro lato della strada non c’era più il negozio di frutta e verdura, ma un fioraio, che con un’esplosione di colori allietava il grigio del marciapiede.
Fece un sorriso nervoso. “Mio padre odiava i fiori; odiava tante cose, lui.”
Osservò la finestra dove un tempo c’era stata la sua camera.
Era ora di tornare all’ospedale.
Suo padre stava morendo.


La ragazzina era seduta al centro del letto, intenta a ritagliare una serie di fogli colorati. Era molto brava, aveva scoperto di avere una passione per gli origami.
La madre di una sua compagna di classe le aveva insegnato alcuni trucchi e lei, con una discreta capacità manuale, riusciva a fare cose deliziose.
Al suo fianco, un romanzo rosa, che aveva appena finito di leggere; il cuore era ancora pieno di sensazioni e immagini d’amore.
Da quei fogli colorati voleva ritagliare la scritta “Ti amo”; l’avrebbe poi incollata sul suo diario, vicino alla foto di Marco, adorato compagno di scuola.
Suo padre si presentò sulla soglia della camera, con un’aria trasandata e una faccia scura che non prometteva niente di buono.
“Che cosa stai facendo?”
“Origami” rispose lei, spaventata dal tono della voce.
Il padre, con un falso sorriso, prese il libro che stava accanto a sua figlia, sfiorandole volutamente una gamba.
“Vediamo cosa leggi.”
Guardò la copertina, soffermandosi qualche istante, poi lo aprì e si mise a leggere qualche riga; infine lo chiuse, restando qualche secondo a fissarla in silenzio.

A Claudia quei secondi sembrarono eterni.
Improvvisamente il padre, con violenza inaudita, scagliò il libro contro il muro, urlando come un ossesso.
“Quante volte ti devo dire che non devi leggere questa roba? Tu devi studiare, studiare! Hai capito?”
Il padre puntava minaccioso il dito contro Claudia, che si era ritirata verso la testiera del letto, cercando di farsi più piccola possibile.
Avrebbe voluto sparire, o essere invisibile, ma quella non era una storia presa da un libro, era la realtà.
Il padre si avvicinò, minaccioso. Con un gesto veloce e improvviso strappò i fogli colorati che ancora Claudia stringeva tra le mani.
“Guarda cosa stai facendo! Pezzi di carta, stupidi pezzi di carta colorata, fiori di carta, libri insulsi… non sai fare altro!”
Claudia tentò di giustificarsi, ma lui non glielo permise.
“Stai zitta! Ti ho vista sai, ti ho vista mentre passeggiavi con quel tuo amichetto; vi siete anche dati un bacio, per strada! Sei una puttana! Una puttanella da due soldi, che fa di tutto per screditarmi; si fa vedere in giro con i ragazzi, lei; ma adesso t’insegno io, sai…”
L’uomo cercò di afferrare la ragazza per una gamba; Claudia si difese scalciando, non voleva subire le attenzioni morbose di suo padre ancora una volta. Che la picchiasse, anche con la cinghia, ma sentirsi toccare ovunque no, questa volta no..

La reazione di Claudia fece imbestialire ancor di più l’uomo, che andò a chiudere a chiave la porta della camera.
“Adesso ci penso io a te” disse, con fare minaccioso.
Claudia cominciò ad urlare e a chiamare sua madre; ma, come per altre volte, non sarebbe venuto nessuno in suo aiuto.
“Ti prego papà, no! Ti prego, non ho fatto niente, niente..”
L’uomo era già sul letto e l’aveva raggiunta; Claudia fu colpita da un violento schiaffo, poi da un altro, e un altro ancora…La violenza fu tale che la ragazza cadde dal letto, battendo la testa.
Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi; si raggomitolò su se stessa, confusa e impaurita e l’uomo le fu di nuovo addosso, con una serie di calci che la fecero urlare.

Non avrebbe raccontato che era caduta dalle scale. No, questa volta no..

Il padre l’afferrò saldamente e l’alzò di peso, ributtandola sul letto; si mise a cavalcioni sopra di lei, tenendole ferme le mani.
Claudia chiuse gli occhi; sentiva la puzza di sudore di suo padre, il suo alito che sapeva d’alcool.
Sentì le labbra di lui cercare le sue, indugiare sul suo collo, sui capelli.
Il respiro di suo padre si era fatto più rumoroso e pesante.
Claudia provò ribrezzo, sentì che stava per vomitare.

Urlò.
Urlò la propria disperazione, la rabbia, la frustrazione.
Urlò la propria paura.
Tentò di scacciarla, con un solo grido, allontanarla dai propri polmoni, dalle viscere, dalla mente.


Il padre la colpì di nuovo violentemente, una, due, più volte, annullandone ogni reazione.
Riducendola ad una bambola di pezza singhiozzante.

Claudia sentiva in bocca il sapore metallico del sangue.
Poi sentì le mani forti e ruvide di lui, che cominciavano a toccarla.
Non poteva far nulla per impedirglielo; strinse ancora più forte gli occhi.

“Brava bambina, lascia fare a me, ci penso io…”

Cominciò ad aprirle la camicetta, bottone dopo bottone, con una lentezza insopportabile.
“Toccami, masturbati e vattene via” pensò tra i singhiozzi Claudia. “Fai quello che vuoi e vai via,
ma fai in fretta.”

Ma quella volta non andò così. L’uomo non si fermò; le sue mani scesero fino ad infilarsi tra le gambe della figlia; lei le sentì infilarsi tra gli slip, premere. Le sue dita entrarono in lei. Poi lui si mise sopra, continuando a ripetere: “Ci penso io, ci penso io..”
Sentì la cerniera dei pantaloni di lui aprirsi con un rumore secco.
Lo sentì strofinarsi sul suo ventre e poi scendere più in giù; si sentì aprire, violare.
Claudia ebbe solo la forza di urlare un ultimo no, prima di perdere i sensi.


La macchina rallentò.
Claudia entrò nel parcheggio dell’ospedale.
Non era sicura che avesse un senso essere lì. Fare quello che stava per fare.
Erano dieci anni che non vedeva suo padre e nemmeno sua madre, silenziosa, consenziente presenza di ordinari giorni di violenza.
Non l’aveva denunciato per quello che le aveva fatto.
La madre e i parenti più stretti lo avevano impedito. Troppo rumore, troppe chiacchiere.
Un disonore così grande non sarebbe stato possibile da sopportare.
Ma si erano accorti che la ragazza non avrebbe retto, non sarebbe riuscita a nascondere una verità troppo grande per lei.
Si sarebbe confidata con qualche compagno, con qualche insegnante impiccione.
Sarebbero stati guai.
Decisero d’allontanarla.


Degli zii, che abitavano lontano dal paese, si erano presi cura di lei, l’avevano aiutata, difesa, coccolata.
Le avevano fornito insegnanti di sostegno per recuperare un apprendimento scolastico deficitario.
Le avevano pagato le sedute dallo psicologo.
L’avevano protetta, aiutata a costruirsi un futuro; adesso lei era una donna.
La parola fine a quella storia, se mai ci fosse stata, l’avrebbe dovuta scrivere da sola.


In tutti quegli anni non aveva mai avuto il coraggio di affrontare suo padre, nemmeno per telefono.
Il solo pensiero la faceva stare male, non era ancora guarita.
Ma ora suo padre stava per morire: il cancro se lo stava portando via, ed era stato lui a chiedere della figlia, a desiderare un ultimo incontro.
Lo aveva detto a tutti i parenti che erano andati a trovarlo.
“Cercate Claudia, ditele che la voglio vedere, devo chiederle perdono.”

Si erano mossi tutti, per quell’incontro.
Anche il parroco del paese aveva fatto la sua parte.
Claudia aveva pensato amaramente che quando era stata lei ad aver bisogno d’aiuto nessuno aveva fatto nulla.

Mentre saliva le scale il cuore prese a battere più forte; l’odore del disinfettante sostituiva quello del vino, l’odore di suo padre.
Sudava.
Un piano, un altro…

La mano di suo padre sotto la sua gonna.
“Vieni bambina mia, ci penso io…”
Nemmeno fosse Dio.

La porta si aprì su di un corridoio ampio e lucido.

“Puttanella, sei solo una puttanella!”

Sua madre e alcuni parenti aspettavano fuori dalla porta; nel vederla, si girarono tutti verso di lei.
Qualcuno abbozzò un sorriso.

“Adesso t’insegno io, come si fa..”
In bocca il sapore del sangue.

Per un attimo rallentò il passo e prese a guardarli; sua madre le si fece incontro.

“Mamma, aiuto! Mamma!”
Mamma non veniva mai …

Sua madre le fu di fronte, aprì le braccia.
Claudia si fermò ad un passo, quel tanto che bastò per evitare il contatto.
Sua madre non si perse d’animo e, con un sorriso che sembrava qualcosa di simile alla gratitudine, disse: “Grazie di essere qui; ti aspetta, sono i suoi ultimi giorni. So che per te è difficile, ma è pur sempre tuo padre.”

“Adesso t’insegno io, come si fa..”

Claudia passò oltre, dirigendosi decisa verso la porta della camera; i parenti si fecero di lato per farla passare
Pochi passi ancora.

Lo sentì dentro di lei, muoversi con violenza, un dolore caldo e liquido e la sua voce soddisfatta.

La porta si aprì; suo padre girò la testa e subito s’illuminò di uno stanco sorriso.
Claudia per qualche istante faticò a riconoscere in quell’uomo suo padre.
Un volto scavato e pallido, capelli radi e bianchi; solo lo sguardo sembrava lo stesso.
Penetrante e inquisitore.
Claudia fece fatica a sostenerlo.

“Claudia, ragazza mia, fatti vedere! Vieni, siediti qui, vicino a me. Quanto ho sperato di rivederti!”
Una mano ossuta sbucò dal lenzuolo tendendosi verso di lei. Dopo un attimo d’esitazione Claudia la prese. Sentì un tremito al contatto, ma non seppe dire chi era dei due a tremare.
Si sedette, accanto a quello che era stato il suo incubo, la figura con cui aveva lottato per tante notti e che di tanto in tanto tornava a visitare i suoi sogni.

Eccolo lì, il fantasma delle sue notti.
Poche ossa, malconce, tenute insieme da una pelle giallognola.

Non faceva paura.
Eppure era lo stesso uomo che aveva violato la sua intimità, lasciando ferite così profonde da sembrare squarci, abissi infiniti.
Era colui che aveva preso più di quanto fosse immaginabile prendere.
Le sue mani erano andate così in profondità da violentare la sua stessa anima.

Ma non faceva paura.
Quell’uomo che non aveva più chiamato padre, ma mostro, parlava.
Stava parlando con lei.

Il mostro non faceva paura.
Chiedeva della sua vita, dei suoi studi, dei suoi giorni. Ma con quale diritto?
Claudia si trovò a rispondere e, ad un certo punto, le venne da ridere; sembrava un gioco, uno stupido e inutile gioco.

“Adesso devo andare” disse improvvisamente.
“Claudia…senti, io non sono bravo con le parole, ma…insomma, morirei più contento se tu potessi darmi il tuo perdono.”
Ci fu un attimo di silenzio; poi suo padre riprese:
“Perdonami, Claudia, perdonami per il male che ti ha fatto questo tuo vecchio padre... Puoi farlo per me?”

Claudia lo fissò in silenzio, senza abbassare lo sguardo; fu lui a distogliere il suo.
“Ti ho portato una cosa” disse, mettendo le mani nella borsetta.
Il padre osservò incuriosito e sorpreso.
Nelle mani di Claudia vi erano dei fogli di carta colorata.
“Ti ricordi?” disse la donna, con un sorriso ironico, “i miei origami.”
“Certo, quegli stupidi aggeggi di carta; non dirmi che li fai ancora, allora facevi tanti fiori.”

Claudia aggiustò quello che sembrava solo un mucchietto di carta colorata, lo avvicinò al viso di suo padre.
Era un fiore, dai grandi petali; sopra ad essi c’erano delle lettere.
Suo padre si sforzò di leggere: le lettere componevano una parola, anzi due.
“Ti odio”

Il padre guardò sua figlia, sbigottito.
“Cosa significa questo? Forse non vuoi darmi il tuo perdono? Eppure ti sto implorando di farlo.”

“Quante volte sono stata io ad implorare te?” chiese Claudia, dirigendosi verso l’uscita.
“Dove vai? Aspetta, non puoi andartene così, non puoi farmi questo!”

Claudia si fermò; calma, si voltò verso suo padre.
“Certo che posso papà; del resto, sono sangue del tuo sangue.”
Senza aggiungere altro uscì.
La porta alle sue spalle si chiuse.
Per sempre.

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